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Il Primo maggio: internazionalista e rivoluzionario!

In tutto il mondo il capitalismo è fonte di disastri. Trent’anni fa, dopo il crollo del Muro di Berlino, avevano annunciato una nuova era di prosperità. Ma la grande crisi del 2008 ha gettato sulla strada decine di milioni di lavoratori. Poi gli stessi sacerdoti del capitale hanno annunciato la buona novella della “ripresa”. Ma la ripresa si è rivelata tale solo per i profitti e i dividendi di Borsa. Per gli operai continua il calvario dei sacrifici, del lavoro precario, della disoccupazione, del supersfruttamento. Ovunque si allunga l'orario di lavoro per ingrassare i grandi azionisti. Ovunque si tagliano le spese su scuola, salute, trasporti, per pagare il debito pubblico alle banche. Ovunque, sotto ogni moneta, sotto ogni governo. Perché il problema non è il conio della moneta o il colore politico di chi amministra; il problema sta nel sistema capitalista, marcio nelle sue fondamenta, incapace di assicurare il progresso. 

Non si tratta solamente della miseria sociale. Il capitalismo sta aggredendo la natura come mai era avvenuto in tutta la storia dell'umanità. Gli accordi tra Stati per la riconversione energetica sono costruiti sulla sabbia. Dove domina il profitto, non può regnare il rispetto della natura. I colossi che investono sulle fonti rinnovabili sono gli stessi che continuano a lucrare su petrolio e carbone. I biocarburanti concorrono alla desertificazione di territori immensi con le monocolture invasive impiantate per la loro produzione. Le batterie per l'auto elettrica sospingono il saccheggio di cobalto e litio nel cuore dell'Africa con effetti ambientali devastanti. Il paese al mondo che investe di più nel fotovoltaico è anche il paese più inquinato al mondo, la Cina. 
Altro che accordi di Kyoto o Parigi, peraltro già irrisi o disdetti! Altro che appelli alla buona coscienza degli individui o dei capi di Stato! 

La grande crisi spinge le potenze imperialiste, vecchie e nuove, a disputarsi mercati e zone di influenza. La competizione tra USA e Cina in particolare è la battaglia per l'egemonia sul pianeta nel nuovo secolo. I mari del Pacifico, l'Asia, l'Africa, la stessa America Latina sono il teatro di uno scontro senza risparmio di colpi. Il primato nelle nuove tecnologie è la nuova frontiera di questo scontro. Le guerre commerciali, i protezionismi, i nazionalismi, ne sono effetto e strumento, in America (Trump) e in Europa. La nuova grande corsa agli armamenti accompagna la nuova stagione. Saltano i vecchi accordi sugli equilibri nucleari tra USA e Russia. La Cina persegue il pareggiamento militare con gli USA. Il Giappone si riarma. Aumentano i bilanci militari degli stessi imperialismi europei, a partire da quello tedesco e francese. La prospettiva storica di nuovi conflitti sia locali che su vasta scala rientra fra gli scenari possibili. 

L'Europa capitalista è stretta nella morsa tra USA e Cina. La competizione globale ha spinto gli imperialismi europei (Germania, Francia, Italia, Spagna e Gran Bretagna) a realizzare una concentrazione dei propri sforzi per partecipare alla contesa mondiale. Ma la grande crisi, i venti nazionalisti, le contraddizioni tra gli interessi nazionali hanno provocato una crisi profonda nella UE, paralizzata da tempo tra spinte unioniste e separatiste (Brexit). Le imminenti elezioni europee sono uno dei teatri di questo scontro. La crisi dell'asse franco-tedesco, il contenzioso tra Italia e Francia in Nord Africa, il contrasto tra USA e Germania nel rapporto egemonico con l'Est europeo, la crisi dei trattati europei sulle politiche di bilancio, i contrasti irrisolti sull'immigrazione, misurano nel loro insieme la crisi della UE. Il nuovo corso nazionalista di Trump investe su questa crisi e la alimenta. 

I lavoratori e le lavoratrici d'Europa non hanno nulla da spartire con nessuno degli interessi in campo 

Le forze borghesi europeiste vogliono subordinare i lavoratori alle ambizioni del capitalismo europeo di gareggiare alla pari con USA e Cina. Le politiche di saccheggio di salari e diritti praticate per trent’anni nel nome dell'Unione hanno avuto questo fine. Ogni sviluppo della UE in senso federalista avverrebbe sulla pelle dei lavoratori europei. Il campione dell'europeismo borghese Macron è non a caso il principale sostenitore del militarismo europeo. Altro che Europa di pace e di progresso! 
Ma le forze borghesi nazionaliste non offrono nulla di meglio. Al contrario. Vogliono utilizzare l'insofferenza popolare contro l'Unione Europea per subordinare i lavoratori all'interesse della propria borghesia contro altre borghesie e altri lavoratori. Vogliono arruolare i salariati in una guerra condotta contro altri salariati, contro gli immigrati, contro i diritti delle donne e degli oppressi. Nel mentre difendono di fatto, al di là delle parole, le vecchie politiche di rapina del capitale finanziario. 
Il governo Lega-M5S, le sue politiche di elemosine sociali messe a carico dei destinatari, i suoi progetti di ulteriore detassazione dei capitalisti a spese dei lavoratori, sono un esempio chiarissimo dell'inganno populista. 

“Proletari di tutti i paesi, unitevi!” scriveva Marx nel Manifesto. È una parola d'ordine più attuale che mai. È l'unica parola d'ordine che può sancire l'autonomia dei lavoratori da tutti i loro avversari, dai liberali come dai reazionari. È una parola d'ordine rivoluzionaria. Contro l'europeismo borghese, contro i sovranismi nazionalisti, per un’Europa socialista. 

