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La 'coglioneria' di Togliatti

 


Il PCI e l'appello ai "fratelli in camicia nera"

22 Agosto 2021

Ottantacinque anni fa una delle pagine più vergognose dello stalinismo italiano (e russo)

La politica del Partito Comunista negli anni Trenta continua a essere uno dei nodi più controversi del dibattito che attraversa la storiografia sul movimento operaio del secolo scorso. Tra queste questioni occupa un posto rilevante l’atteggiamento nei confronti del fascismo, che alla vigilia della campagna d’Abissinia otteneva il massimo consenso popolare. La vittoria italiana in Africa, conseguita sfidando le maggiori potenze imperialiste dell’epoca e l’URSS, ebbe un profondo impatto sulla direzione comunista, divisa tra Parigi e Mosca, e l’effetto di tentare di adeguare il nuovo orientamento, emerso dal VII congresso dell’Internazionale Comunista, alle condizioni italiane.

All’indomani dell’ingresso dell’esercito italiano in Addis Abeba, avvenuto il 5 maggio 1936, il PCI elaborò il manifesto Per la salvezza dell’Italia. Riconciliazione del popolo italiano, meglio conosciuto come «Appello ai fratelli in camicia nera», nel quale, tra l’altro, si rivendicava il «programma fascista del 1919» come base per un’azione comune di fascisti e antifascisti contro i cosiddetti “pescecani”, ovvero i grandi capitalisti, industriali, finanzieri e agrari, che traevano profitto dalla conquista dell’Abissinia. In calce all’appello furono apposte le firme di tutti i dirigenti del PCI, indicati con i loro veri nomi, che fossero a Parigi, a Mosca, negli Stati Uniti, al confino o in carcere, la maggioranza dei quali si trovava nella pratica impossibilità di firmare o aderire preventivamente (1). Primo firmatario risultava Palmiro Togliatti, all’epoca a Mosca, responsabile per il Comintern, insieme con Dmitrij Zacharovic Manuilskij, della politica italiana.
Secondo le ricostruzioni successive, che si basano in particolare sulla testimonianza di Giuseppe Berti, anch’egli a Mosca, sia Berti che Togliatti non sapevano nulla dell’appello e, anzi, una volta venutine a conoscenza, avrebbero protestato vivacemente contro quella che Togliatti ha definito una “coglioneria” (2).

L’appello divenne immediatamente oggetto di polemica, in particolare da parte di Giustizia e Libertà e del Partito Socialista, che ironizzarono o criticarono aspramente la “svolta sansepolcrista” del PCI.

L’episodio è abbastanza noto nelle sue linee generali e nelle sue conseguenze, e la vulgata storiografica, essenzialmente basata su memorie e testimonianze, attribuisce a Ruggero Grieco, in pratica segretario del PCI dal 1935 al 1937, la responsabilità principale della vicenda (3).

Particolarmente curiosa la ricostruzione di Luciano Canfora che, nel capitolo del suo testo Gramsci in carcere e il partito dedicato all’«Appello ai fratelli in camicia nera», non cita un solo documento d’archivio, dando per scontata la ricostruzione dell’estraneità del centro moscovita e dello stesso Togliatti, fornita da Berti (4). In realtà, l’intera politica di avvicinamento alla gerarchia fascista, presuntamente dissidente, fu definita ed elaborata a Mosca, nella commissione italiana presso il Comitato Esecutivo dell’Internazionale.

A mia conoscenza, la formulazione «fratelli in camicia nera» venne impiegata per la prima volta al Congresso degli italiani all’estero contro la guerra d’Etiopia, tenutosi a Bruxelles, nella Sala Matteotti, i giorni 12 e 13 ottobre 1935, appena dopo l’inizio delle operazioni italiane in territorio etiope. In quell’occasione Grieco, che interveniva a nome del Partito Comunista, nell’ambito di un discorso improntato all’unità d’azione tra socialisti e comunisti che avrebbe dovuto costituire la base del governo di fronte popolare in Italia, dichiarava: «non abbiamo vendette da compiere contro i nostri fratelli in camicia nera che vennero ingannati dai nostri comuni nemici» (5). Grieco prevedeva per l’Italia un governo di collaborazione antifascista, i cui partiti portanti sarebbero dovuti essere il socialista e il comunista, in odore di “unificazione organica”, tra i quali esisteva un patto d’unità d’azione fin dall’agosto del 1934 (6). Ipotesi che il centro parigino del PCI riteneva omogenea alle decisioni del VII congresso dell’Internazionale Comunista. Questa prospettiva venne ulteriormente ribadita nell’Ufficio Politico di fine ottobre, dove si registrò una sostanziale convergenza sulle indicazioni di Bruxelles e in particolare sulla necessità di costituire un fronte popolare d’opposizione sull’esempio francese, non esistendo per l’immediato le possibilità di un rovesciamento del regime fascista (7). Era chiaro comunque il carattere antifascista di questa compagine, aperta anche ai partiti non operai, come il Partito Repubblicano e, soprattutto, a Giustizia e Libertà.

