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2 giugno 2019 - Analisi del voto - Le elezioni europee del 26 maggio riflettono in forma distorta la dinamica di classe sullo sfondo della grande crisi sociale. L'arretramento profondo del movimento operaio, dei suoi livelli di mobilitazione e di coscienza, e a maggior ragione la mancata risposta anticapitalistica alla crisi, hanno dirottato il malcontento di ampi strati sociali e le loro domande di cambiamento verso sbocchi reazionari o innocue illusioni. Lo scenario europeo e il contesto italiano sono entrambi paradigmatici.
LA DINAMICA DEL VOTO EUROPEO
Su scala continentale, con poche eccezioni, prosegue e si acuisce la crisi dei partiti tradizionali del Partito Popolare Europeo (PPE) e del Partito Socialista Europeo (PSE), entrambi gestori della lunga stagione dell'austerità e per questo identificati con l'establishment. Da un lato la crisi della CDU, del PP spagnolo, di Forza Italia; dall'altro il collasso di SPD, della socialdemocrazia francese, dello stesso laburismo inglese. Ma la crisi dei partiti tradizionali non viene capitalizzata a sinistra, ma da forze reazionarie o dai partiti verdi.
Le destre reazionarie e nazionaliste nel loro variegato spettro (conservatori, lepenisti, area Farage) non conoscono uno sviluppo omogeneo, e in alcuni paesi addirittura arretrano (Austria, Spagna); ma complessivamente si consolidano (Francia) e in altri casi sfondano (Gran Bretagna e Italia). Per non parlare dello straordinario successo del partito di Orban in Ungheria, che pur essendo parte ancora del PPE, va considerato a pieno titolo una componente di punta della reazione europea. Al di là delle diverse specificità nazionali, si raccoglie attorno a questi partiti un vasto blocco sociale a egemonia reazionaria che subordina a sé ampi settori della classe lavoratrice e della popolazione povera, urbana e rurale.
I partiti verdi conoscono un'avanzata generale, a scapito sia dei partiti borghesi tradizionali ma soprattutto della socialdemocrazia (SPD) e delle forze collocate alla sua sinistra. Essi capitalizzano in larga misura l'ondata della mobilitazione giovanile sui cambiamenti climatici (fenomeno Greta), che in assenza di un riferimento di classe si è raccolta attorno a un ambientalismo piccolo-borghese più o meno progressista, talvolta scopertamente liberista, in ogni caso estraneo alle preoccupazioni sociali del lavoro. Un voto principalmente cittadino, radicato tra gli studenti e nella classe media acculturata. L'aumento diffuso dell'affluenza al voto su scala continentale (non in Italia) è in parte un risvolto di questo fenomeno: enorme in Germania, rilevante in Francia, diffuso nel Nord Europa.
In questo quadro generale, le formazioni a sinistra della socialdemocrazia (con l'unica eccezione del Bloco de Esquerda portoghese) non solo non capitalizzano neppure in minima parte la crisi di PPE e PSE, ma conoscono un generale arretramento. A volte a vantaggio della socialdemocrazia stessa (Spagna), a volte dei Verdi (Germania), a volte in direzioni diverse e combinate (Francia).
Diversi fattori hanno concorso a questo esito.
In primo luogo la caduta della bandiera di Tsipras, che con la sua capitolazione alla Troika ha privato la sinistra europea di una ragione pubblica riconoscibile, a tutto vantaggio dei nazionalismi reazionari.
In secondo luogo, il fallimento clamoroso di tutte le operazioni populiste di sinistra: il disegno di Mélenchon di capitalizzare elettoralmente il movimento spurio dei gilet gialli sventolando la bandiera tricolore e sposando lo sciovinismo antitedesco si è risolto in un crollo; l'arretramento netto di Podemos in Spagna ha confermato la stessa legge. La narrazione populista concima per sua natura il terreno della destra, non della sinistra. Il sovranismo “di sinistra” è una contraddizione in termini che il voto semplicemente rivela.