Il riformismo è un’illusione senza futuro. Le riforme furono possibili nei trent’anni "gloriosi" del dopoguerra grazie al boom della ricostruzione capitalista e all'esistenza dell'URSS. Quella stagione è morta da tempo e per sempre. L'epoca nuova che attraversa il mondo pone ovunque all'ordine del giorno la distruzione delle vecchie conquiste sociali e l'attacco ai vecchi diritti democratici. Tutto ciò che era stato conquistato viene messo in discussione. L'alternativa di prospettiva storica è quella tra rivoluzione e reazione. O il movimento operaio rovescia il capitalismo, o il capitalismo trascinerà le giovani generazioni verso un futuro di miseria, di crisi ambientali, di guerre. 

È falso che la classe operaia non esiste più o non può più lottare. I salariati non sono mai stati così numerosi al mondo. È vero, si trovano da tempo sotto i colpi del capitalismo e della sua crisi. Soprattutto in Europa hanno subito rovesci e sconfitte. Ma il conflitto sociale segna diverse parti del mondo, dalle lotte economiche degli operai cinesi allo sciopero di 200 milioni di operai in India, sino alla ripresa di mobilitazione dei giovani lavoratori americani e al loro nuovo interesse per le idee del socialismo. Nella stessa Europa, dove maggiore è la ritirata, le lotte recenti dei lavoratori francesi, la fiammata degli operai ungheresi, lo sciopero di massa degli insegnanti polacchi ci dicono che, nonostante tutto, molta brace cova sotto la cenere. Il grande movimento delle donne su scala planetaria, il risveglio della giovane e giovanissima generazione contro l'inquinamento e le responsabilità del profitto indicano gli alleati possibili della classe lavoratrice e di un progetto di rivoluzione. 

Ciò che è spaventosamente arretrato non è la forza sociale ma la consapevolezza politica. Vi hanno contribuito in modo determinante le vecchie direzioni riformiste politiche e sindacali del movimento operaio. Prima lo stalinismo e la socialdemocrazia, che hanno distrutto il patrimonio rivoluzionario di un secolo fa. Poi il coinvolgimento delle direzioni riformiste nelle politiche di austerità degli ultimi decenni, dal sostegno ai Prodi alla capitolazione di Tsipras. Ciò che ha prodotto non solo l'arretramento delle condizioni di vita e di lavoro, ma la retrocessione ulteriore della coscienza di classe, e per questa via il suo disarmo di fronte alle suggestioni populiste e reazionarie. 

Ricostruire una coscienza classista e rivoluzionaria è oggi il compito dell'avanguardia, in Italia, in Europa, nel mondo. È un lavoro difficile e controcorrente, ma è l'unica via. È possibile condurlo se tutti coloro che condividono questo progetto unificano le proprie energie in una organizzazione, in un partito rivoluzionario d'avanguardia che in ogni lotta e in ogni movimento porti la coscienza e il programma della rivoluzione sociale. Un partito organizzato su scala nazionale e internazionale. 

La costruzione del Partito Comunista dei Lavoratori e la sua lotta per la rifondazione della Quarta Internazionale vanno ostinatamente in questa direzione. Unisciti a noi!

30 aprile 2019



Partito Comunista dei Lavoratori

25 APRILE 2019

FB Antifascismo di Classe

PER UN ANTIFASCISMO DI CLASSE
Sono ormai anni che in Italia si assiste ad una ripresa impetuosa di manifestazioni politiche e organizzazioni fasciste, mentre il razzismo e una cultura di destra radicale hanno fatto una breccia enorme nelle classi lavoratrici, nei quartieri popolari e in quello che era il blocco sociale di riferimento della sinistra.
Il Ministro dell’Interno, Salvini, con un ruolo sempre più preponderante nel governo “giallo-bruno” Lega-M5S, soffia sul fuoco della xenofobia fino al punto di commettere un crimine contro l’umanità respingendo dei rifugiati in un paese in guerra, come la Libia.
Lo stesso Salvini è oggi il campione di settori popolari affascinati dalla retorica dell’estrema destra e delle organizzazioni fasciste. Le sue ruspe distruggono i campi nomadi, i fascisti di Casapound e Forza Nuova completano il pogrom aizzando i residenti dei quartieri poveri contro i Rom e i migranti che cercano una soluzione abitativa.
Ancora una volta razzismo e fascismo vengono utilizzati dalle destre per dividere la classe lavoratrice; ponendo da una parte i cosiddetti lavoratori autoctoni e dall’altra i migranti, si crea un falso nemico contro cui scatenare le proprie frustrazioni e sofferenze. I poveri e i poverissimi diventano i nemici di Stato, mentre il padronato continua indisturbato nei suoi affari.  I porti chiusi in faccia ai migranti che scappano da guerra e miseria sono il prodotto dell’intervento imperialista del capitalismo italiano in Libia, l’effetto collaterale delle politiche padronali sul piano internazionale. Non un caso, un accidente o un’eccezione.
Per questo oggi non può bastare un antifascismo di maniera, retorico, da celebrare solo alle feste comandate.
No. È urgente e necessario un ritorno alle mobilitazioni di classe. 
E’ evidente. Lo dimostra proprio questo governo: le leggi contro la ricostituzione del partito fascista, la sua propaganda la Costituzione non bastano a respingere il fascismo. Se quelle leggi servissero, non potrebbero esistere un governo e un ministro che favoriscono la crescita dell’estrema destra e delle organizzazioni fasciste. La maschera grottesca di Salvini, le sue leggi sulla sicurezza (decreto sicurezza) e sulla legittima difesa lo dimostrano eloquentemente.
È necessario riprendere, oggi come non mai, il filo dell’antifascismo come lotta di classe del mondo del lavoro contro il padronato.
PER UN ANTIFASCISMO ANTICAPITALISTA
«Nessuno deve restare indietro, sia esso italiano, nero o rom». Un ragazzino di quindici anni, figlio di un licenziato di Almaviva, ha fronteggiato da solo i fascisti nella borgata di Torre Maura a Roma, la sua borgata. Lo ha fatto dopo che ha visto i fascisti calpestare il pane destinato ai rom, sospinto da un senso elementare di umanità e di giustizia. 
L'episodio dice molto, soprattutto a sinistra. 
La prima cosa che dice è che è possibile contrastare i fascisti, anche sui temi più difficili. Casa Pound e Forza Nuova hanno imposto la propria legge, cioè la legge della forza squadrista. Ora la loro vittoria rischia di propagare l'esempio in altri quartieri e città, offrendo una bandiera miserabile a settori popolari immiseriti e declassati. È’ necessario allora recuperare l'iniziativa antifascista costruendo ill fronte unitario più largo e determinato.
La seconda cosa che l'episodio coraggioso indica è come contrastare il fascismo. “Nessuno deve restare indietro, italiano, nero o rom” corrisponde ad una piattaforma di mobilitazione che vada ben al di là della solidarietà ai rom e agli immigrati. E’ necessario avanzare rivendicazioni comuni capaci di unire tutti gli sfruttati al di là di ogni differenza etnica. Casa per tutti anche attraverso l'esproprio di grandi proprietà immobiliari, un lavoro per tutti anche attraverso l'investimento pubblico nel risanamento di case fatiscenti e strade disselciate, un sistema di servizi sociali, a partire dagli asili, che dia supporto alle famiglie povere... sono rivendicazioni patrimonio dell’iniziativa iniziativa antifascista. I fascisti occupano spazi che la sinistra politica ha abbandonato e tradito. Solo rioccupando quegli spazi è possibile tagliare l'erba sotto i piedi dei fascisti. Ma ciò non significa tenere convegni sull'abbandono delle periferie, magari sotto elezioni.
Significa organizzare gli sfruttati e la loro lotta contro il loro vero nemico. Che è il capitalismo, innanzitutto quello di casa nostra
L'antifascismo, più che mai, o è anticapitalista o non è.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI - SEZ. DI BOLOGNA

