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La lotta contro i licenziamenti

 


Per una risposta unitaria che sia pari all'attacco

31 Agosto 2021

Un contributo che il Partito Comunista dei Lavoratori sottopone alla riflessione e alla discussione di tutte le organizzazioni del Patto d'azione anticapitalista, di cui siamo parte

Cari compagni e care compagne,

Crediamo sia necessario aggiornare con uno sguardo d’insieme lo scenario che si presenta al piede di partenza dell’autunno dal punto di vista delle lotte per il lavoro. Anche per evitare, come talvolta è accaduto in passato, di dover rincorrere gli eventi, e di essere costretti a forme di precipitazione della nostra discussione.

Il padronato sviluppa la propria offensiva dopo lo sblocco dei licenziamenti, gentilmente concesso dalla burocrazia sindacale con uno scandaloso “avviso comune”. I licenziamenti non saranno un fatto generalizzato e indistinto, perché una parte della forza lavoro è stata già liquidata con il mancato rinnovo di un milione di contratti precari, e per via degli effetti compensativi parziali del rimbalzo economico in atto. Tuttavia, non saranno licenziamenti ordinari. Si concentreranno in settori centrali dell’industria e del proletariato italiano. Nel settore dell’automotive (dalla componentistica a Stellantis), interessato alla profonda riorganizzazione della produzione automobilistica; nella siderurgia, che resta in forte sovrapproduzione globale; nell’industria tessile e della moda, fortemente esposti sul terreno dell’esportazione, dove lo sblocco è previsto per il 31 ottobre. Parallelamente investiranno il settore dei trasporti (Alitalia) e del credito (MPS), interessati a forti processi di concentrazione capitalistica.

Questa offensiva si dispiega oltretutto senza disporre di una rete tempestiva di ammortizzatori, come chiedeva la burocrazia sindacale. L’operazione ammortizzatori dovrà entrare a bilancio nella prossima Legge di stabilità, assieme alle nuove misure sulle pensioni, e non potrà essere operativa prima del 2022. Peraltro, gli ammortizzatori in discussione si configurano come atterraggio morbido dei licenziamenti e creazione di nuovo precariato (allargamento della cassa differenziato per tipologia d’impresa, contratto di espansione come scivolo pensionistico a perdere, contratto di rioccupazione con declassamento incorporato attraverso l’apprendistato) più che come protezione sociale dei licenziati. La probabile revisione peggiorativa del reddito di cittadinanza, con l’obbligo di accettazione dei contratti stagionali, su richiesta delle imprese, completa il quadro. Per di più anche gli spiccioli della “riforma” saranno messi a carico dei salariati, perché la pressione sul debito pubblico italiano limita lo spazio di manovra del governo, già alle prese con la promessa corale di un'ulteriore detassazione del capitale (cancellazione IRAP e riduzione IRES).

La legge in gestazione contro le delocalizzazioni (Orlando-Todde) punta a normalizzare i licenziamenti dal punto di vista procedurale: tempi di preavviso, piani di mitigazione delle ricadute occupazionali, coinvolgimento di istituzioni e sindacati nella gestione dei licenziamenti. La minaccia di multe e di privazione dei contributi pubblici per chi non seguisse la procedura prevista è poco più che simbolica per aziende che vogliono chiudere. Peraltro, la procedura non riguarda le aziende che chiudono per crisi economico-finanziaria e le delocalizzazioni interne alla UE, tutelate dalla libera concorrenza continentale. Per di più la legge è ora sotto attacco di Confindustria e sarà rivista al ribasso, con la cancellazione delle sanzioni, già scomparse, non a caso, nell’ultima versione della legge. In altri termini, com’era prevedibile, si tratta di una truffa, al pari della legge Florange (Francia 2014) cui si ispira.

Il punto è come rispondere a questa specifica linea di attacco, sul piano della proposta e dell’azione, a partire dalle esperienze di lotta che già si sono prodotte nell’ultima fase.
Pensare che l’azione di sciopero generale dell’11 ottobre sia in sé “la risposta” sarebbe profondamente sbagliato. L’azione di sciopero del sindacalismo di classe è importante, tanto più perché finalmente unitaria. Tutte le organizzazioni del Patto d'azione sono impegnate, senza riserve, a sostenerla e promuoverla. Ma occorre capire come si prepara, con quali processi interferisce e si incrocia, quali prospettive dischiude. La stessa valenza concreta dello sciopero dipenderà in larga parte da questo

Il quadro della lotta di classe resta complessivamente negativo, ma nell’ultima fase si sono prodotti in controtendenza alcuni fatti rilevanti.

Il ciclo di lotta della logistica, a lungo isolato, ha rotto il proprio isolamento. Prima l’aggressione squadrista di Tavazzano e alla Texprint, e poi il tragico assassinio di Adil, hanno prodotto un salto di attenzione pubblica non solo sulla lotta della FedEx ma sulla condizione complessiva, lavorativa e sindacale, dell’intero settore. La dinamica di scioperi spontanei nelle fabbriche che sono seguiti all’omicidio ha coinvolto un settore dell’avanguardia larga della classe operaia, ed anche lavoratori impegnati in specifiche vertenze aziendali (Whirlpool). Nelle tre settimane che precedevano lo sblocco dei licenziamenti, il SI Cobas si è trovato al centro di una attenzione di massa, mediatica e sindacale, del tutto inedita nelle sue dimensioni, polarizzando un sentimento diffuso di solidarietà di classe che ha travalicato i confini di settore e di appartenenza sindacale.

In quel preciso contesto continuiamo a pensare che proporre pubblicamente alla CGIL di promuovere uno sciopero generale congiunto contro lo sblocco annunciato dei licenziamenti avrebbe significato mettere la burocrazia di fronte alle sue responsabilità agli occhi della parte più avanzata della sua base operaia, in particolare nell’industria. E avrebbe dunque permesso di capitalizzare in quei settori il prevedibile rifiuto e la successiva capitolazione vergognosa di Maurizio Landini. In altri termini, avrebbe rappresentato una forma di attacco efficace alla burocrazia, allargando la breccia nella sua base. Non averlo fatto ha rappresentato, a nostro avviso, un’occasione persa e un errore.

Dopo lo sblocco e la prevedibile capitolazione della CGIL, i licenziamenti annunciati in GKN, Whirlpool, Gianetti, Timken, hanno materializzato le sue conseguenze.
La lotta in GKN, a partire dall'occupazione dello stabilimento di Firenze, ha assunto in questo quadro una grande rilevanza sindacale e politica. Non è una vertenza sindacale ordinaria. L’alto tasso di sindacalizzazione FIOM, la direzione della lotta in mano a un settore classista (opposizione CGIL), la presenza nella sua direzione di compagni formati e sperimentati, conferiscono a questa vicenda un'importanza particolare che va molto al di là di una normale vertenza aziendale. Lo testimonia la vasta solidarietà incontrata sul territorio e la sua trasversalità sindacale e politica, ma anche il tentativo della burocrazia CGIL, e dello stesso Landini, di recuperare il bandolo della vicenda prima che gli esploda nelle mani.

Si tratta allora di dare una proiezione generale a queste lotte in controtendenza per mettere a frutto le loro potenzialità, superando il riflesso condizionato della routine. Da qui la responsabilità di proposta e di azione.

I compagni di GKN hanno detto “insorgiamo”, evocando la necessità di una ribellione operaia. Bene. Si tratta di dare una traduzione concreta all’appello, evitando che resti un'evocazione retorica. E questo interroga non solo i compagni di Firenze ma anche il nostro Patto d’azione anticapitalista e l’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi. Abbiamo insomma una seconda occasione per dare un respiro di massa al nostro intervento in direzione della classe operaia industriale, che ha obiettivamente, come i fatti dimostrano, una valenza strategica. Non sprechiamola.

In primo luogo, crediamo vada generalizzata in termini di proposta la scelta compiuta dai compagni GKN per ciò che riguarda le forme di lotta: l’occupazione delle aziende che licenziano, per impedire che i padroni si portino via i macchinari, e la costruzione di una cassa di resistenza nazionale per le lotte esistenti e per quelle che verranno.

L’occupazione dell’azienda che licenzia è stata osteggiata dalla burocrazia sindacale in tutti passaggi cruciali della lotta di classe negli ultimi decenni (Fiat 1980, Alitalia 2008, FIAT Termini Imerese 2009, Whirlpool 2019). La ragione è semplice: l’occupazione è una prima forma di esproprio della proprietà, confligge con la concertazione, pone la questione della forza come strumento di risoluzione della vertenza. Per la stessa ragione è una forma di lotta necessaria come replica proporzionale alla radicalità del padrone. Contribuisce a tenere uniti i lavoratori, a contrastare la demoralizzazione, a infondere coraggio e determinazione, a polarizzare attorno alla lotta un più vasto campo di solidarietà, come dimostra già oggi l’occupazione di GKN Firenze. Dare l’indicazione di generalizzare questa risposta di lotta in condizioni analoghe significa dire “fare come GKN”.

Lo stesso vale per ciò che riguarda la cassa di resistenza. Si tratta di una forma di organizzazione della lotta che si è affacciata nella logistica, in Whirlpool, e ora in GKN. Risponde all’esigenza elementare di sostenere economicamente una lotta prolungata senza dover dipendere dal quadro precario e a termine degli ammortizzatori esistenti. È uno strumento di forza. Se si generalizza l’indicazione di occupare le aziende che licenziano, occorre proporre una cassa di resistenza nazionale unitaria, da porre sotto controllo collettivo, che possa sostenere materialmente quella scelta di lotta. Non si può “insorgere” senza un'autorganizzazione economica della lotta. Ciò che vale in GKN vale ovunque.

Infine, non è possibile dare una indicazione generale sulle forme di lotta e di organizzazione della stessa senza porsi la questione dell’obiettivo cui finalizzare la lotta. Dire “il ritiro dei licenziamenti” è necessario, ma non sufficiente. Rischia di ridursi a una pressione illusoria sulla proprietà che ha già deciso altrimenti, e da tempo, portando i lavoratori in un vicolo cieco (Whirlpool) e preparando il terreno per soluzioni a perdere (la ricerca dell’ennesimo compratore privato che o non esiste o pone come condizione d’acquisto il taglio degli organici e la cancellazione di diritti).

Occorre legare la parola d’ordine del blocco generale dei licenziamenti alla rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che licenziano. Abbiamo posto da tempo questa rivendicazione alla riflessione del Patto d'azione, avendo da tempo previsto lo sblocco dei licenziamenti come passaggio centrale dello scontro di classe. Ne è seguita una discussione che ha visto partecipi la larga maggioranza delle soggettività politiche e sindacali del Patto. Abbiamo risposto puntualmente a tutte le obiezioni, perplessità, fraintendimenti (“non esistono i rapporti di forza”, “non è realizzabile”, “i lavoratori non ci seguirebbero”, “meglio rivendicare il salario ai disoccupati”, etc.).

Ora la discussione va conclusa con una decisione, quale che sia, che naturalmente ci auguriamo positiva. Perché i tempi stringono e siamo in obiettivo ritardo.

Ci limitiamo ad osservare che la rivendicazione della nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio delle aziende che licenziano è l’unica rivendicazione che può unire le vertenze a difesa del lavoro contrapponendosi alla loro frammentazione: opponendosi al governo confindustriale e alle sue leggi truffa; dando proiezione alla occupazione delle aziende; ponendo il tema della proprietà quando la proprietà è inconciliabile col lavoro. La sua funzione è rispondere alla radicalità dei padroni con una radicalità uguale e contraria. E di legare la difesa del posto di lavoro alla prospettiva di un’alternativa anticapitalista, cioè di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Peraltro, tutte le esperienze sul campo di presentazione di questa proposta nelle assemblee dei lavoratori in lotta hanno permesso di verificare l’ampio consenso di cui è capace. Proponiamo al Patto d'azione e all’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi di assumerla, e di farne oggetto di una vera e propria campagna unificante, proponendola a sua volta ai lavoratori e alle lavoratrici delle aziende in lotta. Non si può “insorgere” nel rispetto del diritto di proprietà.

A partire dall’insieme di questa proposta (occupazione delle aziende che licenziano, cassa nazionale di resistenza, nazionalizzazione delle aziende che licenziano senza indennizzo e sotto controllo operaio) crediamo sarebbe importante promuovere un'assemblea nazionale delle vertenze in lotta a difesa del lavoro, che decida democraticamente sulla piattaforma rivendicativa e di azione, e dia vita a un coordinamento nazionale stabile. Va da sé che se fosse il collettivo di fabbrica GKN a lanciare la proposta e promuovere l’iniziativa, questa potrebbe avere una risonanza e capacità di attrazione assai più elevata.