La questione di un eventuale governo di fronte popolare in Italia sorgeva dalla convinzione che la guerra d’Etiopia sarebbe stata ancora lunga e sfibrante e che avrebbe condotto alla crisi irreversibile del regime. Del resto le due precedenti aggressioni al paese africano si erano risolte con due disfatte (8) e le conseguenti dimissioni dei governi che le avevano avviate. Inoltre, tenendo conto del contesto internazionale delineatosi e dell’apparente ostilità di Francia, Inghilterra e URSS, tutto lasciava intendere che si fosse alla vigilia di un indebolimento del governo di Mussolini, se non di un crollo del regime. D’altro canto questa convinzione si fondava anche sull’esigenza di rafforzare l’alleanza con gli altri partiti antifascisti e quindi di offrire uno sbocco propositivo a quest’alleanza.

L’opposizione alla prospettiva di costruire un fronte popolare antifascista giunse da Mosca, e in particolare da Togliatti. In una lettera di fine ottobre 1935, pubblicata varie volte (9), nell’ipotesi di un insuccesso della guerra, in qualsiasi modo questo si materializzi, è prevedibile che all’interno del fascismo maturi un’opposizione a Mussolini, scrive Ercoli, e questa opposizione non avrà i caratteri dell’antifascismo classico. Occorre dunque «una politica che favorisca la formazione di questa opposizione» (10). Il problema è così posto: «Esiste, oppure è in formazione, una nuova opposizione, che chiameremo fascista, che si sviluppa nel paese e che può rapidamente diventare una forza imponente» (11).

Ciò che allarma particolarmente il dirigente comunista a Mosca, in questo caso, è la dichiarazione resa a Bruxelles sulla possibilità che i comunisti entrino in un governo di fronte popolare, o simile, in Italia, fatta, secondo Togliatti, per «accontentare alcuni tipi che vivono a Parigi» (12).

Dunque nessun governo di fronte popolare con l’antifascismo dei salotti parigini; piuttosto bisognava cercare l’alleanza con i dissidenti fascisti (13).
Che questo sia l’orientamento ormai dominante a Mosca è ribadito da un ulteriore intervento, il 1 gennaio 1936, che demolisce in poche righe l’intero impianto politico di Bruxelles. In breve, Togliatti respinge decisamente ogni ipotesi di “partito unico” coi socialisti e sostiene la necessità di rivolgersi attivamente alla dissidenza fascista. Ancora più perentoria la postilla di Pell.[icano] (Manuilskij): «Problema del F[ronte] U[nico] si pone diversamente che in tutti gli altri paesi. Non coi soc.[ialisti], ma coi fascisti. Non con tutti. Coi malcontenti, che non vogliono la guerra, ecc. […] Elaborare programma non ancora nostro, che unisca tutti quelli che sono contro la guerra criminale. Unità organica: non utile» (14).

La stessa posizione ribadita da Manuilskij nella seduta della Commissione italiana del Segretariato latino dell’Esecutivo del Comintern, tenutasi dal 26 al 31 dicembre 1935:

«Oggi, il problema del fronte unico in Italia non deve essere sollevato nei termini del fronte unico coi socialisti, né con gli anarchici. […] Il problema del fronte unico in Italia è il problema del fronte unico con i fascisti. Dovete adottare questa direzione politica chiara. […] Finché non affrontate questo problema, la questione del fronte unico si risolverà a un’alleanza nell’emigrazione, con Giustizia e Libertà, che non riveste grande importanza.» (15)