RESISTENZA IN EUROPA

Volentieri diffondiamo:

RESISTENZA IN EUROPA

il 25 aprile 2019 alla 12,00 al Pradel
in via del Pratello 96A Bologna

Le lotte contro le politiche di austerity nelle scuole e nelle università

FRANCIA E ITALIA: L'opposizione a tagli e riforme di distruzione dell'Istruzione pubblica e aperta
STUDENT@ E LAVORATOR@ fra scioperi e movimenti

L'ASSOCIAZIONE VICTOR SERGE INVITA A PARLARNE CON:
VICTOR MENDEZ -  studente dell'Università di Nanterre (Parigi)
PEPPE RAIOLA -  SGB scuola

Rivoluzione e controrivoluzione a confronto in Sudan

“Rivoluzione! Vogliamo essere libere. Vogliamo cambiare il mondo”.
Con queste parole Alaa Salah, una studentessa sudanese di 22 anni, arringava ieri la massa a nuda voce dal tetto di una vecchia automobile a Khartum. Come in Algeria, il ruolo delle donne è centrale nella sollevazione popolare che da dicembre ha attraversato il Sudan e ha finito col travolgere il presidente al-Bashir.

Un'ampia area politica della sinistra campista internazionale, prevalentemente di estrazione stalinista, è giunta ad appoggiare il regime sudanese e persino ad esaltarlo come antimperialista. La sentenza di condanna di al-Bashir della Corte Penale Internazionale, unita all'appoggio di Russia e Cina, erano più che sufficienti a determinare la loro scelta di campo. Noi partiamo da un criterio di classe e dalla prospettiva della rivoluzione, in Sudan come ovunque. Non riconosciamo alcun diritto a una Corte Penale Internazionale che ha coperto i peggiori crimini dell'imperialismo e del sionismo, ma riconosciamo ogni diritto degli sfruttati a ribellarsi a regimi oppressivi. Per questo in Sudan come in Algeria siamo dalla parte della sollevazione popolare.


LA SOLLEVAZIONE POPOLARE CONTRO UN REGIME REAZIONARIO 

Lo sfondo della ribellione di massa è la precipitazione della crisi sudanese nell'ultimo decennio. Come il regime di Bouteflika in Algeria, anche il regime sudanese aveva prosperato per lunghi anni grazie alla rendita petrolifera. Il crollo del prezzo, a ridosso della crisi capitalistica internazionale, ha destabilizzato le basi d'appoggio del regime. A ciò si aggiungeva la separazione del Sud Sudan da Khartum nel 2011, che privava il regime di al-Bashir dei maggiori giacimenti petroliferi, che reggevano il 75% delle esportazioni nazionali. L'indebitamento sempre maggiore presso il capitale finanziario è stata una conseguenza naturale. Da qui la crescente pressione usuraia dell'imperialismo sul Sudan. La sollevazione è nata da questa dinamica generale.

A novembre 2018 una delegazione del FMI si recava a Khartum per esigere la fine delle sovvenzioni pubbliche dei prodotti di prima necessità, a partire dalla farina, quale condizione preliminare per la concessione di nuovi crediti. Il regime, già indebitato per 50 miliardi di dollari, applicava le ricette vessatorie dell'imperialismo. Il prezzo del pane triplicò in pochi giorni, in un paese segnato da una inflazione annua del 70%. Da qui le prime manifestazioni in un crescendo di mobilitazione pressoché ininterrotta.

Accanto alla ragione sociale ha operato un fattore politico. Il regime instauratosi nel 1989 sotto la direzione del fronte islamista a guida al-Bashir incarnava una dittatura odiosa e dispotica, già protagonista nel giugno 2012 e nel settembre 2013 di repressioni sanguinose delle manifestazioni popolari. Il consenso del 95% (!) registrato alle ultime elezioni presidenziali del 2015 era espressione di metodi plebiscitari e di brogli clamorosi. In base alla Costituzione formale al-Bashir avrebbe dovuto essere al suo ultimo mandato, ma ad agosto il regime annunciò che il Presidente si sarebbe ricandidato nelle elezioni del 2020, una provocazione agli occhi di ampi settori sociali.