Infine, pensiamo centrale il raccordo col movimento di lotta dei proletari di altri paesi. Il collegamento stabilito dai lavoratori GKN di Firenze con gli operai GKN di Birmingham, anch’essi colpiti dai licenziamenti, è di estrema importanza. Così è importante guardare allo sviluppo della lotta contro i licenziamenti in Francia. Il Front Social, che raccoglie diversi settori dell’avanguardia di classe di diversa collocazione sindacale (CGT e SUD), come l’Assemblea dei combattivi in Italia, sta preparando una grande manifestazione nazionale a Parigi contro i licenziamenti, attorno a parole d’ordine simili a quelle che abbiamo proposto. Pensiamo sia necessario coinvolgere questo settore classista nel sostegno all’azione di sciopero generale previsto per l’11 ottobre e nelle assemblee preparatorie dello stesso, e assicurare per parte nostra un pieno coinvolgimento nella manifestazione in preparazione in Francia.

Partito Comunista dei Lavoratori


La 'coglioneria' di Togliatti

 


Il PCI e l'appello ai "fratelli in camicia nera"

22 Agosto 2021

Ottantacinque anni fa una delle pagine più vergognose dello stalinismo italiano (e russo)

La politica del Partito Comunista negli anni Trenta continua a essere uno dei nodi più controversi del dibattito che attraversa la storiografia sul movimento operaio del secolo scorso. Tra queste questioni occupa un posto rilevante l’atteggiamento nei confronti del fascismo, che alla vigilia della campagna d’Abissinia otteneva il massimo consenso popolare. La vittoria italiana in Africa, conseguita sfidando le maggiori potenze imperialiste dell’epoca e l’URSS, ebbe un profondo impatto sulla direzione comunista, divisa tra Parigi e Mosca, e l’effetto di tentare di adeguare il nuovo orientamento, emerso dal VII congresso dell’Internazionale Comunista, alle condizioni italiane.

All’indomani dell’ingresso dell’esercito italiano in Addis Abeba, avvenuto il 5 maggio 1936, il PCI elaborò il manifesto Per la salvezza dell’Italia. Riconciliazione del popolo italiano, meglio conosciuto come «Appello ai fratelli in camicia nera», nel quale, tra l’altro, si rivendicava il «programma fascista del 1919» come base per un’azione comune di fascisti e antifascisti contro i cosiddetti “pescecani”, ovvero i grandi capitalisti, industriali, finanzieri e agrari, che traevano profitto dalla conquista dell’Abissinia. In calce all’appello furono apposte le firme di tutti i dirigenti del PCI, indicati con i loro veri nomi, che fossero a Parigi, a Mosca, negli Stati Uniti, al confino o in carcere, la maggioranza dei quali si trovava nella pratica impossibilità di firmare o aderire preventivamente (1). Primo firmatario risultava Palmiro Togliatti, all’epoca a Mosca, responsabile per il Comintern, insieme con Dmitrij Zacharovic Manuilskij, della politica italiana.
Secondo le ricostruzioni successive, che si basano in particolare sulla testimonianza di Giuseppe Berti, anch’egli a Mosca, sia Berti che Togliatti non sapevano nulla dell’appello e, anzi, una volta venutine a conoscenza, avrebbero protestato vivacemente contro quella che Togliatti ha definito una “coglioneria” (2).

L’appello divenne immediatamente oggetto di polemica, in particolare da parte di Giustizia e Libertà e del Partito Socialista, che ironizzarono o criticarono aspramente la “svolta sansepolcrista” del PCI.

L’episodio è abbastanza noto nelle sue linee generali e nelle sue conseguenze, e la vulgata storiografica, essenzialmente basata su memorie e testimonianze, attribuisce a Ruggero Grieco, in pratica segretario del PCI dal 1935 al 1937, la responsabilità principale della vicenda (3).

Particolarmente curiosa la ricostruzione di Luciano Canfora che, nel capitolo del suo testo Gramsci in carcere e il partito dedicato all’«Appello ai fratelli in camicia nera», non cita un solo documento d’archivio, dando per scontata la ricostruzione dell’estraneità del centro moscovita e dello stesso Togliatti, fornita da Berti (4). In realtà, l’intera politica di avvicinamento alla gerarchia fascista, presuntamente dissidente, fu definita ed elaborata a Mosca, nella commissione italiana presso il Comitato Esecutivo dell’Internazionale.

A mia conoscenza, la formulazione «fratelli in camicia nera» venne impiegata per la prima volta al Congresso degli italiani all’estero contro la guerra d’Etiopia, tenutosi a Bruxelles, nella Sala Matteotti, i giorni 12 e 13 ottobre 1935, appena dopo l’inizio delle operazioni italiane in territorio etiope. In quell’occasione Grieco, che interveniva a nome del Partito Comunista, nell’ambito di un discorso improntato all’unità d’azione tra socialisti e comunisti che avrebbe dovuto costituire la base del governo di fronte popolare in Italia, dichiarava: «non abbiamo vendette da compiere contro i nostri fratelli in camicia nera che vennero ingannati dai nostri comuni nemici» (5). Grieco prevedeva per l’Italia un governo di collaborazione antifascista, i cui partiti portanti sarebbero dovuti essere il socialista e il comunista, in odore di “unificazione organica”, tra i quali esisteva un patto d’unità d’azione fin dall’agosto del 1934 (6). Ipotesi che il centro parigino del PCI riteneva omogenea alle decisioni del VII congresso dell’Internazionale Comunista. Questa prospettiva venne ulteriormente ribadita nell’Ufficio Politico di fine ottobre, dove si registrò una sostanziale convergenza sulle indicazioni di Bruxelles e in particolare sulla necessità di costituire un fronte popolare d’opposizione sull’esempio francese, non esistendo per l’immediato le possibilità di un rovesciamento del regime fascista (7). Era chiaro comunque il carattere antifascista di questa compagine, aperta anche ai partiti non operai, come il Partito Repubblicano e, soprattutto, a Giustizia e Libertà.

La questione di un eventuale governo di fronte popolare in Italia sorgeva dalla convinzione che la guerra d’Etiopia sarebbe stata ancora lunga e sfibrante e che avrebbe condotto alla crisi irreversibile del regime. Del resto le due precedenti aggressioni al paese africano si erano risolte con due disfatte (8) e le conseguenti dimissioni dei governi che le avevano avviate. Inoltre, tenendo conto del contesto internazionale delineatosi e dell’apparente ostilità di Francia, Inghilterra e URSS, tutto lasciava intendere che si fosse alla vigilia di un indebolimento del governo di Mussolini, se non di un crollo del regime. D’altro canto questa convinzione si fondava anche sull’esigenza di rafforzare l’alleanza con gli altri partiti antifascisti e quindi di offrire uno sbocco propositivo a quest’alleanza.

L’opposizione alla prospettiva di costruire un fronte popolare antifascista giunse da Mosca, e in particolare da Togliatti. In una lettera di fine ottobre 1935, pubblicata varie volte (9), nell’ipotesi di un insuccesso della guerra, in qualsiasi modo questo si materializzi, è prevedibile che all’interno del fascismo maturi un’opposizione a Mussolini, scrive Ercoli, e questa opposizione non avrà i caratteri dell’antifascismo classico. Occorre dunque «una politica che favorisca la formazione di questa opposizione» (10). Il problema è così posto: «Esiste, oppure è in formazione, una nuova opposizione, che chiameremo fascista, che si sviluppa nel paese e che può rapidamente diventare una forza imponente» (11).

Ciò che allarma particolarmente il dirigente comunista a Mosca, in questo caso, è la dichiarazione resa a Bruxelles sulla possibilità che i comunisti entrino in un governo di fronte popolare, o simile, in Italia, fatta, secondo Togliatti, per «accontentare alcuni tipi che vivono a Parigi» (12).

Dunque nessun governo di fronte popolare con l’antifascismo dei salotti parigini; piuttosto bisognava cercare l’alleanza con i dissidenti fascisti (13).
Che questo sia l’orientamento ormai dominante a Mosca è ribadito da un ulteriore intervento, il 1 gennaio 1936, che demolisce in poche righe l’intero impianto politico di Bruxelles. In breve, Togliatti respinge decisamente ogni ipotesi di “partito unico” coi socialisti e sostiene la necessità di rivolgersi attivamente alla dissidenza fascista. Ancora più perentoria la postilla di Pell.[icano] (Manuilskij): «Problema del F[ronte] U[nico] si pone diversamente che in tutti gli altri paesi. Non coi soc.[ialisti], ma coi fascisti. Non con tutti. Coi malcontenti, che non vogliono la guerra, ecc. […] Elaborare programma non ancora nostro, che unisca tutti quelli che sono contro la guerra criminale. Unità organica: non utile» (14).

La stessa posizione ribadita da Manuilskij nella seduta della Commissione italiana del Segretariato latino dell’Esecutivo del Comintern, tenutasi dal 26 al 31 dicembre 1935:

«Oggi, il problema del fronte unico in Italia non deve essere sollevato nei termini del fronte unico coi socialisti, né con gli anarchici. […] Il problema del fronte unico in Italia è il problema del fronte unico con i fascisti. Dovete adottare questa direzione politica chiara. […] Finché non affrontate questo problema, la questione del fronte unico si risolverà a un’alleanza nell’emigrazione, con Giustizia e Libertà, che non riveste grande importanza.» (15)

Da notare che da Mosca si suggerisce di «elaborare un programma non ancora nostro» che unisca tutti quelli che sono contro la guerra. Quale sarebbe il «programma non ancora nostro»? Un programma c’era già, bello e pronto, il programma fascista del 1919, con la sua retorica democratica e, a tratti, socialisteggiante (16). E a sostegno di questo nuovo corso verso i quadri fascisti, Togliatti invia da Mosca un documento dal titolo Per la salvezza del popolo italiano!, firmato da una sedicente “Alleanza per la salvezza dell’Italia” che dichiara di comprendere «in gran parte fascisti, e non quelli dell’ultima ora»; inoltre, prosegue il documento, «vi sono tra di noi degli uomini che illustrano il nome dell’Italia nel campo della politica, della scienza, dell’arte – al governo, nel parlamento, nelle università, nell’esercito» (17). Il biglietto manoscritto di Togliatti, che accompagna l’appello, tra l’altro invita il Centro parigino a tener conto delle nuove opposizioni che vanno maturando in seno al fascismo, di cui il documento sarebbe testimonianza (18). Il documento, quasi certamente un falso fabbricato a Mosca, espone le stesse argomentazioni contenute nelle lettere di Togliatti e in parte nella stampa comunista rivolta ai dissidenti fascisti: che il fascismo aveva promesso una rivoluzione e una maggiore giustizia sociale, mentre è al soldo dei capitalisti e degli agrari, che la guerra avrebbe apportato onore e prestigio all’Italia, mentre ha causato solo l’isolamento internazionale, che il responsabile della catastrofe è Mussolini, di cui si chiede l’allontanamento. E questi presunti dissidenti fascisti concludono: «Noi pensiamo che è arrivato il momento di prendere delle misure radicali contro i capitalisti e gli agrari» (19).

Diffuso in opuscolo con ampi rimaneggiamenti editoriali rispetto alla copia conservata all’Archivio del PCI, il documento è senz’altro caratterizzato dalla polizia politica fascista come proveniente dal Partito Comunista e non opera di qualche gruppo fascista dissenziente (20).

A suggello ufficiale di questa nuova linea giunge la risoluzione del Presidium del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista, il 2 febbraio, che notava: «i comunisti si sarebbero dovuti orientare verso azioni comuni con le masse che, per una ragione o per l’altra, si trovano nei sindacati fascisti, nelle organizzazioni del dopolavoro, ecc. […] prendendo come punto di partenza le rivendicazioni immediate di queste masse» (21).

Ma è dopo l’ingresso delle truppe italiane in Addis Abeba che il tema della “riconciliazione del popolo italiano” diventa il principale asse programmatico della propaganda del PCI. Le linee essenziali sono ancora una volta fissate a Mosca: in un Primo progetto di risoluzione sulla politica del Partito Comunista Italiano, scritto immediatamente dopo la vittoria italiana in Africa, il “Segretariato” [del CE dell’Internazionale] raccomanda al PCI la «rivendicazione della realizzazione del programma fascista del ’19» (22).