Da notare che da Mosca si suggerisce di «elaborare un programma non ancora nostro» che unisca tutti quelli che sono contro la guerra. Quale sarebbe il «programma non ancora nostro»? Un programma c’era già, bello e pronto, il programma fascista del 1919, con la sua retorica democratica e, a tratti, socialisteggiante (16). E a sostegno di questo nuovo corso verso i quadri fascisti, Togliatti invia da Mosca un documento dal titolo Per la salvezza del popolo italiano!, firmato da una sedicente “Alleanza per la salvezza dell’Italia” che dichiara di comprendere «in gran parte fascisti, e non quelli dell’ultima ora»; inoltre, prosegue il documento, «vi sono tra di noi degli uomini che illustrano il nome dell’Italia nel campo della politica, della scienza, dell’arte – al governo, nel parlamento, nelle università, nell’esercito» (17). Il biglietto manoscritto di Togliatti, che accompagna l’appello, tra l’altro invita il Centro parigino a tener conto delle nuove opposizioni che vanno maturando in seno al fascismo, di cui il documento sarebbe testimonianza (18). Il documento, quasi certamente un falso fabbricato a Mosca, espone le stesse argomentazioni contenute nelle lettere di Togliatti e in parte nella stampa comunista rivolta ai dissidenti fascisti: che il fascismo aveva promesso una rivoluzione e una maggiore giustizia sociale, mentre è al soldo dei capitalisti e degli agrari, che la guerra avrebbe apportato onore e prestigio all’Italia, mentre ha causato solo l’isolamento internazionale, che il responsabile della catastrofe è Mussolini, di cui si chiede l’allontanamento. E questi presunti dissidenti fascisti concludono: «Noi pensiamo che è arrivato il momento di prendere delle misure radicali contro i capitalisti e gli agrari» (19).

Diffuso in opuscolo con ampi rimaneggiamenti editoriali rispetto alla copia conservata all’Archivio del PCI, il documento è senz’altro caratterizzato dalla polizia politica fascista come proveniente dal Partito Comunista e non opera di qualche gruppo fascista dissenziente (20).

A suggello ufficiale di questa nuova linea giunge la risoluzione del Presidium del Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista, il 2 febbraio, che notava: «i comunisti si sarebbero dovuti orientare verso azioni comuni con le masse che, per una ragione o per l’altra, si trovano nei sindacati fascisti, nelle organizzazioni del dopolavoro, ecc. […] prendendo come punto di partenza le rivendicazioni immediate di queste masse» (21).

Ma è dopo l’ingresso delle truppe italiane in Addis Abeba che il tema della “riconciliazione del popolo italiano” diventa il principale asse programmatico della propaganda del PCI. Le linee essenziali sono ancora una volta fissate a Mosca: in un Primo progetto di risoluzione sulla politica del Partito Comunista Italiano, scritto immediatamente dopo la vittoria italiana in Africa, il “Segretariato” [del CE dell’Internazionale] raccomanda al PCI la «rivendicazione della realizzazione del programma fascista del ’19» (22).

Da questo momento in poi tutta la stampa del PCI e dell’Internazionale è impegnata in una campagna propagandistica che dura vari mesi, fino allo scoppio della guerra civile spagnola e oltre.

È in questo contesto che giunge l’appello «ai fratelli in camicia nera» Per la salvezza dell’Italia, alla cui stesura contribuì praticamente tutto l’Ufficio Politico, dividendosi il lavoro redazionale (23), tanto che la relazione principale al Comitato Centrale del settembre 1936, che approvò definitivamente l’appello, fu tenuta
da Egidio Gennari e non da Ruggero Grieco (24).

Che il Comitato Centrale di settembre rappresentasse il sigillo di una cesura nella politica del partito e una novità sostanziale, erano convinti in molti, e in particolare Egidio Gennari, che nella parte della sua replica, intitolata significativamente La maturità del nostro partito, ringraziò Manuilskij, Togliatti e Dimitrov per il contributo fornito all’elaborazione dell’attuale linea del partito di intervento tra i quadri fascisti (25).

L’appello venne in seguito sconfessato da Mosca e da Togliatti, che negò di averne avuto sentore fino a pubblicazione avvenuta. Eppure, in un rapporto del febbraio 1937 a Manuilskij e Dimitrov, Togliatti scrisse esplicitamente: «la linea dell’agitazione del programma fascista del 1919 è stata concordata in conversazioni che abbiamo avuto con Furini nel mese di luglio» (26).

E, per vari mesi dopo la pubblicazione, non solo a Mosca nessuno protestò, ma gli stessi Manuilskij e Togliatti sollecitamente approvarono.