La ribellione deve dunque la sua dimensione e durata alla combinazione di questi fattori.


COMPOSIZIONE E DINAMICA DELLA RIVOLTA 

La mobilitazione non è iniziata nella capitale Khartum, ma nella provincia. In una città, Atbara, situata sulle rive del Nilo, cuore della vecchia tradizione del movimento socialista e comunista sudanese. Era la città delle grandi miniere del ferro, sede dell'antico sindacato operaio. La memoria di una tradizione classista ha avuto il suo peso indiretto nell'innesco della rivolta.

Tuttavia la rivolta di massa non ha avuto sinora un carattere prevalentemente classista, ma popolare. Sono confluiti in essa le masse diseredate della capitale e delle altre città (Porto Sudan, Dongola, Cassala, Gedaref, El Obeid, Nyala); la piccola borghesia urbana, a partire dalle libere professioni; la grande maggioranza degli studenti, in particolare universitari. In ognuno di questi settori sociali non è un caso che le donne abbiano svolto un ruolo portante. Il regime islamista era particolarmente reazionario proprio verso le donne, cui veniva proibito persino di indossare pantaloni o di viaggiare in auto senza presenza del marito. Un sistema vessatorio e grottesco, che contrastava oltretutto sempre più con la crescita del livello di istruzione della popolazione femminile, assai estesa nelle università. Le studentesse come Alaa Salah sono state sospinte alla testa della rivolta dalla radicalità della propria oppressione. La tunica bianca indossata da Alaa è l'abito tradizionale delle donne che lavorano, che già settanta anni fa marciavano così vestite contro le dittature militari.

La dinamica della mobilitazione ha conosciuto una radicalizzazione progressiva non solo in ampiezza ma anche nelle parole d'ordine. A dicembre le parole d'ordine delle manifestazioni era la richiesta della cancellazione degli aumenti. Nei primi mesi del nuovo anno la parola d'ordine centrale che assorbiva tutte le altre era direttamente politica: “Via al-Bashir!”.

Questo salto della politicizzazione del movimento è stato l'effetto naturale della repressione. Una repressione spietata. Il regime ha usato sistematicamente contro le manifestazioni popolari non solo la polizia regolare ma le milizie speciali controllate direttamente dal Presidente. Milizie composte dagli apparati di sicurezza (NISS), le stesse che nel 2013 avevano fatto oltre 200 morti. La storia di questi mesi ha visto decine di manifestanti assassinati, oltre 60, decine di migliaia di arresti, sparizioni, abusi, torture. Un calvario con cui il regime contava come in passato di liquidare la mobilitazione e ripristinare l'ordine. Si è sbagliato. Ciò che normalmente funziona, non funziona necessariamente davanti a una rivoluzione.


IL RUOLO CRUCIALE DELL'ESERCITO, TRA AL-BASHIR E LA RIVOLTA DI MASSA

È accaduto infatti per alcuni aspetti l'opposto. La pressione di massa è stata talmente dirompente da aprire una contraddizione verticale tra il clan presidenziale e l'esercito, con un processo parzialmente simile a quanto è accaduto in Algeria. Le gerarchie militari, al loro interno divise sulla propria relazione col regime, hanno compreso per tempo che la continuità e l'ampiezza della mobilitazione rendeva impraticabile, oltre una certa soglia, la via della repressione frontale, la quale avrebbe comportato un massacro infinitamente più grande che in passato, e che soprattutto avrebbe messo a rischio la stessa unità dell'esercito, sempre più contagiato nei suoi piani bassi dalla pressione popolare. Non a caso le manifestazioni di massa degli ultimi giorni di fronte al quartier generale dell'esercito sudanese a Khartum erano state protette dai soldati contro le provocazioni delle milizie presidenziali, al punto che un soldato è stato ucciso dalla polizia mentre difendeva i manifestanti. A questo punto le alte gerarchie militari hanno destituito al-Bashir con un proprio colpo di Stato al fine di salvare l'unità dell'esercito e dunque il proprio comando.

Per questa stessa ragione, la caduta di Bashir è al tempo stesso l'effetto della rivoluzione sudanese e l'inizio della controrivoluzione. La massa popolare saluta festante, e giustamente, la caduta di al-Bashir come propria vittoria, ma la destituzione militare del Presidente incombe come una minaccia contro le aspirazioni di quella stessa massa. Il primo comunicato della nuova giunta militare proclama il coprifuoco, cancella Parlamento e Costituzione, annuncia due anni di governo militare. È questo che chiedevano le masse in rivolta? La conclusione tragica della rivoluzione egiziana, finita tra le braccia dei militari di al-Sisi, non promette nulla di buono.

Ancora una volta, la questione della direzione politica del movimento si presenta come nodo cruciale della rivoluzione.


LA PICCOLA BORGHESIA ALLA DIREZIONE DEL MOVIMENTO 

La direzione del movimento di massa di questi mesi si è concentrata nelle mani della Associazione professionale sudanese (SPA), nata come sindacato alternativo del pubblico impiego (a fronte dei sindacati infeudati al regime) ma rapidamente trasformatasi in un raggruppamento civico guidato da professori universitari, medici, ingegneri, il cuore delle libere professioni della capitale. Un ambiente piccolo-borghese democratico-liberale da tempo ostile al regime. La SPA a sua volta si è collegata a tre grandi coalizioni politiche di opposizione, composte dal personale politico più eterogeneo, da ex ministri di al-Bashir caduti in disgrazia sino al Partito Comunista Sudanese, di estrazione stalinista, passando per borghesi liberal e islamici progressisti. La piccola borghesia democratica si trova insomma a capeggiare un grande fronte popolare che prende il nome di “Dichiarazione per la libertà e il cambiamento”: un fronte che nel suo stesso nome non va al di là del confine democratico-costituzionale. Il suo scopo è subordinare la ribellione di massa a un semplice cambio democratico. Ma c'è lo spazio politico e sociale di un semplice cambio democratico in Sudan? La domanda non è peregrina. Lo dimostra lo sviluppo degli avvenimenti in corso.