Infine, la flessione della sinistra europea è un sottoprodotto del ripiegamento sociale. Syriza e Podemos erano stati in larga misura un sottoprodotto di movimenti sociali. Il tradimento delle loro ragioni (Grecia) e in ogni caso il riflusso sociale hanno prosciugato il bacino di queste formazioni.
IN ITALIA IL VOTO PEGGIORE
Il voto italiano è stato il voto peggiore in Europa.
Tutti gli elementi dello scenario europeo hanno trovato in Italia una espressione concentrata e radicale, a destra. Già le elezioni politiche del 4 marzo 2018 avevano sospinto una soluzione politica d'eccezione: l'Italia è l'unico paese imperialista d'Europa a essere retto da forze populiste reazionarie con base di massa. Ora il voto europeo del 26 maggio fotografa un ulteriore peggioramento del quadro: non solo il governo Conte conserva la propria base complessiva di consenso (oltre il 50% dei votanti), ma al suo interno si sviluppa la componente più reazionaria. Per di più in un quadro in cui l'unico contraltare alla reazione appare il PD liberal-borghese, con la sinistra politica ridotta a una larva.
È l'esito elettorale più a destra del dopoguerra italiano.
LA LEGA, PARTITO DELLA NAZIONE
L'ascesa della Lega non ha eguali in Europa. Per la sua progressione straordinaria (dal 17% al 34% in un anno di governo, con l'aumento di oltre tre milioni di voti assoluti, a fronte del calo di affluenza di 7 milioni di elettori); per il suo sfondamento su scala nazionale (aumento ulteriore al Nord, allargamento al Centro, quadruplicazione delle percentuali di voto al Sud); per il suo radicamento nell'Italia profonda della provincia, delle cittadine, dei piccoli paesi, delle campagne. La Lega è oggi “il partito della nazione”. Il suo blocco sociale si è esteso: dietro l'egemonia della piccola-media impresa dei distretti, la Lega raccoglie un settore più ampio della classe operaia dell'industria e vaste fasce di popolazione povera del Meridione. È paradossale: nel momento stesso in cui il suo progetto di autonomia differenziata colpisce in primo luogo (ma non solo) la popolazione povera del Sud, significativi settori del popolo del Sud si rivolgono alla Lega, che oggi nel Meridione supera il PD. In parte irretiti dal richiamo razzista (il voto di Riace e Lampedusa è emblematico), in parte richiamati dalle suggestioni regionaliste, in parte delusi dalle speranze riposte nel M5S e dunque alla ricerca di un riferimento nuovo. La possibile ricollocazione al fianco della Lega di potentati locali, clientelari o malavitosi, completa il quadro.
Colpisce su scala nazionale una dinamica di espansione elettorale in tutte le direzioni. La Lega continua a svuotare Forza Italia (in crisi verticale), capitalizza il 14% del voto in uscita dal M5S, soprattutto nei luoghi di lavoro a partire dalle fabbriche, prosciuga persino il bacino elettorale delle formazioni fasciste CasaPound e Forza Nuova. L'unica eccezione è quella di Fratelli d'Italia, non a caso in concorrenza ma anche in convergenza con la Lega, e per questo socio beneficiario della spinta reazionaria.