Da questo momento in poi tutta la stampa del PCI e dell’Internazionale è impegnata in una campagna propagandistica che dura vari mesi, fino allo scoppio della guerra civile spagnola e oltre.

È in questo contesto che giunge l’appello «ai fratelli in camicia nera» Per la salvezza dell’Italia, alla cui stesura contribuì praticamente tutto l’Ufficio Politico, dividendosi il lavoro redazionale (23), tanto che la relazione principale al Comitato Centrale del settembre 1936, che approvò definitivamente l’appello, fu tenuta
da Egidio Gennari e non da Ruggero Grieco (24).

Che il Comitato Centrale di settembre rappresentasse il sigillo di una cesura nella politica del partito e una novità sostanziale, erano convinti in molti, e in particolare Egidio Gennari, che nella parte della sua replica, intitolata significativamente La maturità del nostro partito, ringraziò Manuilskij, Togliatti e Dimitrov per il contributo fornito all’elaborazione dell’attuale linea del partito di intervento tra i quadri fascisti (25).

L’appello venne in seguito sconfessato da Mosca e da Togliatti, che negò di averne avuto sentore fino a pubblicazione avvenuta. Eppure, in un rapporto del febbraio 1937 a Manuilskij e Dimitrov, Togliatti scrisse esplicitamente: «la linea dell’agitazione del programma fascista del 1919 è stata concordata in conversazioni che abbiamo avuto con Furini nel mese di luglio» (26).

E, per vari mesi dopo la pubblicazione, non solo a Mosca nessuno protestò, ma gli stessi Manuilskij e Togliatti sollecitamente approvarono.

A questo proposito è fondamentale la relazione che Boni (Aladino Bibolotti), di ritorno dalla capitale sovietica, svolge all’Ufficio Politico del 25 febbraio 1937. Il rapporto di Bibolotti contiene il resoconto di una serie d’incontri avuti tra il gennaio e il febbraio del 1937, quindi in piena guerra civile spagnola, che vedeva la partecipazione delle truppe fasciste italiane a sostegno del colpo di stato di Franco, e sei mesi dopo la pubblicazione dell’appello.

Per Manuilskij: «la linea politica generale del P.[artito] dopo il Comitato centrale [di settembre] […] è buona», e «il programma del ’19 va bene, ma non basta ancora» (27). Lo stesso Togliatti non muove critiche all’appello, e invece raccomanda cautela sulla rivendicazione della “repubblica democratica” (28). Anzi, in un successivo colloquio, rende ancora più esplicita la sua adesione al Manifesto: «Errore non aver messo il nome di Misiano nel Manifesto e non aver dato forte rilievo sua personalità dopo la morte. […] Programma fascista del 1919 sconosciuto a molti. Pubblicarne delle parti contrapponendo promesse a realtà» (29).

Posizione confermata il 10 febbraio nel corso di una riunione tra Bibolotti e i membri italiani del Comitato Centrale del PCI residenti a Mosca, tra i quali sicuramente Togliatti e Berti, che ancora una volta sostiene la linea del CC, inclusa l’adesione al controverso «programma del ’19» (30). Sarà l’intervento di Dimitrov, il 14 febbraio, a chiudere la questione. Sull’incontro con Dimitrov, Bibolotti appunta: «Togliere assolutamente la parola riconciliazione» (31).

È solo a questo punto che Togliatti esprime la sua contrarietà all’apertura del PCI alle “camicie nere”, con una nota che raccomanda di «lasciar cadere la parola “riconciliazione”» (32), e rovesciando una linea di condotta che, come si è visto, andava perseguendo da alcuni anni (33). Raccomandazione infine accolta dall’Ufficio Politico operante a Parigi nella sessione del 25 febbraio (34), anche se il riferimento al «programma fascista del ’19» farà capolino in seguito nella stampa del PCI, seppure non con la rilevanza accordatagli nel Manifesto di agosto (35).

L’episodio divenne uno dei motivi addotti dall’Internazionale Comunista per la liquidazione dell’intero Comitato Centrale nella crisi che attraversò il partito tra il 1937 e il 1939, e per la rimozione di Grieco da ogni posto di responsabilità, che fu costretto a un’umiliante autocritica una volta giunto a Mosca (36).

La politica di “mano tesa” ai fascisti non produsse gli effetti sperati e, sebbene l’avventura spagnola di Mussolini non suscitasse gli stessi entusiasmi della proclamazione dell’“impero” in Africa, nondimeno il regime non venne intaccato né dalla crisi economica, né dalla subordinazione alla Germania nazista ma, come è noto, si dovette attendere la sconfitta nel corso della Guerra mondiale, come in parte aveva intuito lo stesso Giuseppe Berti (37).




Note:

(1) L’appello venne pubblicato in «Stato operaio», n. 8, 1936, pp. 513-536

(2) La testimonianza di Berti fu raccolta da Nando Amiconi, Il comunista e il capomanipolo, Vangelista, 1977, pp. 293-294. Berti fornisce una testimonianza analoga a Giorgio Bocca in Palmiro Togliatti, Laterza, 1973, p. 326. Anche Umberto Massola nega ogni coinvolgimento di Togliatti, in Parigi. Agosto 1939, «Rinascita», n. 48, 3 dicembre 1966. Pietro Secchia riporta le critiche all’appello formulate dal Comitato direttivo dei prigionieri politici comunisti al confino a Ponza in Annali 1978, Feltrinelli, 1979, p. 169; chi invece propende per un diretto coinvolgimento di Togliatti è Giancarlo Pajetta, in Analisi del fascismo e antifascismo in Togliatti, relazione presentata al “Seminario nazionale di studio sul pensiero e l’azione di Palmiro Togliatti”, svoltosi alle Frattocchie dall’11 al 15 dicembre 1973, opuscolo a cura della Sezione centrale scuole di partito del PCI, p. 36. Pajetta centra a mio avviso il problema che si poneva la direzione, nello scrivere: «È da sottolineare l’importanza della riconquista dell’elemento nazionale alla lotta operaia e rivoluzionaria», ibidem. Su questa vicenda cfr. anche Massimo Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, Bietti, 1999, p. 45.

(3) Gli ultimi, in ordine di tempo, sono i libri del figlio di Grieco, Bruno, Un partito non stalinista, Marsilio, 2004 e il libro di Luciano Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno, 2012, che, pur giungendo a valutazioni diametralmente opposte sulla figura del dirigente comunista, concordano nell’attribuire principalmente a Ruggero Grieco la paternità dell’appello. Ambedue si basano sull’autobiografia critica di Grieco, resa dopo l’arrivo a Mosca nel giugno del 1940 ad uso e consumo degli inquisitori stalinisti, concentrandosi in particolare sulla dichiarazione: «Io stesso ho scritto l’appello del partito», Un partito non stalinista, cit., p. 248. Lo stesso Paolo Spriano, nel terzo volume della sua Storia del partito comunista, Einaudi, 1969, p. 111, che pure si sofferma sul dibattito del Comitato Centrale del settembre del 1936, preceduto da ampie discussioni nelle sessioni dell’Ufficio Politico del mese prima, che portarono alla definizione dell’appello, sembra attribuire l’intera paternità al centro parigino del partito.

(4) L. Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, cit., p. 47.

(5) Il discorso, con alcune variazioni, è stato poi pubblicato in «Stato operaio», n. 10, ottobre 1935, pp. 631-632.

(6) Sul rapporto tra la politica di “fronte unico”, che lega i partiti operai, e il “fronte popolare”, esteso anche agli altri partiti antifascisti, cfr. Leonardo P. D’Alessandro, Per la salvezza dell’Italia. I comunisti italiani, il problema del fronte popolare e l’appello ai “fratelli in camicia nera”, «Studi storici», n. 4, 2013. Ringrazio D’Alessandro per avermi permesso la lettura del suo testo, ancora inedito mentre scrivevo il presente articolo, e per le sue osservazioni critiche, anche se permangono alcune valutazioni divergenti su aspetti particolari della vicenda.

(7) Istituto Gramsci, Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano (d’ora in poi Apc), fondo 513-1-1269. Il fondo 513 consultato è in formato pdf, derivante dai microfilm. Il numero della pagina, quando indicato, si riferisce al fotogramma e spesso differisce da quello indicato da altri testi, che invece preferiscono fare riferimento al numero di pagina interno al documento. Ho preferito la prima numerazione perché è di più facile individuazione per il lettore.

(8) Le sconfitte di Dogali, 1887 e Adua, 1896 causarono le dimissioni rispettivamente di Depretis e di Crispi.

(9) La lettera è conservata in Apc, 513-1-1261 ed è stata pubblicata una prima volta a cura di Franco Ferri in «Rinascita», n. 4, 22 gennaio 1966, e poi inclusa nelle Opere di Togliatti, vol. IV, tomo 1, a cura di Franco Andreucci e Paolo Spriano, Editori Riuniti, 1979, pp. 23-28.

(10) Ibidem, p. 26, sottolineato nell’originale.

(11) Ibidem.

(12) Togliatti a Grieco, 26 novembre 1935, in Apc 513-1-1261, p. 31.

(13) Per Aldo Agosti, a sunto della vicenda, l’intero dibattito nel PCI rifletterebbe le divergenze nel gruppo dirigente dell’Internazionale, tra un Dimitrov orientato verso una più decisa unità antifascista e un Manuilskij, sostenuto da Togliatti, più legato alla politica di “terzo periodo” e quindi diffidente nei confronti della socialdemocrazia e, in Italia, del partito socialista; cfr. Aldo Agosti, Togliatti, UTET, 1996, p. 204.

(14) Lettera di Togliatti a Dozza, in Apc 513-1-1352, p. 2. La lettera, pubblicata per la prima volta da Giuliano Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d’Etiopia, Editori riuniti, 1978, alle pagine 311-314, è ora in P. Togliatti, Opere, cit., pp. 75-78.

(15) Citato in A. Agosti, The Weak Link in the Cast - Iron Chain: Relations between the Comintern and the Italian Communist Party (1921-1940), in Mikhail Narinsky, Jürgen Rojahn (a cura di), Centre and Periphery. The History of the Comintern in the Light of New Documents, International Institute of Social History, 1996, p. 183.

(16) Un’ulteriore lettera del febbraio, a mia conoscenza finora inedita, raccomanda di «esaminare la possibilità di un lavoro particolare» presso «dirigenti di organizzazioni fasciste» perché il lavoro fatto dal basso non può dare grandi risultati, Apc 513-1352, p. 3.

(17) Apc 513-1-1352, p. 5 (sottolineato nell’originale).

(18) Ivi, p. 4

(19) Ivi, p. 8 (sottolineato nell’originale).

(20) A confortare l’idea di un falso, vedi la nota riservata di Carmine Senise, per il ministero dell’Interno, che il 28 aprile 1936 scrive ai Prefetti del regno avvertendoli dell’imminente diffusione in Italia di un opuscolo a cura del PCI "Per la salvezza del popolo italiano", Archivio centrale dello Stato, ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, F1, b.80, fasc. 596. Del resto, è difficile capire a quale dissidenza fascista possa far capo il documento in questione. Non è realistico che i vari Arpinati, Balbo, Farinacci, Rossoni o Turati possano rivolgersi così apertamente ai comunisti e, tra i fascisti di base, soprattutto tra i reduci delusi, ancora grande è il prestigio di Mussolini. Né si fa alcun cenno a questa formazione nella più diffusa letteratura storiografica sul fascismo, da Zangrandi a De Felice, a Tranfaglia a Salvatorelli. Eppure il documento dovrebbe aver avuto un’ampia diffusione, visto che sarebbe caduto perfino in mano a marinai imbarcati in navi che fanno rotta per l’Unione Sovietica.

(21) Apc 513-1-1349, p. 1. 22 Apc 513-1-1356, p. 20. Il documento, senza data, consta di una parte dattiloscritta e una manoscritta, senza firma, ma certamente emissione, come si evince dal contesto, del dibattito in seno al Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista sulla questione italiana. Su questa vicenda cfr. anche Massimo Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, Bietti, 1999, p. 45.

(23) I verbali delle sessioni dell’Ufficio Politico di agosto 1936 si trovano in Apc-513-1-1432; il più convinto assertore è Mario Montagnana, che parla di «migliorare il fascismo», ma anche Velio Spano raccomanda al partito di considerarsi «una corrente d’opposizione dentro il fascismo», come riferisce Antonello Mattone, nel suo Velio Spano: vita di un rivoluzionario di professione, La Torre, 1978, p. 40.