L'Associazione professionale sudanese nel nome della democrazia ha chiesto insistentemente alle gerarchie militari di destituire al-Bashir, lodando ed esaltando la loro responsabilità democratica e rivendicando un governo di transizione democratica composto da civili e militari. In altri termini la piccola borghesia democratica concepisce la rivoluzione in funzione delle proprie aspirazioni governative. Ma le gerarchie militari sudanesi, sino a ieri bastione del regime, possono essere salutate come garanti e guida della democrazia? È del tutto evidente che non può esserci democrazia e giustizia senza la rimozione (e punizione) dei responsabili di decenni di crimini contro i lavoratori, i giovani, le donne, e sicuramente il corpo degli alti ufficiali sudanesi è tra questi. Affidare il futuro della rivoluzione alle loro mani non è un tradimento delle stesse rivendicazioni democratiche?

Non solo. La rivoluzione sudanese ha posto sul tappeto questioni sociali gigantesche, ben al di là della soglia democratica. Il debito pubblico del Sudan verso le potenze imperialiste, vecchie e nuove, è ingente. Da un lato il FMI, dall'altro Russia e Cina, fedeli alleati di al-Bashir, pongono il Sudan sotto la tutela dei propri interessi di grandi creditori. La rivolta del pane è stata di fatto una rivolta contro le loro misure. Solo una rottura con l'imperialismo, a partire dalla cancellazione unilaterale del debito pubblico, può porre le basi per cancellare quelle vessazioni e riorganizzare il paese su basi nuove. Ciò che implica una soluzione anticapitalista. Ma le gerarchie militari sudanesi non romperanno mai con il Fondo Monetario Internazionale e il suo saccheggio, né lo farà la borghesia nazionale sudanese legata a doppio filo all'imperialismo. Solo il movimento dei lavoratori può perseguire questa soluzione. Solo un governo dei lavoratori, dei contadini poveri, delle masse diseredate del Sudan, può concretizzarla.


PER UNA DIREZIONE ALTERNATIVA DEL MOVIMENTO DI MASSA 

Manca oggi in Sudan un partito che si batta per questa prospettiva, e dunque per una egemonia alternativa tra le masse.

Il Partito Comunista Sudanese, fedele alla tradizione stalinista, ha una lunga storia. Fu il partito comunista più grande del Grande Medio Oriente arabo-musulmano, assieme al Partito Comunista Iracheno. Come quest'ultimo, pagò sulla propria pelle, in termini di repressione sanguinosa, la politica di subordinazione alla borghesia nazionalista promossa da Mosca. Il suo codice politico non si è modificato nel tempo. Il PC sudanese si è collocato all'opposizione di al-Bashir, ma con un profilo moderato, in cambio del riconoscimento legale. Nei mesi della sollevazione popolare ha avuto una presenza indubbia all'interno del movimento, incorrendo anche nella repressione del regime, ma la sua prospettiva strategica è (testualmente) “una alternativa popolare democratica che apra la strada per il completamento dei compiti della rivoluzione democratica”. Una formulazione che non solo non travalica la democrazia borghese, ma che è ipergradualista sullo stesso terreno democratico, al punto da accreditare indirettamente persino il regime di al-Bashir di una funzione “democratica” da “completare”. La sostanza è che il PC sudanese subordina l'avanguardia della classe lavoratrice e della gioventù all'alleanza con la borghesia nazionale sudanese, che a sua volta si subordina ai militari. Il risultato è che un'enorme sollevazione di massa è esposta ai rischi di una crisi di direzione. Come in Algeria, così in Sudan.

L'intero corso delle rivoluzioni arabe del 2010-2011 pone in evidenza questa legge fisica. Le masse sono capaci di esplosioni grandiose in grado di rovesciare regimi apparentemente eterni. Ma senza un partito rivoluzionario che riesca a prenderne la guida, le rivoluzioni più grandi sono destinate alla sconfitta. La rifondazione della Quarta Internazionale è in ultima analisi la migliore risposta al grido di libertà di Alaa Salah.
Partito Comunista dei Lavoratori

Confindustria e Landini a braccetto a sostegno dell'Unione Europea

La nuova segreteria Landini in CGIL era stata presentata come garanzia di svolta della confederazione. Nonostante il nuovo segretario portasse in dote il peggior contratto della storia dei metalmeccanici pur di accreditarsi agli occhi dell'apparato, questa illusione è stata ampiamente condivisa in ambienti diversa della sinistra, con la immancabile benedizione de Il Manifesto.
Ora parlano i fatti.

L'appello unitario di Confindustria e CGIL, CISL, UIL a sostegno dell'Unione Europea non è un innocuo pezzo di carta, ma un fatto politico di prima grandezza. L'organizzazione dei padroni e le burocrazie sindacali si tengono a braccetto alla vigilia delle elezioni europee. Firmano insieme un appello che esalta «la funzione sociale di progresso dell'Unione» (salari e pensioni ringraziano), loda la UE come «garanzia di pace» (e i bombardamenti su Belgrado? E il sostegno al governo di guerra in Ucraina?), e soprattutto rivendica lo sviluppo competitivo delle aziende europee, la massima concentrazione delle imprese europee per consentire loro di «raggiungere dimensioni comparabili a quelle USA», il ruolo di possibile potenza economica della UE per «rispondere alla concorrenza degli altri player mondiali». Per questo invoca «una politica estera europea proporzionale al Pil continentale». In altri termini invoca la UE come polo imperialista continentale capace di contendere a USA e Cina fette crescenti del mercato mondiale.