A questo proposito è fondamentale la relazione che Boni (Aladino Bibolotti), di ritorno dalla capitale sovietica, svolge all’Ufficio Politico del 25 febbraio 1937. Il rapporto di Bibolotti contiene il resoconto di una serie d’incontri avuti tra il gennaio e il febbraio del 1937, quindi in piena guerra civile spagnola, che vedeva la partecipazione delle truppe fasciste italiane a sostegno del colpo di stato di Franco, e sei mesi dopo la pubblicazione dell’appello.

Per Manuilskij: «la linea politica generale del P.[artito] dopo il Comitato centrale [di settembre] […] è buona», e «il programma del ’19 va bene, ma non basta ancora» (27). Lo stesso Togliatti non muove critiche all’appello, e invece raccomanda cautela sulla rivendicazione della “repubblica democratica” (28). Anzi, in un successivo colloquio, rende ancora più esplicita la sua adesione al Manifesto: «Errore non aver messo il nome di Misiano nel Manifesto e non aver dato forte rilievo sua personalità dopo la morte. […] Programma fascista del 1919 sconosciuto a molti. Pubblicarne delle parti contrapponendo promesse a realtà» (29).

Posizione confermata il 10 febbraio nel corso di una riunione tra Bibolotti e i membri italiani del Comitato Centrale del PCI residenti a Mosca, tra i quali sicuramente Togliatti e Berti, che ancora una volta sostiene la linea del CC, inclusa l’adesione al controverso «programma del ’19» (30). Sarà l’intervento di Dimitrov, il 14 febbraio, a chiudere la questione. Sull’incontro con Dimitrov, Bibolotti appunta: «Togliere assolutamente la parola riconciliazione» (31).

È solo a questo punto che Togliatti esprime la sua contrarietà all’apertura del PCI alle “camicie nere”, con una nota che raccomanda di «lasciar cadere la parola “riconciliazione”» (32), e rovesciando una linea di condotta che, come si è visto, andava perseguendo da alcuni anni (33). Raccomandazione infine accolta dall’Ufficio Politico operante a Parigi nella sessione del 25 febbraio (34), anche se il riferimento al «programma fascista del ’19» farà capolino in seguito nella stampa del PCI, seppure non con la rilevanza accordatagli nel Manifesto di agosto (35).

L’episodio divenne uno dei motivi addotti dall’Internazionale Comunista per la liquidazione dell’intero Comitato Centrale nella crisi che attraversò il partito tra il 1937 e il 1939, e per la rimozione di Grieco da ogni posto di responsabilità, che fu costretto a un’umiliante autocritica una volta giunto a Mosca (36).

La politica di “mano tesa” ai fascisti non produsse gli effetti sperati e, sebbene l’avventura spagnola di Mussolini non suscitasse gli stessi entusiasmi della proclamazione dell’“impero” in Africa, nondimeno il regime non venne intaccato né dalla crisi economica, né dalla subordinazione alla Germania nazista ma, come è noto, si dovette attendere la sconfitta nel corso della Guerra mondiale, come in parte aveva intuito lo stesso Giuseppe Berti (37).




Note:

(1) L’appello venne pubblicato in «Stato operaio», n. 8, 1936, pp. 513-536

(2) La testimonianza di Berti fu raccolta da Nando Amiconi, Il comunista e il capomanipolo, Vangelista, 1977, pp. 293-294. Berti fornisce una testimonianza analoga a Giorgio Bocca in Palmiro Togliatti, Laterza, 1973, p. 326. Anche Umberto Massola nega ogni coinvolgimento di Togliatti, in Parigi. Agosto 1939, «Rinascita», n. 48, 3 dicembre 1966. Pietro Secchia riporta le critiche all’appello formulate dal Comitato direttivo dei prigionieri politici comunisti al confino a Ponza in Annali 1978, Feltrinelli, 1979, p. 169; chi invece propende per un diretto coinvolgimento di Togliatti è Giancarlo Pajetta, in Analisi del fascismo e antifascismo in Togliatti, relazione presentata al “Seminario nazionale di studio sul pensiero e l’azione di Palmiro Togliatti”, svoltosi alle Frattocchie dall’11 al 15 dicembre 1973, opuscolo a cura della Sezione centrale scuole di partito del PCI, p. 36. Pajetta centra a mio avviso il problema che si poneva la direzione, nello scrivere: «È da sottolineare l’importanza della riconquista dell’elemento nazionale alla lotta operaia e rivoluzionaria», ibidem. Su questa vicenda cfr. anche Massimo Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, Bietti, 1999, p. 45.