(24) A Grieco venne affidata una correlazione, pubblicata poi col titolo "Largo ai giovani" (uno degli slogan del diciannovismo fascista, il che fa insinuare a Canfora che la responsabilità sia tutta di Grieco), dalle Edizioni di cultura sociale di Parigi nel 1936.

(25) Apc 513-1-1354, p. 261.

(26) A. Agosti, Togliatti, cit., 1996, p. 206.

(27) Apc 513-1-1432, p. 25, incontro del 3 gennaio 1937.

(28) Apc 513-1-1432, p. 29.

(29) Ivi, p. 30.

(30) Ivi, p. 36.

(31) Ivi, p. 37.

(32) Apc 513-1-1440, p. 20.

(33) Aldo Agosti parla di Togliatti come ispiratore della linea politica che ha condotto alla formulazione del Manifesto, anche se non ne ha ispirato direttamente la stesura: in A. Agosti, The Weak Link in the Cast, cit., pp. 183-184; cfr. anche A. Agosti, Togliatti, cit., pp. 204-205.

(34) Apc 513-1-1432, p. 47.

(35) Il Manifesto dell’agosto del 1936, tuttavia, insieme con altra letteratura comunista, venne inviato in cinquecento copie in Spagna nel tentativo di rieducare i prigionieri politici catturati nella guerra civile: cfr. L.P. D’Alessandro, Rieducare i prigionieri. Fascisti e antifascisti italiani sul fronte di Guadalajara, «Memoria e ricerca», n. 44, settembre-dicembre 2013, p. 131 e n. 39.

(36) Sulle vicende successive, a mio parere, il testo che ricostruisce con maggiore accuratezza e precisione la crisi del PCI negli anni 1937-39 è il libro di Sergio Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, Rizzoli, 1980.

(37) Ibidem, p. 53




* articolo già pubblicato nella rivista Zapruder, n. 35, settembre-dicembre 2014

Gino Candreva

Il compagno Turigliatto e la missione italiana in Afghanistan

 


“La verità è rivoluzionaria” Antonio Gramsci


“La verità è sempre rivoluzionaria, la falsità può servire solo a salvare le false autorità” – Lev Trotsky



Le ultime vicende afghane hanno spinto Franco Turigliatto, principale dirigente di Sinistra Anticapitalista, a riflettere ancora una volta (La guerra, ovverosia la prova del nove per la sinistra) sul momento in cui Rifondazione Comunista votò il rifinanziamento alla missione di guerra al tempo del secondo governo Prodi (2006-2008).

Turigliatto, ancora una volta, si presenta come coerente oppositore a tale scelta. Senza volere scrivere qui un articolo dettagliato, vorremmo ristabilire, per utilità di tutti i compagni che si considerano comunisti rivoluzionari e anticapitalisti, la verità storica dei fatti.

Sull’Afghanistan Turigliatto non votò mai contro. Nel 2006 votò a favore, come obtorto collo riconosce in una nota del suo stesso articolo. Parla di pressioni immense (sic!) che lo obbligarono a tale scelta. Al di là dell’insussistenza di una simile argomentazione, per un compagno che si richiama al marxismo rivoluzionario (cosa dovremmo dire delle pressioni a cui erano sottoposti i deputati tedeschi il 4 agosto del 1914?), come riporta un articolo ironico del Corriere di allora (lo alleghiamo sotto, ndr), Turigliatto fu molto più parco, dichiarando che rientrava nei ranghi per non mettere in questione la «stabilità del governo».

Ricostruendo gli avvenimenti del febbraio 2007 in una riunione interna ai deputati di Rifondazione, Turigliatto disse che mai avrebbe rivotato il finanziamento. In realtà, come riportato dai principali giornali di allora, in sede di dichiarazione di voto Turigliatto chiese a D'Alema, ministro degli esteri e relatore, di fare appello ad una conferenza di pace, promettendo in tal caso di votare a favore del rifinanziamento. D’Alema, convinto di aver la maggioranza di un voto e forse per fare una delle sue contorte manovre, lo mandò a quel paese. Ma anche a quel punto Turigliatto non votò contro, ma se ne tornò a casa “a coltivare le sue rose” (testuale) senza votare contro o astenersi per “non far cadere il governo”. Questo cadde perché il senatore Pininfarina (che non capiva più niente) e Andreotti (per motivi che non c'entravano niente con l’Afghanistan) votarono contro.

Nacque il Prodi II di quella legislatura, su un programma più reazionario di prima, e l'espulso Turigliatto votò a suo favore, dichiarando di farlo a nome di Sinistra Critica.

Su tutta l’esperienza di Sinistra Critica, antesignana di Sinistra Anticapitalista, consigliamo la rilettura dell'articolo che abbiamo scritto a suo tempo: Il prode Turigliatto e il governo Prodi.

Aggiungiamo solo che in quest’ultimo suo articolo, Turigliatto dice testualmente: «Nella costruzione di un progetto alternativo si può essere sconfitti e dover ripiegare, ma non si possono fare o gestire scelte che contrastano con gli obbiettivi immediati e storici delle classi lavoratrici». Vorremmo chiedere al compagno Turigliatto se votare 7 miliardi di riduzione di imposte l’anno ai capitalisti e poi, già dopo l’espulsione, altri tre miliardi a banche e assicurazioni, rientri negli interessi storici o anche solo immediati della classe operaia.

Siamo certi che la pubblicazione di questa nostra nota provocherà reazioni diverse e anche ostili. Se si tratterà di insulti non risponderemo, perché non ci occupiamo di spazzatura. Invece a chi ci potrà criticare per aver rivolto i nostri strali contro una componente della sinistra, ricordiamo qui un concetto che ci pare fondamentale: noi consideriamo Turigliatto e Sinistra Anticapitalista come centristi, cioè oscillanti o intermedi tra riformismo e marxismo rivoluzionario, anche se la storia di Turigliatto oscilla molto di più verso il riformismo. Il punto è che il centrismo è sempre stato nella storia del movimento operaio un ostacolo pesante per la costruzione di veri partiti rivoluzionari.

Da Marx contro Proudhon e cento altri nell’estrema sinistra di allora, a Lenin contro gli economicisti e contro i menscevichi, a Trotsky contro i centristi degli anni ’30, questa polemica è stata al centro della loro battaglia politica e produzione teorica. Nel nostro piccolo, noi dobbiamo continuarla, anche per cercare di chiarire ai compagni dentro o vicini a Sinistra Anticapitalista che se cercano il trotskismo o semplicemente un anticapitalismo conseguente hanno sbagliato indirizzo, e dovrebbero unire i loro sforzi ai nostri.

Partito Comunista dei Lavoratori


Brucia, governo ladro!

 


Incendi e capitalismo

Scrivo con il sottofondo del rotore di un elicottero antincendio impegnato nel contrasto di due piccoli (per fortuna) focolai.
Una considerevole parte dell’Aspromonte è un macabro tappeto di cenere. Anche qui la solita profusione di retorica che rimuove la dovuta attenzione sulle cause reali del problema.

Ovviamente il surriscaldamento del clima con un processo di desertificazione che tocca considerevoli aree del Sud dell’Italia inchioda in prima battuta l’organizzazione capitalistica dell’economia e della società in tutte le sue articolazioni.
In secondo luogo, nei decenni scorsi è stato varato un sistema di incentivazioni che ha fatto lievitare il fenomeno degli incendi: risarcimenti orribilmente fraudolenti, la possibilità concessa per molto tempo di modificare la destinazione dei suoli allentando o cancellando in tutto vincoli ambientali e paesaggistici, la gestione privatistica del servizio di spegnimento.

Poi, anche se in diversi casi le fiamme hanno lambito e talvolta toccato i centri abitati, la buona parte degli incendi si è sviluppata su aree caratterizzate da un secolare collasso demografico; soprattutto nel Sud gli squilibri del sistema economico capitalistico hanno svuotato i territori interni e di montagna tanto di uomini e donne (emigrati o inurbati) quanto le attività essenziali.

Non solo fuochi, dissesto territoriale, sconquasso idrogeologico con tanto di frane e alluvioni: è questa una bomba innescata da una miccia a lenta combustione costituita dal profitto e dalle sue regole.

E poi l’insufficienza dei mezzi di contrasto, come emerge dalle difficoltà del corpo dei Vigili del fuoco, oggetto di ridimensionamento e di una contrazione del volume di spesa ancor più grave in relazione ad una situazione sempre più difficile.

E poi la scomparsa di un soggetto specificamente e istituzionalmente preposto alla vigilanza forestale e ambientale, con l’assorbimento del vecchio C.F.S. (Corpo Forestale dello Stato) nell’arma dei Carabinieri.

E poi la versione boschiva del federalismo ladrone, che soprattutto nel Sud ha prodotto fenomeni aberranti e paramafiosi in cui il controllo del territorio, la gestione dell’occupazione sono cosa nostra di boss e di rispettabili colletti bianchi.

C’è dunque, al di là di qualche piromane da strapazzo, una mano potente che agisce sui punti di innesco dei roghi; è quella scellerata di un sistema complessivo che saldando figure e responsabilità composite è l’artefice principale di questo scempio.

All’inizio dell’era cristiana l’incendio di Roma, innescato dalla mano di Nerone, produsse con la distruzione di quartieri fatiscenti una gigantesca speculazione edilizia con la trasformazione dell’identità urbanistica di Roma in una megalopoli gigantesca, per quei tempi, con quasi un milione e duecentomila abitanti.
In tutti gli eventi naturali, anche in quelli più apparentemente fortuiti, si inserisce poi la dialettica sociale con il ferreo armamentario delle leggi economiche.

Come Partito Comunista dei Lavoratori riportiamo la tragedia degli incendi e delle sue vittime dentro questo quadro complessivo.
Chiediamo nell’immediato l’accertamento dei responsabili e il risarcimento dei danni da loro provocati a
loro carico; l’adeguamento sotto ogni aspetto del corpo dei Vigili del fuoco; denunciamo l’accorpamento della forestale ai carabinieri e la necessità dell'istituzione di un soggetto autonomo specifico di vigilanza, prevenzione e di intervento ambientale.
Chiediamo la proprietà pubblica sotto un controllo di massa di tutto il patrimonio forestale e ambientale; chiediamo l’abolizione del debito pubblico per ridare fiato alle finanze locali e per riconsentire la rinascita delle zone interne e di montagna.

Chiediamo un rovesciamento di prospettiva che premi la virtù delle comunità attive e concretamente operanti sul fronte del contrasto agli incendi con incentivi destinati al miglioramento del loro quadro territoriale e sociale come un logico avanzamento in termini di ambiente e occupazione.
Tutto ciò, in ultima analisi, significa abbattere il capitalismo e la prassi secolare dei suoi esecutivi e dei suoi corpi statali.

Brucia, governo ladro!
Ci vuole l’intervento risolutore più rapido possibile di un nuovo protagonista: un governo dei lavoratori che difenderà uomini, animali, ambiente e boschi.

Pino Siclari

La lezione di Kabul

 


16 Agosto 2021

Vent'anni di occupazione imperialista hanno spianato la strada ai tagliagole talebani


Vent'anni fa, dopo l'attentato terrorista alle Torri Gemelle, l'imperialismo USA lanciò la guerra contro l'Afghanistan, coalizzando attorno a sé un'ampia schiera di potenze alleate. L'imperialismo italiano fu subito della partita, come già nella prima guerra del Golfo e poi con l'intervento militare in Serbia.

Il governo reazionario dei talebani a Kabul fu accusato di complicità coi terroristi. Per questo l'imperialismo si arrogò il diritto di punirlo. L'aggressione all'Afghanistan fu motivata come battaglia di civiltà contro la barbarie. Il mezzo usato dalla “civiltà” fu il bombardamento a tappeto dei villaggi afghani, e l'inizio di un'occupazione militare che è durata vent'anni.

Il regime talebano fu rovesciato, e al suo posto venne instaurato prima il governo fantoccio di Hamid Karzai, poi dal 2009 il governo fantoccio di Ghani. Entrambi si sono appoggiati sulle forze di occupazione, e sui finanziamenti occidentali. Gli USA hanno speso per la missione afghana duemila miliardi di dollari, la Gran Bretagna 25 miliardi, l'Italia 8 miliardi. Tutti a carico dei contribuenti, prevalentemente dei salariati. A chi sollevava obiezioni veniva contrapposta la ragione morale superiore: “La battaglia per la democrazia e per l'umanità non ha prezzo”. Se non per chi muore sotto le bombe e chi le paga.