Inutile dire che l'appello ignora inevitabilmente ogni rivendicazione elementare dei lavoratori europei in contrapposizione ai propri padroni. Nulla sull'abbassamento dell'età pensionabile, nulla sulla riduzione dell'orario di lavoro, nulla sugli aumenti salariali, nulla di nulla che possa disturbare Confindustria. L'appello è di fatto un appello di Confindustria firmato da Landini, Furlan e Barbagallo. I lavoratori e le lavoratrici vengono offerti ai padroni non solo sul piano nazionale ma anche sul terreno europeo.

Non si dica che l'appello serve a contrastare le destre nazionaliste nel nome dell'europeismo. Perché è vero l'opposto. Proprio le destre sono le prime beneficiarie dell'appello. Per avvalorare la demagogia reazionaria contro “i sindacati incapaci di proteggere il popolo” cosa c'era di meglio che firmare un appello comune con i padroni che tagliano i salari, allungano l'orario, delocalizzano gli investimenti, chiedono rigore contro pensioni e sanità, lodano la santità della UE? Salvini e Di Maio non potevano sperare in un regalo più generoso.

Europeismo? Certo. Ma a favore di quale classe e contro quale classe? L'Unione Europea non è l'Europa. È l'unione delle classi capitalistiche di tutta Europa contro i salariati di tutta Europa. È l'unione che taglia servizi sociali per pagare il debito al capitale finanziario, che riduce le tasse ai capitalisti per attirare gli investimenti esteri, che aumenta lo sfruttamento dei propri operai per meglio competere, che saccheggia ambiente e territorio per ingrassare i profitti. Questa Unione per sua natura è nemica dei lavoratori e non è riformabile. Il nostro europeismo contro ogni sovranismo nazionalista muove da una angolazione di classe esattamente opposta. Rivendica l'unità di lotta dei lavoratori salariati di tutta Europa contro l'Unione Europea dei capitalisti, e l'unità di lotta dei lavoratori europei coi lavoratori americani e cinesi contro il capitalismo mondiale. Ci battiamo per una Europa socialista: gli unici Stati Uniti d'Europa che abbiano una valenza storica progressiva.

“Proletari di tutti i paesi unitevi” è più attuale che mai. Ma solo se è in contrapposizione ai padroni. Se invece è al loro servizio, nulla di nuovo all'orizzonte. È il film continentale degli ultimi quarant'anni. Maurizio Landini ha semplicemente scelto (e non da oggi) di figurare nella compagnia dei suoi attori. Evidentemente la segreteria CGIL val pure una messa... confindustriale.
9 aprile 2019
Partito Comunista dei Lavoratori

Italia e Francia si scontrano in Libia

Gli avvenimenti in Libia sono a un passaggio cruciale. Lo scontro in atto non è semplicemente tra Haftar e al-Sarraj. È uno scontro indiretto tra imperialismi, la Francia da un lato e l'Italia dall'altro.

Il generale Haftar ha da sempre un rapporto privilegiato con Parigi. L'imperialismo francese ha sfoggiato sulla vicenda libica il massimo dell'ipocrisia. Formalmente ha sostenuto e sostiene il governo di al-Sarraj assieme alla cosiddetta comunità internazionale. Nei fatti ha lavorato al fianco del governo di Tobruk guidato da Haftar, con ogni genere di aiuti sottobanco, aiuti militari inclusi. In primo luogo, la Total francese ha il grosso dei propri interessi in Cirenaica. La vittoria della Cirenaica sulla Tripolitania sarebbe la vittoria della Total su l'ENI. In secondo luogo, la Francia di Macron ambisce a rilanciare la tradizionale grandeur dell'imperialismo francese in Africa. Vuole difendere le proprie posizioni para coloniali nel Sahel, entrare nella partita della spartizione siriana, consolidare un asse con l'Egitto di al-Sisi, evitare di perdere il proprio primato in Algeria, attraversata dalla sollevazione popolare. Il sostegno ad Haftar è parte di un disegno più vasto.

E l'Italia? L'imperialismo di casa nostra sostiene al-Serraj perché l'ENI ha in Tripolitania il cuore dei propri interessi. Il governo Conte ha provato a intestarsi la regia della transizione libica vantando l'investitura dell'imperialismo USA e di Trump in persona, ma ha sbagliato i suoi conti. La Libia non rientra nel perimetro strategico prioritario degli USA, che non sembrano avere intenzione di spalleggiare più di tanto il governo di Tripoli. E i rapporti di forza politico-militari sul terreno volgono da tempo a vantaggio di Haftar. L'unica gara che l'Italia sta vincendo nel braccio di ferro con la Francia è quella dell'ipocrisia. Lo stesso governo Salvini che demonizza l'invasione islamica a difesa della cristianità e del Presepe sostiene in Libia il governo della Fratellanza Musulmana. Perché questo è il governo al-Serraj. Si vede che i profitti dell'ENI non hanno confessione religiosa, e vengono prima di ogni altra considerazione.

Vedremo gli sviluppi. Haftar ha di fatto messo le mani sul grosso dei giacimenti petroliferi della Libia, col plauso della Total. Ma la compagnia petrolifera nazionale (National Oil Corporation) che vende i barili e incassa i proventi ha il suo quartiere generale a Tripoli. Conquistare Tripoli significa conquistare il controllo della rendita petrolifera libica e dunque il comando politico del Paese. Questa è la ragione dell'avanzata di Haftar. Il governo Salvini-Di Maio sembra dunque avere la peggio nella guerra per procura con Macron. Di certo i lavoratori italiani e francesi non hanno nulla da spartire con gli interessi dei propri Stati briganti, con gli interessi dell'ENI o della Total, né hanno qualcosa da spartire le decine di migliaia di immigrati segregati nei lager della Libia da aguzzini finanziati da Italia e UE.
Partito Comunista dei Lavoratori

La lezione di Torre Maura

«Nessuno deve restare indietro, sia esso italiano, nero o rom». Un ragazzino di quindici anni, figlio di un licenziato di Almaviva, ha fronteggiato da solo i fascisti nella borgata di Torre Maura a Roma, la sua borgata. Lo ha fatto dopo che ha visto i fascisti calpestare il pane destinato ai rom, sospinto da un senso elementare di umanità e di giustizia.