Il voto alla Lega non è più solo un voto protestatario contro le élite nazionali ed europee. È naturalmente anche questo, ma non solo. È anche e sempre più un voto d'ordine. Contro "l'invasione” e “i delinquenti”, “legge e ordine” e “legittima difesa”: questa è l'insegna. Il ministro degli Interni in divisa di polizia non è solo un'offerta di rappresentanza agli apparati repressivi dello Stato, è anche una promessa di ordine e disciplina nella società italiana, come il ritorno dei grembiulini a scuola. Ordine, disciplina e tradizione. Il bacio al crocifisso, le preghiere alla Madonna, l'esaltazione del presepe, l'idolatria della famiglia tradizionale celebrata a Verona, non sono affatto esagerazioni retoriche, casualmente sfuggite. Sono un messaggio lanciato all'Italia dei piccoli borghi antichi, spaventati dalla modernità, nostalgici della tradizione. Sono ingredienti di un impasto ideologico mirato a celebrare la reazione, nel senso letterale e storico di questo termine, e a raccogliere attorno ad essa il blocco sociale più vasto. Non a caso è lo stesso blocco sociale su cui si reggono il regime di Orban e il regime polacco, due regimi che il progetto di Salvini mira ad emulare. Non certo il fascismo, ma neppure solamente il ritorno a un centrodestra con guida leghista. Bensì un regime reazionario di massa, con tratti bonapartisti (regime neoautoritario centrato attorno al capo).
LE FORTUNE DEL PD
In alternativa alla Lega è apparso il PD liberale. Un partito borghese, legato a doppio filo alle classi dominanti d'Italia e d'Europa, protagonista delle lunghe politiche di austerità, irriformabile nella sua natura sociale. Ma riverniciato dalla segreteria Zingaretti come “sinistra progressista” in contrapposizione a Salvini. Il voto del 26 maggio ha visto un relativo successo di questa truffa. Dal punto di vista elettorale, il PD non guadagna voti assoluti rispetto a un anno fa, anzi ne perde. Ma a fronte di un calo consistente dell'affluenza al voto – unico caso in Europa – le percentuali del PD aumentano nettamente, dal 18% al 22%. Il PD non conquista nulla sulla sua destra, il travaso dal M5S è minimo, nonostante il tracollo dei pentastellati. Recupera invece settori di elettorato di sinistra che il renzismo aveva respinto e allontanato, che si erano indirizzati verso Liberi e Uguali o si erano rifugiati nell'astensione (il 10% del voto PD proverrebbe secondo l'Istituto Cattaneo dagli astenuti del 2018). L'immagine di un PD derenzizzato e più attrattivo, a sinistra si è unita purtroppo al richiamo del voto utile contro Salvini.
Ma il successo politico di Zingaretti va oltre il dato elettorale: il recupero percentuale del PD depotenzia nell'immediato i disegni scissionisti di Matteo Renzi, che permangono, e soprattutto si combina col netto sorpasso del M5S. Un sorpasso che avviene in discesa, grazie al tracollo del M5S, ma avviene. E questo politicamente conta. Il PD liberale può oggi cercare di presentarsi come il baricentro dell'alternativa a Salvini, attorno a cui raccogliere le sparse membra di un nuovo centrosinistra: i liberali di Bonino, i Verdi, e le sinistre disponibili all'ennesima subordinazione. Ma anche, eventualmente, un domani, un nuovo partito di centro borghese uscito dal laboratorio di Calenda e affini.
Il problema più grosso del PD, e del ricostituendo centrosinistra, è il confine rigido del proprio blocco sociale. Un partito che regge nella maggioranza delle grandi città, grazie al voto di settori impiegatizi, in particolare nella scuola, e di un'opinione pubblica progressista di classe media, ma incapace di proiettarsi oltre le soglie di quel recinto. La leva retorica dell'opposizione a Salvini e la finzione di una “sinistra” ritrovata possono funzionare (purtroppo) in rapporto al popolo di sinistra, ma non smuovono minimamente il blocco sociale reazionario e la sua avanzata. Il voto del 26 maggio fotografa anche questo.
IL CROLLO DEL M5S
Il M5S è il grande sconfitto del 26 maggio.