Ora, dopo vent'anni di “civiltà”, torna al potere la reazione talebana, col consenso di quei civilizzatori che l'avevano additata come ragione di guerra.
Il ritorno della reazione talebana a Kabul è stata pattuita tra imperialismo USA e capi talebani a Doha nel febbraio 2020. Biden ha gestito convintamente la scelta di Trump. L'imperialismo USA ha deciso che i costi della missione afghana erano troppo grandi rispetto ai vantaggi, sia dal punto di vista economico che sotto quello del consenso interno. Disfarsi della missione afghana è stata la promessa comune della campagna elettorale americana, una promessa che non si poteva tradire. Ma la... civiltà dove è finita? Prosegue indefessa in tante altre parti del mondo, ovunque esistono truppe di occupazione. In Afghanistan si è presa una vacanza.

I tagliagole di vent'anni fa tornano trionfanti a Kabul, per di più col passo di corsa e con tutti gli onori. La stessa stampa borghese che vent'anni fa aveva suonato la carica della “guerra giusta” non sa come presentare la fuga da Kabul di tutte le democrazie umanitarie. Sono forse cambiati i talebani? Non pare. Si è forse consolidata una democrazia in Afghanistan, fosse pure su basi borghesi, capace di reggere l'urto della reazione religiosa? L'evidenza ci dice l'opposto. E allora perché la fuga umiliante da Kabul della più grande potenza militare del mondo, di fronte agli studenti delle madrasse armati di kalashinkov e Corano? La risposta è nella montagna di menzogne delle guerre imperialiste, vomitata da tutti i partiti borghesi (e non solo) a tutte le latitudini del mondo.

La guerra di aggressione all'Afghanistan fu parte dell'escalation militarista dell'imperialismo americano dopo il crollo dell'URSS.
Caduto il contrappeso, per quanto distorto, all'imperialismo, gli USA inaugurarono un lungo corso politico guerrafondaio che unì la prima guerra del Golfo, la guerra alla Serbia, la guerra all'Afghanistan, la guerra all'Iraq. Dietro la cortina fumogena di motivazioni umanitarie e di falsi spudorati (le inesistenti armi nucleari in gestazione di Saddam), il corso guerrafondaio dei Clinton e dei Bush mirava ad affermare l'onnipotenza militare degli USA, consolidare l'egemonia americana sugli imperialismi europei, scoraggiando ogni loro ambizione di polo autonomo e concorrente, conquistare una nuova postazione strategica in Medio Oriente quale ponte sull'Asia, intimidire ogni possibile movimento antimperialista e anticoloniale nel mondo. Infine a ingrassare il portafoglio dell'industria militare, e rilanciare lo sciovinismo USA come strumento di raccolta di consenso in patria presso ampi settori di classe media. Fu insomma il tentativo su larga scala dell'imperialismo USA di liberarsi della sindrome del Vietnam, e di disegnare un nuovo ordine mondiale dettato dalla propria forza.

La disfatta in Iraq nel 2003 fu la tomba di quel disegno. Saddam Hussein fu rovesciato dalla soverchiante superiorità militare della coalizione imperialista internazionale, ma la distruzione dell'apparato statale iracheno, a base sunnita, senza soluzione di ricambio, finì col regalare l'Iraq all'influenza del regime sciita iraniano, grande avversario dello stato sionista e degli USA; mentre l'odio antiamericano in tanta parte delle masse arabe, unito alla crisi del vecchio nazionalismo arabo, diventò il brodo di coltura del panislamismo integralista più reazionario, nuovo fattore di destabilizzazione e di crisi del Medio Oriente. Era difficile immaginare un rovescio più clamoroso.

L'occupazione militare dell'Afghanistan non ha conosciuto sorte migliore. L'eredità di un corso politico rovinoso non poteva concludersi che con una nuova disfatta. Che è innanzitutto la disfatta della menzogna.
Per vent'anni si è presentata la missione afghana come missione di pace. La montagna di bombe scaricata sui civili, le stesse morti al fronte di 3500 militari occidentali, furono coperte dalle cartoline umanitarie che immortalavano la nascita di un ospedale o la costruzione di una scuola, con l'immancabile consegna di fiori ai militari da parte di civili plaudenti e riconoscenti: le classiche cartoline agiografiche del colonialismo di ogni tempo. La realtà era diversa. Era la realtà della guerra, una guerra durata vent'anni, con quasi centomila civili afghani morti sotto le bombe, e settantottomila militari afghani morti in combattimento o per attentati terroristici dei talebani.
I governi afghani di Karzai e Ghani sono apparsi per quello che erano: i garanti della continuità della guerra, i portavoce delle forze di occupazione, gli amministratori corrotti dei finanziamenti occidentali.

La costruzione di un apparato statale afghano sotto controllo imperialista si è rivelato un fallimento totale.
La centralizzazione amministrativa nella città di Kabul ha lasciato ai capi tribali il controllo di larga parte del territorio, in cambio di regalie e privilegi. Le forze di occupazione presidiavano le città, come forze di polizia, lasciando la grande campagna afghana (i tre quarti del territorio) ai notabili del luogo, ricoperti di doni e riconoscimenti. L'esercito afghano che formalmente dichiarava trecentomila unità era in larga parte una costruzione artificiale: composto da volontari improvvisati, disoccupati in cerca di lavoro, privi di ogni motivazione che non fosse quella di sopravvivere alla guerra, gonfiati nei numeri dai loro ufficiali per massimizzare i finanziamenti delle forze occupanti.
La resa dell'esercito afghano alle milizie talebane, e i numerosi passaggi di campo dei loro capi militari, pur di aver salva la pelle, è il portato inevitabile di tutto questo. La garanzia della capacità di resistenza dell'esercito afghano, fornita dagli USA, era una ipocrita fanfaronata per motivare il proprio ritiro.

L'imperialismo USA sapeva bene che il proprio ritiro avrebbe comportato il ritorno dei tagliagole talebani. Semmai si era illuso di poter negoziare il trapasso invece di subirlo in soli dieci giorni.
L'imperialismo inglese aveva proposto alle potenze alleate di restare in Afghanistan sotto il proprio comando, rimpiazzando gli USA, anche per lustrare il ritorno della potenza britannica dopo la Brexit. Ma Italia, Francia e Spagna hanno declinato, per evitare di farsi carico in proprio dei costi dell'occupazione e della guerra, largamente finanziata dagli USA. Di certo il frettoloso abbandono del campo da parte degli imperialisti a vantaggio dei talebani ha dimostrato alla stessa popolazione delle città che le ragioni degli occupanti non avevano nulla a che fare con quelle esibite (le ragioni delle donne, della democrazia, dei diritti). Gli imperialisti erano giunti per i propri interessi, e per i propri interessi se ne sono andati. La fuga di massa disperata di centinaia di migliaia di afghani dalle città ora occupate dai talebani è anche un atto di accusa contro il cinismo delle potenze imperialiste, reso ancor più odioso dalla politica dei rimpatri dei migranti afghani o dal blocco delle frontiere per chi fugge.

Il potere talebano che si sta insediando intende coltivare buone relazioni con l'imperialismo. Ha trattato con gli americani, tratta parallelamente con la Russia e soprattutto la Cina; sa di trovarsi in un crocevia di interessi strategici nel gioco delle grandi potenze e cerca di massimizzarne gli utili in tutte le direzioni. Del resto quali sono le condizioni che gli imperialisti hanno posto loro in cambio di riconoscimento? Gli USA hanno semplicemente chiesto di non attaccare l'ambasciata americana e le truppe che stanno rientrando. La Russia ha chiesto di non alimentare tensioni ai propri confini con le popolazioni di religione islamica. La Cina, assai interessata all'Afghanistan, come già al Pakistan, chiede di non occuparsi del Xinjiang e degli uiguri. I talebani hanno fornito a tutti garanzie a buon mercato. Che interesse avrebbero oggi a danneggiare il proprio trionfo?

Il nuovo potere colpirà invece le vittime designate. Innanzitutto le donne afghane. Del resto c'è forse una potenza imperialista che si è occupata di loro, che ha chiesto garanzie a loro difesa? Nessuna. Le uniche “beneficiarie” parziali e indirette della sconfitta dei talebani nel 2001 erano state le donne di Kabul e delle principali città, in particolare della classe media. Cioè quelle che hanno potuto studiare, iscriversi all'università, semplicemente lavorare, a differenza di larga parte della popolazione femminile della campagna profonda che ha continuato a subire le leggi immutate della sharia anche sotto l'occupazione occidentale. Ma ora? Ora la reazione talebana ha mano libera nei loro confronti, e già la sta esercitando in questi giorni nelle provincie occupate fuori Kabul. Donne allontanate dai propri uffici; donne nuovamente costrette al burka; donne tra i 15 e i 40 anni offerte in dono ai capi militari talebani come trofeo di guerra e gesto di pace. Lo stupro delle donne è il primo biglietto da visita del nuovo potere. Ed è solo l'inizio.
Peraltro non sono le donne le uniche vittime del nuovo Emirato afghano. Ad esempio il nuovo potere ha bloccato la vaccinazione anti-covid, che molto lentamente era iniziata. Il vaccino non è previsto dal Corano, la natura è una legge di Dio. Degli ammalati si occuperà Allah, non il vaccino. Tanti no vax di casa nostra hanno trovato finalmente un alleato contro la “dittatura sanitaria”. Si attendono le nuove leggi talebane contro la musica, i cinema, gli aquiloni.

La lezione di tutto questo è una sola: non sarà mai l'imperialismo a liberare un popolo, o anche solo a garantire la democrazia. Anche quando una potenza imperialista, per i propri interessi, rovescia occasionalmente un regime reazionario, si tratta di un breve episodio senza futuro. Prima o poi la reazione ritorna, a volte più forte di prima. La guerra imperialista è sempre portatrice di barbarie.

Vent'anni fa i marxisti rivoluzionari si opposero alla guerra imperialista contro l'Afghanistan, nonostante fosse controllato dai talebani. Ed anzi si batterono coerentemente con la parola d'ordine della sconfitta dell'imperialismo, del proprio imperialismo, in quella guerra, così come si erano battuti contro i bombardamenti su Belgrado (varati da D'Alema e votati da Rizzo), nonostante Milosevic, così come si batteranno contro la guerra imperialista all'Iraq, nonostante il regime dispotico di Saddam Hussein. La nostra parola d'ordine non fu “né con gli USA né con i talebani” o “né con gli USA né con Saddam Hussein” come faceva la direzione del Partito della Rifondazione Comunista e del movimento no global con una posizione equidistante classicamente pacifista. Noi difendemmo incondizionatamente l'Afghanistan, la Serbia, l'Iraq, indipendentemente da Mohammed Omar, da Milosevic, da Saddam Hussein.
Contro l'imperialismo ci si schiera sempre, sempre si rivendica la sua sconfitta. Al tempo stesso la difesa militare incondizionata di una nazione oppressa non ha mai significato appoggio politico a forze o regimi reazionari, come hanno fatto e fanno a più riprese alcune formazioni di estrazione stalinista. Semplicemente un conto è se quei regimi sono rovesciati dall'imperialismo, un conto è se sono rovesciati da una rivoluzione, cioè dalle masse che quei regimi opprimono.