La stampa borghese di impronta progressista ha dato ampio risalto all'episodio, rappresentandolo in termini di contrapposizione simbolica di valori (antirazzismo contro razzismo). Ma l'episodio dice assai più di questo, soprattutto da un punto di vista politico. Soprattutto a sinistra.

La prima cosa che dice è che è possibile contrastare i fascisti, anche sui temi più impervi. Possibile e necessario. Organizzazioni fasciste in 24 ore centralizzano la propria azione squadrista in un quartiere di Roma abbandonato al degrado aizzandolo contro i rom: “Via da qua, dovete morire di fame”, “ Scimmie, vi bruciamo vivi”. Un vero e proprio inizio di pogrom. E la sinistra romana dov'è? Dove sono le organizzazioni antifasciste, le organizzazioni sindacali, le formazioni della sinistra? Il fatto clamoroso non è stato l'azione dei fascisti, che fanno appunto i fascisti. È stata l'assenza di ogni contrasto, di ogni contro mobilitazione. È la misura di un arretramento che regala ai fascisti nuove praterie, e nuovi successi. Ciò che resta dei fatti di Torre Maura è che “Casa Pound e Forza Nuova hanno cacciato i rom”, con la connivenza supina della sindaca Raggi. Hanno imposto la propria legge, cioè la legge della forza squadrista. Ora la loro vittoria rischia di propagare l'esempio in altri quartieri e città, offrendo una bandiera miserabile a settori popolari immiseriti e declassati. È necessario allora recuperare, prima di tutto, l'iniziativa antifascista attraverso il fronte unitario più largo e determinato. Non solo a Roma ma ovunque. Non si può abbandonare l'antifascismo alla solitudine di gesti esemplari.

La seconda cosa che l'episodio coraggioso richiama è il contenuto dell'azione di contrasto. “Nessuno deve restare indietro, italiano, nero o rom” è la cifra semplificata di una possibile piattaforma di mobilitazione. Possibile e necessaria. Una piattaforma che va ben al di là della solidarietà ai rom e agli immigrati oggetto di aggressioni odiose, ma lega invece la solidarietà a un piano di rivendicazioni comuni capaci di unire tutti gli sfruttati al di là di ogni steccato etnico. Le parole d'ordine di una casa dignitosa per tutti anche attraverso l'esproprio di grandi proprietà immobiliari, di un lavoro per tutti anche attraverso l'investimento pubblico nel risanamento di case fatiscenti e strade disselciate, di un sistema di servizi sociali, a partire dagli asili, che dia supporto alle famiglie povere... sono parole d'ordine da incorporare alla iniziativa antifascista. I fascisti occupano spazi che la sinistra politica ha abbandonato e tradito. Solo rioccupando quegli spazi è possibile tagliare l'erba sotto i piedi dei fascisti. Ma rioccupare quegli spazi non significa tenere convegni sull'abbandono delle periferie, magari sotto elezioni. Significa organizzare gli sfruttati e la loro lotta contro il loro vero nemico. Che è il capitalismo, innanzitutto quello di casa nostra.
L'antifascismo, più che mai, o è anticapitalista o non è.
Partito Comunista dei Lavoratori

Il sovranismo di sinistra è una deriva, rilanciamo la lotta per un'Europa socialista

Intervista a Marco Ferrando

3 Aprile 2019
Dal sito: il Pane e le rose
Lontano da qualsiasi illusione circa la riformabilità dell'UE, il sito Il Pane e le rose non ha però mai sostenuto chi ne propugna il superamento per vie nazionaliste. Lo stesso fenomeno, attualmente in auge, del "sovranismo di sinistra", ci sembra foriero di pericolosi sbandamenti, a partire dal fatto che, richiamandosi a una sorta di "nuovo riscatto" dell'Italia o di altri paesi, pone in second'ordine - o cancella del tutto - il conflitto di classe. Per questo abbiamo intervistato Marco Ferrando, portavoce nazionale di quel Partito Comunista dei Lavoratori che da tempo è impegnato in una battaglia politica contro la suddetta tendenza. Uno sforzo evidentemente sostenuto da solide basi culturali, visto il carattere della conversazione che qui proponiamo, in cui il significato complessivo di falsa alternativa del "sovranismo di sinistra" viene evidenziato con dovizia di argomentazioni.

In questa intervista ci concentreremo sulla sempre maggiore diffusione, in ambiti un tempo alternativi, del verbo sovranista. Precisando, però, che non si tratta dell'unica catastrofe che investe la sinistra europea...
È indubbio. Oggi, la sinistra europea di matrice riformista appare divaricata tra due forme di subalternità, la prima delle quali è la subalternità al quadro della concertazione imperialistica europea, che passa attraverso il mito di una riforma sociale e democratica dell'UE. Per questa via, ciclicamente ci si genuflette alle politiche controriformatrici, volte a demolire i diritti sociali, com'è accaduto a Rifondazione Comunista con gli esecutivi Prodi, al PCF con il governo Jospin e, in tempi più recenti, a Tsipras in Grecia e, per un breve periodo, a Podemos in relazione al governo con il socialista Sanchez. Quel che non si capisce o si finge di non capire è che le politiche di austerità sono connaturate alla fisionomia stessa dell'UE. Vi è poi un secondo filone che ha reagito all'inevitabile crisi del riformismo europeista proponendo una forma di riformismo nazionalista o sovranista: questa tendenza fa capo a Mélenchon e alla sua France Insoumise nonché, in Germania, a un movimento fondato da Sahra Wagenknecht: Aufstehen. In forma mediata, in Italia, ritroviamo questo discorso anche in settori di Potere al Popolo. Si cerca di capitalizzare il fallimento del riformismo europeista, però senza mettere in discussione il capitalismo e palesando subalternità alle tendenze ideologico-culturali delle destre scioviniste.