(3) Gli ultimi, in ordine di tempo, sono i libri del figlio di Grieco, Bruno, Un partito non stalinista, Marsilio, 2004 e il libro di Luciano Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, Salerno, 2012, che, pur giungendo a valutazioni diametralmente opposte sulla figura del dirigente comunista, concordano nell’attribuire principalmente a Ruggero Grieco la paternità dell’appello. Ambedue si basano sull’autobiografia critica di Grieco, resa dopo l’arrivo a Mosca nel giugno del 1940 ad uso e consumo degli inquisitori stalinisti, concentrandosi in particolare sulla dichiarazione: «Io stesso ho scritto l’appello del partito», Un partito non stalinista, cit., p. 248. Lo stesso Paolo Spriano, nel terzo volume della sua Storia del partito comunista, Einaudi, 1969, p. 111, che pure si sofferma sul dibattito del Comitato Centrale del settembre del 1936, preceduto da ampie discussioni nelle sessioni dell’Ufficio Politico del mese prima, che portarono alla definizione dell’appello, sembra attribuire l’intera paternità al centro parigino del partito.

(4) L. Canfora, Gramsci in carcere e il fascismo, cit., p. 47.

(5) Il discorso, con alcune variazioni, è stato poi pubblicato in «Stato operaio», n. 10, ottobre 1935, pp. 631-632.

(6) Sul rapporto tra la politica di “fronte unico”, che lega i partiti operai, e il “fronte popolare”, esteso anche agli altri partiti antifascisti, cfr. Leonardo P. D’Alessandro, Per la salvezza dell’Italia. I comunisti italiani, il problema del fronte popolare e l’appello ai “fratelli in camicia nera”, «Studi storici», n. 4, 2013. Ringrazio D’Alessandro per avermi permesso la lettura del suo testo, ancora inedito mentre scrivevo il presente articolo, e per le sue osservazioni critiche, anche se permangono alcune valutazioni divergenti su aspetti particolari della vicenda.

(7) Istituto Gramsci, Roma, Archivio del Partito Comunista Italiano (d’ora in poi Apc), fondo 513-1-1269. Il fondo 513 consultato è in formato pdf, derivante dai microfilm. Il numero della pagina, quando indicato, si riferisce al fotogramma e spesso differisce da quello indicato da altri testi, che invece preferiscono fare riferimento al numero di pagina interno al documento. Ho preferito la prima numerazione perché è di più facile individuazione per il lettore.

(8) Le sconfitte di Dogali, 1887 e Adua, 1896 causarono le dimissioni rispettivamente di Depretis e di Crispi.

(9) La lettera è conservata in Apc, 513-1-1261 ed è stata pubblicata una prima volta a cura di Franco Ferri in «Rinascita», n. 4, 22 gennaio 1966, e poi inclusa nelle Opere di Togliatti, vol. IV, tomo 1, a cura di Franco Andreucci e Paolo Spriano, Editori Riuniti, 1979, pp. 23-28.

(10) Ibidem, p. 26, sottolineato nell’originale.

(11) Ibidem.

(12) Togliatti a Grieco, 26 novembre 1935, in Apc 513-1-1261, p. 31.

(13) Per Aldo Agosti, a sunto della vicenda, l’intero dibattito nel PCI rifletterebbe le divergenze nel gruppo dirigente dell’Internazionale, tra un Dimitrov orientato verso una più decisa unità antifascista e un Manuilskij, sostenuto da Togliatti, più legato alla politica di “terzo periodo” e quindi diffidente nei confronti della socialdemocrazia e, in Italia, del partito socialista; cfr. Aldo Agosti, Togliatti, UTET, 1996, p. 204.

(14) Lettera di Togliatti a Dozza, in Apc 513-1-1352, p. 2. La lettera, pubblicata per la prima volta da Giuliano Procacci, Il socialismo internazionale e la guerra d’Etiopia, Editori riuniti, 1978, alle pagine 311-314, è ora in P. Togliatti, Opere, cit., pp. 75-78.

(15) Citato in A. Agosti, The Weak Link in the Cast - Iron Chain: Relations between the Comintern and the Italian Communist Party (1921-1940), in Mikhail Narinsky, Jürgen Rojahn (a cura di), Centre and Periphery. The History of the Comintern in the Light of New Documents, International Institute of Social History, 1996, p. 183.