Ora la lotta dei lavoratori, delle masse oppresse dell'Afghanistan, innanzitutto delle donne, non può che indirizzarsi contro il regime dei tagliagole talebani, cui l'imperialismo ancora una volta ha riaperto la strada. L'idea per cui quelle nazioni non sono adatte alla democrazia e al socialismo è un pregiudizio reazionario, smentito dalle sollevazioni delle masse arabe nell'ultimo decennio, smentito dalla stessa storia, poco conosciuta, dell'Afghanistan.
Nel 1978 la ribellione delle masse afghane, in particolare della gioventù e dei lavoratori pubblici, portò al potere il Partito Democratico del Popolo Afghano (PDPA), di natura nazionalstalinista. Nonostante la guerra per bande che attraversò la vita interna di quel partito – in cui ogni controversia veniva risolta con i plotoni di esecuzione – è indubbio che la fase che aprì fosse di natura progressista, segnata da importanti conquiste democratiche, seppur parziali, in particolare dei lavoratori e delle donne. Per anni il regime progressista fronteggiò la controrivoluzione feudal-integralista dei mujaheddin, finanziata dall'imperialismo. Prima con l'appoggio militare dell'Unione Sovietica, poi autonomamente, col sostegno della popolazione cittadina. Noi ci schierammo a difesa dell'Afghanistan e dell'URSS contro la reazione integralista e imperialista, ma al tempo stesso sottolineammo il limite profondo e decisivo di quella esperienza: aver contenuto il processo rivoluzionario entro i confini di un regime elitario, senza autorganizzazione democratica di massa, e a scapito di una vera riforma agraria. Solo un governo operaio e contadino avrebbe potuto portare sino in fondo le stesse realizzazioni democratiche saldandole con misure anticapitaliste e socialiste. Ma questa prospettiva richiedeva un'altra direzione e prospettiva, quella che l'Internazionale Comunista di Lenin e di Trotsky aveva proposto nel 1920 al congresso di Baku dei popoli d'Oriente, e che poi lo stalinismo rimosse.

È la prospettiva strategica che l'Afghanistan ripropone obiettivamente oggi. L'intera esperienza dell'ultimo mezzo secolo di storia afghana dimostra che la liberazione sociale e democratica delle masse oppresse dell'Afghanistan è incompatibile con ogni illusione nell'imperialismo. Non passa né per l'aiuto americano né per quello dell'emergente imperialismo cinese. Passa per una prospettiva di sollevazione delle masse afghane e di rivoluzione socialista. Per la prospettiva di un governo operaio e contadino.




Sulla guerra in Afghanistan del 2001, leggi qui l'analisi e la posizione dell'Associazione marxista rivoluzionaria Proposta (predecessore del PCL) e del Movimento per la Rifondazione della Quarta Internazionale.

Partito Comunista dei Lavoratori

No a soluzioni truffa per GKN e Whirlpool

 


Il governo vende fumo per ingannare e dividere gli operai

Lo sblocco dei licenziamenti, sottoscritto da Landini, e la serie di licenziamenti collettivi che ne sono seguiti hanno acceso i fari sul comportamento dei capitalisti.
Gli stessi che hanno liberalizzato i licenziamenti, dietro la copertura di una pietosa raccomandazione a non farli, levano grida scandalizzate e piangono lacrime di coccodrillo. Ministri, autorità istituzionali, dirigenti sindacali, tutti fanno la fila per ostentare la propria indignazione contro gli azionisti Whirlpool, GKN, Gianetti, che hanno semplicemente applicato a proprio vantaggio ciò che è stato loro concesso su un piatto d'argento. Non era forse prevedibile che lo facessero? Il fine dello sblocco, per cui Confindustria aveva tanto insistito, non era forse quello di consentire i licenziamenti?

Ora, siccome i lavoratori di GKN hanno occupato la fabbrica, e sembrano decisi a non mollare, la paura di governo e burocrazie sindacali è che questa forma di lotta possa diventare un precedente pericoloso, capace di contagio. La prima preoccupazione che hanno non è quella di bloccare i licenziamenti, ma di bloccare l'unificazione delle vertenze del lavoro in un unico fronte di lotta. A questo fine il governo Draghi procede con due strumenti complementari.


LE SOLUZIONI PATACCA

Il primo è quello di vender fumo ai lavoratori coinvolti nelle vertenze attorno a possibili soluzioni di mercato.

Ai lavoratori Whirlpool il governo promette un fantomatico piano di mobilità sostenibile che dovrebbe coinvolgere ignoti imprenditori campani del settore delle automotive e che dovrebbe consentire la rioccupazione dei lavoratori dello stabilimento di Napoli.
Facciamo notare che il “piano di mobilità sostenibile” fu la bandiera con cui la Regione Lombardia all'inizio degli anni 2000 liquidò l'Alfa Romeo di Arese. Anche allora, con parole identiche, si promise che i lavoratori sarebbero stati salvaguardati. In realtà accadde l'opposto: la disgregazione di una comunità operaia, una massa di nuovi disoccupati o di lavoratori declassati. E questo accadde oltretutto in un quadro economico sicuramente più florido di quello campano del 2021. Chi vogliamo dunque prendere in giro?

Per la GKN non va diversamente. L'ultima voce ufficiosa è quella per cui il governo farebbe pressione su Stellantis, cliente all'80% di GKN, per risolvere la vertenza. Risolvere come e cosa? Anche le pietre sanno che GKN ha interesse a smobilitare Firenze per inseguire Stellantis in Francia e Polonia. Perché Stellantis dovrebbe occuparsi della sorte dei lavoratori di Firenze invece che dei profitti della sua azienda fornitrice di componentistica?
Oltretutto nella stessa giornata in cui il governo presenta Stellantis come chiave di soluzione della vertenza GKN, l'amministratore delegato di Stellantis Tavares informa la stampa che in azienda vi sono 12000 esuberi e che con questi costi non si può continuare. Non a caso Tavares sta cercando di riconvertire l'enorme prestito concesso da Banca Intesa e coperto dallo stato italiano, per avere una mano più libera in fatto di licenziamenti. Sarebbero questi i salvatori degli operai GKN?

La seconda nuvola di fumo da vendere ai lavoratori è quella di un progetto di legge contro le delocalizzazioni. È la stessa patacca che nel 2018 Luigi Di Maio, allora ministro del lavoro, presentò ai lavoratori della Bekaert e della stessa Whirlpool quale soluzione dei loro problemi. Infatti. L'idea riciclata è quella di disincentivare le delocalizzazioni prevedendo l'informazione preventiva di sei mesi (“avvisateci per tempo”) e multe economiche, più o meno salate. Come se un'azienda interessata strutturalmente a chiudere e investire altrove la produzione per anni o decenni non potesse includere tranquillamente la multa una tantum nel bilancio economico dell'operazione. Ma c'è di più: questi disincentivi irrisori non varrebbero per le delocalizzazioni compiute all'interno dell'Unione Europea, perché questo danneggerebbe la libera concorrenza continentale, cioè la libertà di sfruttamento alla ricerca di tassi di profitto più elevati. Dunque ad esempio GKN potrebbe fare tranquillamente ciò che ha fatto.


LA NAZIONALIZZAZIONE È L'UNICA SOLUZIONE

Tutto questo dimostra una cosa sola: solo una nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio può difendere i posti di lavoro. Solo l'aperta rottura con le regole del gioco della società capitalista può aprire una prospettiva nuova. Solo su questa prospettiva è possibile unificare le tante vertenze a difesa del lavoro in un unico fronte di mobilitazione, capace di metter paura a governo e padroni, di modificare i rapporti di forza, di strappare risultati concreti per gli operai. Fuori da questa prospettiva c'è solo l'eterno ripetersi di un film già visto troppe volte nell'ultimo decennio: quello della sconfitta in ordine sparso, azienda per azienda, del movimento operaio italiano.

“Insorgiamo” hanno detto giustamente i lavoratori di GKN. Per questo diciamo: “fare ovunque come in GKN”. Occupare le aziende che licenziano, impedire che portino via i macchinari, imporre il controllo dei lavoratori sugli stabilimenti in questione.
La parola d'ordine della loro nazionalizzazione, senza indennizzo e sotto controllo operaio, ci pare la proiezione naturale della loro occupazione: la via per dare a questa forma di lotta una bandiera unificante, al servizio di tutta la classe operaia.

Partito Comunista dei Lavoratori

Addio a Gino Strada, una voce generosa e autentica contro la guerra

 


“Non sono pacifista, sono contro la guerra”. Questa frase ricorrente sulle labbra di Gino Strada è richiamata in queste ore da tanti sepolcri imbiancati che si dichiarano pacifisti ma hanno votato le guerre. Non mischieremo il nostro ricordo di Gino Strada col loro.


Gino Strada non è stato certo un comunista rivoluzionario, né ha mai preteso di esserlo. Ma ha contrastato con coerenza le guerre dell’imperialismo, a partire da quelle cui ha partecipato l’imperialismo italiano. Ha contrastato la prima guerra del Golfo, costitutiva del nuovo ordine mondiale dopo il crollo del Muro. Ha denunciato la guerra della NATO in Jugoslavia, cui il governo D’Alema partecipò in prima fila, senza neppure il voto formale del Parlamento. Ha soprattutto denunciato la vera natura imperialista della guerra in Afghanistan, quella che ora si sta risolvendo nella rivincita dei tagliagole talebani, cui le politiche dell’imperialismo e dei suoi agenti corrotti ha spianato la strada.

Questo noi oggi lo vogliamo ricordare. E lo possiamo fare senza imbarazzo. Perché anche noi, da un versante rivoluzionario, abbiamo contrastato quelle guerre, l’aumento delle spese militari, il finanziamento delle missioni, l’ipocrisia delle menzogne “democratiche” o “umanitarie” dei governi che li promuovevano e delle sinistre che li votavano, in cambio di ministeri, o di sottosegretariati, o di cariche istituzionali. Gino Strada era di un’altra pasta, non aveva la lingua biforcuta, non amava contorsioni e bizantinismi quando si parlava di guerra. Non era opportunista, e non è cosa da poco.

Gino ha inoltre rivendicato il diritto alla salute come diritto universale. A un giornalista televisivo che un anno fa in piena pandemia gli chiedeva un parere sul rapporto tra sanità pubblica e sanità privata ha risposto con semplicità: “La sanità dovrebbe essere tutta pubblica, la sanità privata non dovrebbe esistere”. Con la stessa passione ha sostenuto il diritto universale e gratuito al vaccino, contro il brevetto delle multinazionali, ma anche contro le idiozie no vax. Denunciando sempre i tagli criminali alla sanità pubblica per pagare il debito pubblico alle banche che tutti i governi hanno compiuto e che sono tanta parte della tragedia sanitaria in corso.

Questo vogliamo ricordare di Gino Strada, persona generosa, onesta, autentica. A differenza di tanti che oggi lo ricordano in morte dopo aver calpestato i suoi valori in vita.

Addio Gino, che la terra sia lieve.

Partito Comunista dei Lavoratori

La lotta dei palestinesi per il diritto al vaccino

 


La dittatura sanitaria è quella del sionismo contro i palestinesi

3 Agosto 2021

Lo stato d'Israele, che ha vaccinato l'85% della popolazione contro il Covid, ha privato i palestinesi del diritto al vaccino. Più precisamente ha vaccinato gli arabi palestinesi che vivono in Israele ma si è rifiutato di vaccinare il grosso dei 4,5 milioni di palestinesi che vivono in Cisgiordania e a Gaza. Sono stati vaccinati solamente 380.000 abitanti della Cisgiordania e 50.000 abitanti di Gaza. Questi ultimi, com'è noto, hanno ricevuto una pioggia di bombe al posto del vaccino.

Il nuovo governo israeliano di Bennett, che ha preso il posto del famigerato Netanyahu, ha finto alcuni giorni fa di compiere un bel gesto procurando all'Autorità palestinese un certo numero di dosi del vaccino Pfizer. Peccato che la donazione era truccata: la data di scadenza dei vaccini procurati era... giugno 2021.
In altri termini, Israele ha dato ai palestinesi i medicinali scaduti e inservibili che gli erano avanzati. Dopo il crimine, l'inganno. Alla fine persino la più che accomodante Autorità palestinese si è vista costretta a declinare l'offerta e a lamentare la violazione degli accordi di Oslo che formalmente prevedevano la collaborazione dello Stato occupante in caso di emergenza sanitaria. Ma com'è noto, gli accordi di Oslo, benedetti dalla sinistra internazionale, sono solo la prigione dei palestinesi. I vaccini sono come la terra, l'acqua e ogni altro diritto: materia proibita, come tutti i diritti per il popolo di Palestina. Col consenso di tutte le “democrazie” imperialiste del mondo.

I palestinesi dei territori occupati hanno registrato una percentuale altissima di contagi Covid (più di 300.000) e quasi 4.000 morti. La lotta per la vaccinazione della popolazione dei territori è oggi in primo piano nella lotta dei palestinesi. Non sappiamo se è una buona notizia per chi in casa nostra protesta contro il vaccino accodandosi di fatto all'estrema destra, e soprattutto facendo propri i suoi argomenti (“la dittatura sanitaria”). Certo è una prova in più che la lotta contro il capitalismo e l'imperialismo non passa per la guerra al vaccino ma per il diritto alla vaccinazione. Contro le multinazionali che sequestrano questo diritto per inseguire il massimo profitto, contro i governi capitalisti che proteggono i loro brevetti.