La sconfitta ha proporzioni elettorali enormi: in un solo anno, sei milioni di voti in meno, il 43% del proprio elettorato. Un crollo diffuso su scala nazionale, una grande fuga in direzioni diverse: ma soprattutto verso la Lega (il 14% del voto in uscita), e molto di più verso l'astensione (40%). La dinamica del voto del M5S è speculare a quello della Lega. Mentre la Lega si trasforma in partito della nazione, il M5S restringe il proprio baricentro nel sud d'Italia, l'esatto capovolgimento delle origini nordiste del M5S. Ma proprio nel Sud, pur restando il primo partito, conosce uno smottamento profondo. Il reddito di cittadinanza ha fatto solo in parte da paracadute. Un blocco sociale costruito attorno all'egemonia delle libere professioni sulla massa dei disoccupati e della popolazione povera ha subito una frattura del proprio architrave proprio nel Sud, a volte, come in Sardegna, con un travaso diretto verso la Lega, più spesso in direzione del semplice abbandono passivo. La diminuzione dell'affluenza al voto è stata in larga parte l'effetto diretto del crollo Cinque Stelle e si è concentrata soprattutto nel Meridione, mentre nel Nord l'ambizione di Di Maio di combinare voto operaio e voto dell'impresa ha subito un rovescio su entrambi i versanti per mano della Lega. Di certo il grande invaso del M5S è esploso a destra. Il M5S è stato in definitiva, elettoralmente, una stazione di transito verso la Lega. Tutti coloro che a sinistra, e persino nell'estrema sinistra, salutavano il M5S come forza di sinistra, o comunque democratico-progressista, sono di fronte alla disfatta delle proprie tesi.
Peraltro la crisi del M5S è ben lungi dall'essersi conclusa. Il M5S è un partito in cerca d'autore, privo di una ragione pubblica riconoscibile. Partito anti-casta, partito degli onesti, partito sociale, persino partito di sinistra che fa argine alla destra, tutte le maschere sono state indossate con cinica disinvoltura in un turbinio interminabile di pose teatrali in funzione dei sondaggi. Ma larga parte del pubblico ha abbandonato il teatro, e non sarà facile richiamarlo.
Il M5S è un partito privo di sbocchi politici. La continuità di governo lo espone alla dominazione di Salvini e a nuove disfatte. Una rottura col governo rischia di regalare a Salvini un nuovo raccolto. Tutti i nodi si stringono attorno al collo del gruppo dirigente grillino, che per la prima volta vede chiamata in causa la sua stessa costituzione materiale e catena di comando. Di Maio può farsi incoronare dal plebiscito web con il viatico di Grillo e Casaleggio, pur di reggere il confronto nei gruppi parlamentari, ma proprio questo dimostra che il vaso di Pandora si è aperto. Richiuderlo sarà molto difficile, soprattutto senza una prospettiva politica indolore.
LA DISFATTA DELLA SINISTRA
A sinistra del PD si è consumata l'ennesima disfatta.
Il PCL ha dato indicazione di voto a sinistra del PD contro le destre reazionarie e in alternativa ai liberali, ma senza mai tacere il proprio giudizio critico. A maggior ragione non lo tacitiamo ora.
Le liste de La Sinistra (Rifondazione Comunista e Sinistra Italiana) hanno riportato 1,7%, in voti assoluti meno della metà di quanto raccolto poco più di un anno fa alle elezioni politiche a sinistra del PD, che già rappresentava il livello minimo raggiunto dalla sinistra italiana nella sua storia politica. Il richiamo del voto utile contro Salvini del PD zingarettiano, la paura di disperdere il voto, persino il richiamo della lista Verde (un 2,5% dal nulla) hanno sicuramente privato La Sinistra di un bacino di consenso. Tanto è vero che nelle elezioni amministrative, dove minore era la paura di dispersione e il confronto era spesso col PD renziano (per esempio in Toscana), lo stesso elettorato schieratosi con Zingaretti alle europee si è ricollocato a sinistra in contrapposizione al PD (Firenze, Livorno).