(16) Un’ulteriore lettera del febbraio, a mia conoscenza finora inedita, raccomanda di «esaminare la possibilità di un lavoro particolare» presso «dirigenti di organizzazioni fasciste» perché il lavoro fatto dal basso non può dare grandi risultati, Apc 513-1352, p. 3.

(17) Apc 513-1-1352, p. 5 (sottolineato nell’originale).

(18) Ivi, p. 4

(19) Ivi, p. 8 (sottolineato nell’originale).

(20) A confortare l’idea di un falso, vedi la nota riservata di Carmine Senise, per il ministero dell’Interno, che il 28 aprile 1936 scrive ai Prefetti del regno avvertendoli dell’imminente diffusione in Italia di un opuscolo a cura del PCI "Per la salvezza del popolo italiano", Archivio centrale dello Stato, ministero dell’Interno, Direzione generale di pubblica sicurezza, F1, b.80, fasc. 596. Del resto, è difficile capire a quale dissidenza fascista possa far capo il documento in questione. Non è realistico che i vari Arpinati, Balbo, Farinacci, Rossoni o Turati possano rivolgersi così apertamente ai comunisti e, tra i fascisti di base, soprattutto tra i reduci delusi, ancora grande è il prestigio di Mussolini. Né si fa alcun cenno a questa formazione nella più diffusa letteratura storiografica sul fascismo, da Zangrandi a De Felice, a Tranfaglia a Salvatorelli. Eppure il documento dovrebbe aver avuto un’ampia diffusione, visto che sarebbe caduto perfino in mano a marinai imbarcati in navi che fanno rotta per l’Unione Sovietica.

(21) Apc 513-1-1349, p. 1. 22 Apc 513-1-1356, p. 20. Il documento, senza data, consta di una parte dattiloscritta e una manoscritta, senza firma, ma certamente emissione, come si evince dal contesto, del dibattito in seno al Comitato Esecutivo dell’Internazionale Comunista sulla questione italiana. Su questa vicenda cfr. anche Massimo Caprara, Togliatti, il Komintern e il gatto selvatico, Bietti, 1999, p. 45.

(23) I verbali delle sessioni dell’Ufficio Politico di agosto 1936 si trovano in Apc-513-1-1432; il più convinto assertore è Mario Montagnana, che parla di «migliorare il fascismo», ma anche Velio Spano raccomanda al partito di considerarsi «una corrente d’opposizione dentro il fascismo», come riferisce Antonello Mattone, nel suo Velio Spano: vita di un rivoluzionario di professione, La Torre, 1978, p. 40.

(24) A Grieco venne affidata una correlazione, pubblicata poi col titolo "Largo ai giovani" (uno degli slogan del diciannovismo fascista, il che fa insinuare a Canfora che la responsabilità sia tutta di Grieco), dalle Edizioni di cultura sociale di Parigi nel 1936.

(25) Apc 513-1-1354, p. 261.

(26) A. Agosti, Togliatti, cit., 1996, p. 206.

(27) Apc 513-1-1432, p. 25, incontro del 3 gennaio 1937.

(28) Apc 513-1-1432, p. 29.

(29) Ivi, p. 30.

(30) Ivi, p. 36.

(31) Ivi, p. 37.

(32) Apc 513-1-1440, p. 20.

(33) Aldo Agosti parla di Togliatti come ispiratore della linea politica che ha condotto alla formulazione del Manifesto, anche se non ne ha ispirato direttamente la stesura: in A. Agosti, The Weak Link in the Cast, cit., pp. 183-184; cfr. anche A. Agosti, Togliatti, cit., pp. 204-205.

(34) Apc 513-1-1432, p. 47.

(35) Il Manifesto dell’agosto del 1936, tuttavia, insieme con altra letteratura comunista, venne inviato in cinquecento copie in Spagna nel tentativo di rieducare i prigionieri politici catturati nella guerra civile: cfr. L.P. D’Alessandro, Rieducare i prigionieri. Fascisti e antifascisti italiani sul fronte di Guadalajara, «Memoria e ricerca», n. 44, settembre-dicembre 2013, p. 131 e n. 39.

(36) Sulle vicende successive, a mio parere, il testo che ricostruisce con maggiore accuratezza e precisione la crisi del PCI negli anni 1937-39 è il libro di Sergio Bertelli, Il gruppo. La formazione del gruppo dirigente del PCI 1936-1948, Rizzoli, 1980.

(37) Ibidem, p. 53




* articolo già pubblicato nella rivista Zapruder, n. 35, settembre-dicembre 2014

Gino Candreva