Partito Comunista dei Lavoratori

Unicredit e Monte dei Paschi, il governo è un comitato d'affari

 


2 Agosto 2021

Un'operazione a vantaggio esclusivo degli azionisti, e a carico dei salariati di tutta Italia

Quando si dice “governo comitato d'affari” si è sicuri di non sbagliare. Ieri come oggi.

Unicredit si candida a inglobare il Monte dei Paschi di Siena con una operazione che ricorda la cessione di Antonveneta a Banca Intesa. Monte dei Paschi è uscito con le ossa rotte dall'esame della BCE: ultimo in graduatoria europea tra le grandi banche in sofferenza. Una montagna di crediti deteriorati, scarse prospettive di sopravvivenza. I quattro miliardi di risorse pubbliche investite a suo tempo nella banca senese per raddrizzarne le sorti non hanno prodotto effetti, se non quello di sostenere i suoi azionisti. A questo punto l'ex ministro del Tesoro Carlo Padoan, divenuto guarda caso presidente di Unicredit, si fa avanti presso MPS, la stessa banca che in veste di ministro aveva ricoperto d'oro e di cui conosce morte e miracoli.

L'offerta è di quelle che non si possono rifiutare. Unicredit si candida a comprare la parte “sana” della banca senese, i crediti deteriorati (2,5 miliardi) vengano dirottati a spese dello Stato su una bad company. Naturalmente per salvare la parte “sana”, Unicredit chiede prezzi di saldo e pone condizioni: «L'aumento significativo dell'utile per azione, la protezione dai rischi di contenzioso legale, una adeguata protezione dello Stato sui prestiti che potremmo acquisire» (Il Sole 24 Ore, 31 luglio). In parole povere lo Stato si carica degli oneri a spese dell'erario pubblico – quindi dei salariati – e Unicredit incassa gli utili garantendo i propri azionisti.

Il governo Draghi sembra intestarsi l'operazione. Draghi e Padoan fanno parte della stessa scuderia del capitale finanziario di cui sono da sempre soci onorari.
Un ex ministro del Tesoro oggi alla testa della principale banca italiana chiede e ottiene l'appoggio di Draghi, ex presidente della BCE, per ingrassare Unicredit. Naturalmente, siccome il significativo aumento dell'utile per azione è condizione dell'affare, Unicredit ha già messo le carte in tavola: 150 sportelli di MPS verranno chiusi, in particolare nel Meridione, 6000 dipendenti verranno espulsi in quanto esuberi; un quarto dell'organico attuale della banca di Siena. Il costo complessivo per lo Stato sarà, secondo il quotidiano di Confindustria, tra i 5 e 10 miliardi. Quasi quanto costa mettere a posto le terapie intensive negli ospedali (12 miliardi).

Per Unicredit tutto procede a gonfie vele. Nel primo semestre dell'anno ha realizzato un utile netto di quasi due miliardi (1 miliardo e 921 milioni, per la precisione, con una crescita progressiva nel secondo trimestre). L'affare MPS servirà dunque a gonfiare ulteriormente il suo portafoglio.
La grande rivale, Banca Intesa, insidiata dall'operazione sul piano della concorrenza, sta studiando le contromosse. Sarà l'acquisizione di Carige la risposta di Banca Intesa a Unicredit? Vedremo.
Tutto lascia pensare che siamo all'inizio di un processo di concentrazione del capitale finanziario in Italia, a spese dei salariati del settore e a carico dei salariati di tutta Italia.

La battaglia per il blocco dei licenziamenti, per la nazionalizzazione senza indennizzo delle aziende che licenziano, non riguarda solo l'industria ma anche le banche. La costruzione del fronte unico di classe passa non solo per GKN e Whirlpool, ma anche per Unicredit e Monte dei Paschi. I salariati sono una classe enorme, colpita ovunque dalle leggi del capitale. Dare coscienza a questa classe, ovunque si produca il conflitto, significa moltiplicare la sua forza, trasformandola in un fattore rivoluzionario.
Di certo solo la nazionalizzazione delle banche, senza indennizzo per i grandi azionisti e sotto il controllo dei lavoratori, può risolvere la crisi bancaria a favore della maggioranza della società. Solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può realizzare questa misura, come fece un secolo fa la Rivoluzione d'ottobre, diretta da Lenin e da Trotsky.

Partito Comunista dei Lavoratori

Opporsi ai padroni e al governo, non alla vaccinazione di massa

 


Per un'alternativa anticapitalista nella gestione della pandemia

31 Luglio 2021

Nessun accodamento alle manifestazioni reazionarie no vax. Per un'autonoma posizione di classe in merito alla vaccinazione

Quasi 130000 persone in Italia, oltre 4 milioni nel mondo – molte ma molte di più in numeri reali, ovunque superiori a quelli registrati – si sarebbero vaccinate volentieri se solo ne avessero avuto la possibilità. Sono morte anche perché non l’hanno avuta. È bene partire da questo dato drammatico nell’affrontare la polemica sulla vaccinazione, sull’obbligo della stessa, sul cosiddetto green pass. È il principio di realtà che le manifestazioni in corso contro la “dittatura sanitaria” rimuovono con disinvoltura, spesso con cinismo.

Il crogiolo di sentimenti che anima le manifestazioni in corso è assai eterogeneo. Culture antiscientiste, ideologie neonaturiste, pregiudizi complottisti, paure ancestrali... Ma soprattutto l’egoismo individualistico di chi antepone ad ogni altra considerazione la proiezione smisurata del proprio “io”: la spontanea proiezione ideologica del piccolo-borghese, normalmente indifferente ai tagli della sanità pubblica, ma inviperito se la salute pubblica gli chiede semplicemente un contributo. La libertà che egli invoca è essenzialmente la propria libertà. Anche la libertà di contagiare. Non è un caso se le destre reazionarie egemonizzano questo sentimento. È la stessa ragione per cui egemonizzano l’indifferenza alla morte degli operai in fabbrica nel nome della libertà di sfruttamento; o il disprezzo per l'ambiente nel nome della libertà di saccheggiarlo; o l’ostilità contro gli immigrati nel nome della libertà dagli “invasori”. In ballo c’è sempre la propria libertà contro quella del genere umano, il suo diritto alla vita e alla dignità.

Si dirà che non sono solo i reazionari a protestare, che vi sono anche persone democratiche e persino settori antagonisti. Vero. Ma chi dà il segno politico e culturale alla protesta è indiscutibilmente la reazione: la sua base sociale nel commercio e tra i ristoratori (“Io apro” in fascia tricolore), il suo corpo militante tra gli organizzatori (inclusi Forza Nuova e CasaPound), i suoi referenti politico-istituzionali (Lega e Fratelli d’Italia). Se ambienti di sinistra e persino antagonisti si accodano di fatto a questo magma, ciò non misura un profilo più “progressista” delle manifestazioni, ma solo l’estrema confusione di questi ambienti, al di là naturalmente di ogni intenzione soggettiva. Il fatto che in Francia il grosso della sinistra politica cosiddetta radicale – Mélenchon in testa – partecipi alle manifestazioni reazionarie contro Macron dimostra che non c’è limite al peggio. Ma non abbellisce ciò che avviene in Italia. Semmai suggerisce di tamponare per tempo rischi analoghi.

Vi sono milioni di persone che non si possono vaccinare. Non che non vogliono, semplicemente non possono. Per ragioni di salute, di fragilità, di emarginazione, di età. È accaduto in tutta la storia delle vaccinazioni. L’obbligo vaccinale contro la poliomielite, sancito in Italia per legge nel 1965, mirò a proteggere dalla malattia fasce sociali emarginate del Meridione. Da allora la poliomielite è stata estirpata, nonostante le grida sulla libertà violata. Nel 1973, quando a Napoli si affacciò il colera, con 278 casi e 24 morti, la rivendicazione dei lavoratori e dei disoccupati fu quella dell’obbligo immediato di vaccino per tutta la popolazione. Il colera fu battuto anche per l’iniziativa del movimento operaio, con la vaccinazione di un milione di napoletani in una sola settimana. Vaccinarsi anche per chi non si può vaccinare appartiene alla storia della solidarietà classista.

La vaccinazione di massa si è sempre battuta contro le resistenze di culture reazionarie. Il vaiolo fu debellato nell’Ottocento in Inghilterra grazie all’inoculazione di un vaccino animale, contestato da furibonde campagne antivacciniste (le leghe contro il vaccino) che denunciavano, con l’identico frasario di oggi, la violazione statale delle libertà civili. Ciononostante anche i vaccini successivi, legittimati dalle scoperte di Pasteur e della microbiologia, incontrarono resistenze, proteste, spesso scomuniche religiose nel nome della superiore legge di natura voluta da Dio.
Sempre il progresso della scienza si è fatto largo infrangendo il pregiudizio, la “libertà” del piccolo-borghese. Il fatto che nel 2020-2021 la vaccinazione anti-Covid si confronti con campagne analoghe, diversamente assortite, dimostra in fondo che la società capitalista è incapace di alzare la coscienza generale al livello del progresso scientifico.
Un miliardo di africani è privato del diritto al vaccino, sequestrato dalle multinazionali e dai loro Stati imperialisti. In compenso nei paesi imperialisti settori significativi delle classi medie contestano non solo l’obbligo del vaccino, ma persino il più modesto green pass. Questa contraddizione misura l’irrazionalità dell’attuale condizione del mondo, sotto il dominio del capitalismo, non certo l'irrazionalità del vaccino.

Il pregiudizio piccolo-borghese è capace di mille nobili travestimenti.

Gli attuali vaccini non sono stati testati, non si conoscono i loro effetti a distanza, protestano con aria saccente fior fiore di intellettuali resistenti che rivendicano la “libertà” di scelta. In realtà le tecnologie che presidiano i nuovi vaccini mRNA sono state individuate nel 1990, esattamente trentuno anni fa. Le procedure della loro sperimentazione iniziarono nei primissimi anni Duemila, sotto la pressione dell'epidemia della SARS, ceppo originario dell’attuale Covid. Semmai la vera responsabilità degli Stati borghesi fu quella di affidare la ricerca scientifica alle case farmaceutiche, che l’hanno interrotta non appena la SARS si estinse, perché venne meno il proprio interesse di mercato. La rapidità con cui oggi sono stati individuati i vaccini è da un lato il ritorno dell'interesse di mercato per chi li produce – ingrassato dagli aiuti statali ai profitti a carico dei salariati – e dall'altro la ricerca scientifica pregressa. Ma invece di denunciare il criminale ritardo nella ricerca vaccinale dovuto al profitto, si chiama in causa la “sospetta” rapidità della scoperta del vaccino. Una rappresentazione capovolta della realtà, che assolve paradossalmente la società borghese.

I tempi brevi di sperimentazione clinica dei vaccini non riguardano solo i vaccini anti-Covid. Il vaccino influenzale tradizionale, ad esempio, non può disporre di anni di sperimentazione clinica, per il semplice fatto che cambia ogni anno, a causa della variazione dei ceppi virali. Dovremmo dunque abrogarlo?
Si dirà che non viene obbligato né indotto per legge. È vero, ma a fronte di una soglia di rischio enormemente più bassa del Covid, come dimostra ogni comparazione statistica.
In realtà la tesi per cui il vaccino va sperimentato sulla lunga distanza è solo un artificio retorico. Quanto sarebbe la distanza temporale necessaria per convincersi dell’opportunità del vaccino? Dieci, venti, trent'anni? L'argomento degli effetti a distanza è stato sempre usato storicamente contro tutti i vaccini da parte delle correnti antiscientiste. Sembra efficace solo perché confonde i piani. Certo, la scienza medica seria verifica sempre nel lungo periodo gli effetti delle proprie scoperte. Ma può dover anche confrontarsi con sfide drammatiche in tempi brevi, che decidono della vita e della morte di milioni di esseri umani. Rinunciare oggi alla vaccinazione o contestare l'esigenza della massima copertura vaccinale per rinviare alla verifica della lunga distanza significa scegliere la certezza qui e ora della moltiplicazione dei morti per Covid. Il rischio futuro è virtuale, la certezza presente è reale. Ha un senso dal punto di vista logico e umano?
Inoltre la verifica degli effetti a lunga distanza riguarda anche il Covid in quanto tale. Quali strascichi può avere sull'organismo dei guariti l'esperienza della malattia e anche solo del contagio? Il "long Covid" già oggi è oggetto di studio presso centinaia di migliaia di persone affette, a proposito di verifica scientifica. E le prime risultanze non sembrano rassicuranti (anche in termini percentuali, trattandosi del 20-30% dei contagiati).