Ma non è il fattore Zingaretti che spiega da solo il risultato. Altri fattori hanno concorso: l'ennesimo accrocchio di laboratorio attorno all'ennesima sigla, ogni volta diversa, e sconosciuta alla massa; ma anche e soprattutto la rimozione di una linea di demarcazione classista che motivasse la ragione sociale della sinistra politica e potesse far argine al PD liberale (e ai Verdi). La dispersione della centralità del riferimento di classe è stata una costante della cosiddetta sinistra radicale proprio negli anni della grande crisi capitalista. La classe lavoratrice è stata rimpiazzata dalla cittadinanza progressista, con qualche tinta sociale. Tutte le sperimentazioni di laboratorio del decennio (Arcobaleno, Rivoluzione Civile con Ingroia e Di Pietro, L'Altra Europa con Tsipras insieme a Barbara Spinelli...) hanno recitato, in forme diverse, questo spartito. La lista improvvisata de La Sinistra, seppur con un profilo più politico e meno civico, non si è discostata, per impostazione e programmi, da quel solco, né poteva in ogni caso rimuoverne il lascito. Per di più col gravame del riferimento a uno Tsipras ormai compromesso nell'austerità e infatti usato dallo stesso PD e dal PSE (“una maggioranza in Europa da Macron a Tsipras”). Poteva essere Tsipras la linea di demarcazione dal PD? La presa del voto utile per Zingaretti è stata agevolata anche da questo.
Il PC stalinista di Marco Rizzo ha riportato lo 0,88%. Un buon risultato, sia in percentuale che in voti assoluti, con un netto incremento rispetto alle elezioni politiche del 2018.
È la misura della capacità attrattiva del “richiamo comunista” su un settore certo minoritario ma reale dell'elettorato di sinistra. È uno spazio che si sovrappone in larga misura a quello del Partito Comunista dei Lavoratori, e che Rizzo ha potuto occupare anche in ragione della nostra assenza, causata da una legge elettorale reazionaria. La campagna promossa da Rizzo (all'insegna di “è tornato il partito comunista”) ha apertamente investito in questo spazio. Il suo carattere completamente abusivo (da parte di chi sostenne i governi Prodi e D'Alema, e dunque i bombardamenti su Belgrado) non inficia il dato di realtà: un piccolo partito stalinista ha messo piede attorno al trasformismo di un camaleonte.
Resta il fatto che, complessivamente, la sinistra politica ha registrato una débâcle senza precedenti. È una débâcle inseparabile dal quadro generale di deriva reazionaria dello scenario politico, nel corso di una lunga parabola. Una parabola innescata dal sostegno suicida al governo Prodi da parte dei gruppi dirigenti della sinistra politica e sindacale. Un passaggio che ha distrutto Rifondazione Comunista abbattendo ogni argine e spianando la strada a un arretramento verticale del movimento operaio e della sua coscienza. Arriva oggi a valle la valanga formatasi allora, alimentata poi dalla grande crisi sociale e dall'assenza, in essa, di un'opposizione di classe: ciò che ha dirottato a destra larga parte del malcontento operaio e popolare. Renzismo, grillismo, leghismo hanno rappresentato, in rapida successione, il riflesso politico di questa dinamica. La sinistra, nel suo complesso, ne è stata vittima. I suoi gruppi dirigenti, politici e sindacali, pienamente responsabili, senza eccezioni.
Non si può rimontare la china di questa disfatta senza combinare il lavoro di unificazione e rilancio dell'opposizione di classe e di massa con la costruzione di una direzione alternativa del movimento operaio. Solo l'ingresso sulla scena della classe lavoratrice, su base di massa, attorno a una propria piattaforma di mobilitazione, può unificare le lotte di resistenza, scomporre i blocchi sociali reazionari, liberare i lavoratori stessi dal richiamo delle sirene populiste. Ma solo la costruzione di un partito comunista e rivoluzionario, estraneo ai gruppi dirigenti della disfatta, può connettere il rilancio dell'opposizione alla prospettiva del potere dei lavoratori e delle lavoratrici, l'unica vera alternativa alla reazione.