Non possono impormi nulla... protesta il renitente al vaccino, facendo del proprio corpo un'insuperabile barriera. È facile obiettare che la sua libertà, che vorrebbe assoluta, è violata ogni giorno dai semafori stradali, dal divieto di guidare contromano (tanto più in autostrada), dal divieto di parcheggiare nello spazio riservato ai disabili, dalla proibizione di fumare in ambienti chiusi, dall’obbligo di disporre della tessera sanitaria, e... dall'obbligo di pagare le tasse (che il piccolo-borghese spesso evade, ma è un altro discorso). In ognuno di questi casi la “propria” libertà ha come confine la libertà degli altri, il loro diritto sociale e civile. Perché non dovrebbe valere lo stesso criterio in fatto di vaccinazione? I vaccini obbligatori esistono già. Non si vede quale ragione possa accampare il rifiuto “per principio” dell'obbligo di vaccinazione e persino della sua induzione (green pass).
La massima copertura vaccinale è suggerita da ogni considerazione sanitaria e sociale: protegge chi non si può vaccinare o non si è ancora vaccinato, rallenta la circolazione del virus, contrasta l'insorgere di ulteriori varianti, abbatte la carica virale del contagio.
Il fatto che oggi la massima contagiosità della variante Delta si combini con un tasso contenuto di ricoveri e terapie intensive, molto più basso che nelle prime ondate della pandemia, è la misura incontestabile dell'efficacia del vaccino. Si può non vederlo? È una ragione decisiva per completare la vaccinazione.

Il vaccino non impedisce il contagio, neppure con la doppia dose. A che serve dunque?. Seguono gli immancabili dati che dimostrano l’aumento percentuale dei vaccinati tra i contagiati. Questo argomento non regge la prova della logica. La vaccinazione non è totalmente sterilizzante; chi la presenta come tale, o così l’ha capita, è un cretino. Semplicemente la vaccinazione abbatte, senza annullarla, la possibilità di contagiarsi. È evidente che se si estende la vaccinazione di massa diminuisce il numero dei contagiati (di conseguenza dei ricoveri e dei decessi), ma aumenta parallelamente tra i contagiati la percentuale dei vaccinati. E viceversa: meno sono i vaccinati, più aumenta il numero dei contagiati, dei ricoverati, dei morti, mentre cala la percentuale dei vaccinati. Chi brandisce come prova di scandalo finalmente svelata il contagio di qualche vaccinato dimostra solamente di essere accecato dal pregiudizio, nel momento stesso in cui il pregiudizio è smontato non solo dai fatti ma dalla logica.

I ricoveri hanno ripreso ad aumentare, seppur in misura ancora modesta, per effetto dell’espansione della variante Delta. L’aumento dei ricoveri Covid, come mostra la drammatica esperienza vissuta, non chiama in causa solamente la vita dei pazienti che ne sono affetti, ma l’insieme delle patologie, a partire dalle più gravi. Nell’ultimo anno e mezzo negli ospedali italiani si è accumulato un enorme ritardo in fatto di diagnosi e trattamenti oncologici. Complessivamente diverse centinaia di migliaia di persone sono state private del diritto di cura, molte tra loro sono state condannate, di fatto, a morire. Tamponare il contagio per Covid con lo strumento della vaccinazione significa dunque contrastare un’emergenza sanitaria molto più grande della pandemia. Un'emergenza che ha certo radici lontane, prodotte dai tagli alla sanità, ma che il Covid e la gestione borghese della pandemia hanno tragicamente aggravato.

Il pericolo riguarda gli anziani, teniamo fuori i giovani, si sente dire. Si potrebbe obiettare che i più giovani, sotto i dodici anni, sono già esentati dal trattamento vaccinale, pur potendosi ammalare, talvolta in forme anche gravi (vedi Indonesia). E che le prudenze sulla vaccinazione tra il 12 e i 17 anni sono presenti a tutti, anche in ambito scientifico. Al tempo stesso occorre evitare di affrontare la questione da un'angolazione solamente individuale, come se il rapporto costi/benefici non riguardasse anche la società. I giovani sono oggi – anche perché meno vaccinati – i principali portatori del virus. Vaccinare i giovani significa ostruire la principale via del contagio, a protezione dei più anziani non ancora vaccinati. È una forma di solidarietà sociale. Il fatto che i giovani siano i più propensi alla vaccinazione, e i più estranei alle manifestazioni reazionarie, è anche per questo un fatto altamente positivo. Non è sufficiente per compiere azzardi, in presenza di dubbi scientifici fondati per quella fascia d'età che sono ancora irrisolti, ma è più che sufficiente per affrontare la questione con serietà e col metodo giusto, senza rimozioni o isterismi.

Il vero scandalo sta nel fatto che in Italia dai due ai tre milioni di persone sopra i 60 anni di età non sono ancora stati vaccinati, pur avendone in non pochi casi fatto richiesta: per la scarsità di vaccini garantiti dalle aziende farmaceutiche, per i tempi lenti del servizio pubblico, per l'assenza del personale necessario, per la regionalizzazione del sistema sanitario, per le conseguenze, insomma, di una sanità pubblica disossata.
Lo scandalo sta nel fatto che si ricorra a un generale in divisa per predisporre la protezione sanitaria della popolazione, e che il famigerato PNRR destini alla sanità l'ultima voce di spesa, per di più indirizzandola a enti e soggetti privati, gli stessi ai quali la gestione della pandemia ha già garantito crescenti spazi di mercato e di profitto.

Il governo vuole imporre la vaccinazione del personale sanitario e scolastico per coprire la rinuncia a misure di svolta nella sanità e nella scuola pubblica. Vero, anzi verissimo. Non si vede, del resto, come un governo Draghi, espressione del capitale finanziario, possa realizzare una qualsiasi svolta progressiva, anche solo di carattere riformistico. Al governo obbligo vaccinale o green pass interessano per una sola ragione: evitare altre misure di lockdown che possano intralciare la ripresa capitalista. Punto. La sanità può continuare com’è, con la mancanza di posti letto e attrezzature adeguate, salari miserabili, infermieri costretti a turni di dieci ore per carenza di personale, nuove assunzioni tutte precarie, per lo più interinali, assenza di una reale medicina territoriale pubblica, sistemi di tracciamento inesistenti...
La scuola può continuare com’è, con edifici fatiscenti, classi pollaio, insegnanti malpagati, precari a vita in concorrenza tra loro, alta percentuale di abbandoni.
L’importante per i governi borghesi è continuare a ingrassare scuola e sanità private, privatizzare scuola e sanità pubblica, pagare il debito pubblico alle banche. Il resto mance. Sono ragioni più che sufficienti per l’opposizione alla borghesia e al suo governo, per una programma di misure anticapitaliste che preveda un investimento massiccio nella sanità e nella scuola pubbliche, un vasto piano di assunzioni vere, la regolarizzazione immediata del personale precario, un aumento generale dei salari in entrambi i settori, l’esproprio di scuole e sanità private per l’universalismo del servizio pubblico e la sua gratuità.
Ma cosa c’entra tutto questo con il rifiuto dell’obbligo vaccinale nella sanità e nella scuola? Se il governo lo usa come schermo per nascondere la propria politica sarà una ragione in più per denunciare il governo, non per contrastare la vaccinazione. Tanto più in due settori che per ragioni diverse sono strategici al fine di combattere la pandemia, e dove la vaccinazione è strumento di protezione innanzitutto per chi ci lavora, come mostra la tragica moria di personale sanitario mandato allo sbaraglio sul fronte Covid nell’esperienza di un anno fa.

Il governo può usare il green pass per dividere i lavoratori, discriminare, licenziare. Vero. Un governo borghese è sempre capace di usare una misura in sé progressiva a fini antioperai. Il divieto del burka o delle mutilazioni genitali è usato in diversi paesi imperialisti come strumento di campagne xenofobe, prevalentemente islamofobe. Ma non è una buona ragione per difendere l'oppressione delle donne da parte del più reazionario integralismo religioso islamico. Si tratta dunque di non confondere cose diverse. L’idea di licenziare e/o privare di stipendio chi rifiuta la vaccinazione è ripugnante e va rigettata, come già ai tempi del rifiuto della polio. Un conto è cambiare transitoriamente la mansione del renitente (o impossibilitato) al vaccino, fino al superamento della pandemia, a protezione sua e degli altri lavoratori e del loro diritto alla salute; ciò che risponde a un principio di tutela. Un altro è la condanna alla fame e alla privazione della dignità per chi non si vaccina.

Questa è l’idea di Confindustria, che punta a nascondere la volontà di licenziare dietro nobili istanze sanitarie, anche grazie al formidabile assist che le ha offerto Maurizio Landini con l’avviso comune a favore dello sblocco. In questi giorni la volontà della fabbrica mantovana Sterilgarda di procedere arbitrariamente col licenziamento dei non vaccinati dà la misura di ciò che si agita nella pancia del padronato. Ma perché la difesa incondizionata del diritto al lavoro e al salario per tutti i lavoratori e lavoratrici contro gli interessi padronali dovrebbe implicare il rifiuto della campagna vaccinale in quanto tale, cioè di una campagna di salute pubblica a tutela innanzitutto dei salariati? Il rischio che si corre, così facendo, è quello di regalare ai padroni il consenso dei loro salariati che chiedono tutela. Magari di quelli che nel marzo del 2020 hanno scioperato per rivendicarla, e che oltretutto si sono in larga parte già vaccinati.

Opporsi al governo e ai padroni non implica affatto opporsi alla massima copertura vaccinale. Al contrario. Opporsi alla massima estensione della vaccinazione, nel momento in cui oltretutto la larga maggioranza dei lavoratori vede positivamente questa misura, rischia di regalare al governo un consenso indebito e gratuito, quello sì pericoloso per il movimento operaio.

Il piano del discorso va ribaltato, sviluppando una linea di egemonia di classe sulla domanda vaccinale e di sicurezza sanitaria, in alternativa alla gestione capitalistica della pandemia e in aperta contrapposizione ai padroni e al governo.

Chiedendo conto a padronato e governo dei ritardi scandalosi nella gestione della vaccinazione, scuola inclusa.

Rivendicando l'obbligatorietà del vaccino nella sanità e per il personale della scuola, e la massima estensione della copertura vaccinale in ogni settore.

Opponendo il no alle pretese di Confindustria di gestire la vaccinazione usandola per ristrutturazioni, licenziamenti, privazioni di stipendio per i non vaccinati, e invece rivendicando il controllo dei lavoratori sulle condizioni della sicurezza sanitaria in fabbrica.

Denunciando la miseria degli investimenti nella sanità e nell'istruzione, a fronte della montagna di miliardi destinati ai capitalisti.

Rivendicando un piano straordinario di investimenti pubblici nella sanità, nella scuola, nei trasporti, finanziato da una patrimoniale straordinaria del 10% sul 10% più ricco.

Chiedendo un piano straordinario di assunzioni a tempo indeterminato e di regolarizzazione immediata dei lavoratori precari che consenta una svolta vera nell'intensificazione delle vaccinazioni, la ricostruzione di una medicina territoriale, un capillare sistema di tracciamento, la riduzione del numero di alunni per classe e di classi per insegnanti, un sistema di trasporto pubblico che garantisca condizioni di sicurezza: tutti fattori decisivi, assieme alla vaccinazione, per il contrasto della pandemia.

Rivendicando l'esproprio senza indennizzo della sanità e della scuola private, per un sistema sanitario e scolastico interamente pubblico, universale, gratuito.

Denunciando gli accordi segreti stipulati con le multinazionali del farmaco a livello UE al solo scopo di consentire loro di vendere i vaccini al prezzo più alto sul mercato mondiale e di tutelare i propri brevetti.

Rivendicando l'esproprio senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori di tutta l'industria farmaceutica, con una campagna internazionale del movimento operaio e sindacale.


Anche sul versante della lotta alla pandemia l'esigenza dell'avanguardia è quella di salvaguardare una posizione di classe autonoma, legando le domande immediate di natura progressiva alla prospettiva rivoluzionaria di un altro potere: un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, l'unico che può vaccinare la società dal capitale.

Partito Comunista dei Lavoratori