Ecco, questo ci interessa: il fatto che i sovranisti di qualsiasi tipo non svolgono un discorso anticapitalistico...
A ben vedere, il sovranismo di sinistra non fa che riproporre, sul piano nazionale, l'illusione circa un possibile compromesso di tipo progressista tra capitale e lavoro. Quel che non sarebbe ipotizzabile nel contesto dell'UE e della moneta unica, acquisirebbe concretezza con il recupero della sovranità nazionale, base per un nuovo intervento dello Stato nei meccanismi del mercato. Si tratta di un'ipotesi infondata, che rimuove il fatto che, sul piano mondiale, lo spazio del riformismo si è esaurito da tempo, in conseguenza di due fattori: la fine del boom economico post-bellico e il crollo dell'URSS. L'agenda dell'austerità non è dominante solo in Europa ma in tutto il pianeta. Essa si è imposta dopo la prima crisi strutturale del '74-'75, anche se, ovviamente, l'euro e i suoi meccanismi strutturali l'hanno rilanciata. In sostanza, quando Vladimiro Giacché, in un'intervista rilasciata a Fulvio Grimaldi (1), asserisce che l'euro sarebbe la base della svalutazione del lavoro, dimentica che questa precarizzazione avviene ovunque, anche sotto il sovranissimo dollaro o sotto la sovranissima sterlina. La stessa cosa vale per l'innalzamento dell'età pensionabile, che non è un fenomeno esclusivo dell'Europa unita: in Russia, il proposito di Putin di muoversi in questa direzione lo sta esponendo a un calo di popolarità. Così come generalizzata è la riduzione progressiva delle tasse alle imprese, col suo portato di tagli alla spesa sociale. Insomma, è il capitalismo la base delle politiche di austerità. Dunque, per superarle la rottura con l'UE può essere una condizione decisiva, ma a patto che essa si collochi in una prospettiva anticapitalistica. Oggi tale rottura è sostenuta anche da reazionari, come dimostra la Brexit, preceduta da una campagna incentrata sul ritorno del Regno Unito alla sua "antica grandezza". Chi ha assimilato la Brexit all'Oxi, ossia alla prevalenza del no nel referendum del 2015 sul piano della Trojka per la Grecia, ha preso una cantonata incredibile. Con l'Oxi si è manifestata una rottura verso l'UE incentrata sulle istanze di cambiamento e di rifiuto dell'austerità espresse da ampi settori giovanili e del mondo del lavoro. Tsipras, dunque, ha tradito una dinamica di tipo progressivo.

Queste forzature sono strettamente legate all'idea che l'Europa sia dominata da un solo paese: la Germania...
Un'altra idea sganciata dalla realtà e che si può spiegare, in fondo, con la rimozione della categoria di imperialismo, sia in generale sia, in particolare, come comprensione dell'imperialismo di casa propria. Nella rappresentazione di Giacché l'UE coinciderebbe con l'euro e con una conseguente politica economica sbagliata, ma in realtà l'UE non può ridursi a espressione giuridica di una moneta, essendo il risultato di una concertazione tra imperialismi. L'Unione nasce da una comune volontà di intervenire contro il proletariato continentale e dalla spinta capitalistica ad espandersi verso l'est Europa dopo la caduta del muro di Berlino. Indubbiamente, in questo patto interimperialistico i rapporti di forza pesano: l'imperialismo tedesco risulta il più potente e ciò emerge chiaramente nei Trattati. Ma contrariamente alla narrazione diffusa non è stata la Germania il primo paese ispiratore dell'Unione, bensì la Francia che - a partire da Mitterand - ha spinto verso la moneta unica continentale per imbrigliare il Marco tedesco, accettando come contropartita l'unificazione tedesca. Parigi si illudeva di poter essere egemone in virtù della sua superiorità politico-militare, ma tale ambizione non ha trovato corrispondenza nei fatti. Ad ogni modo, in questa continua contrattazione, la Germania ha dovuto accettare, per dire, che la BCE adottasse il quantitative easing, un meccanismo di politica monetaria espansiva che è andato a vantaggio di paesi come l'Italia. Dunque, parliamo di compromessi tra imperialismi sovrani, da cui ognuno trae vantaggio in relazione alla forza che può esercitare. Il discorso sulla burocrazia tecnocratica distaccata da tutto, che decide in barba agli Stati o magari ascoltando solo l'opinione tedesca, è un'altra bufala. Sin qui, tutte le scelte sono state concertate, anche con il contributo dell'imperialismo italiano.

Una nozione, quella di imperialismo italiano, che per i soggetti politici e culturali di cui parliamo è quasi un tabù...
Sì, la natura dell'imperialismo italiano è oggetto di una totale rimozione da parte della cultura sovranista. Eppure Lenin indicava l'Italia come imperialismo già nel primo '900, aggiungendo l'aggettivo "straccione", allora opportuno. Poi, lo sviluppo capitalistico degli anni '30 e, ancor di più, dei '60 ha portato questo paese a un rango da grande potenza economica. Ancor oggi, pur avendo perso pezzi del proprio apparato produttivo, l'Italia risulta essere la seconda manifattura industriale d'Europa. Ma non è solo questo a smentire l'assimilazione dell'Italia alla Grecia, proposta da Giacché. Il debito pubblico greco è posseduto dai capitali finanziari tedesco, francese, italiano ecc. Il che conferma il carattere semicoloniale di quel paese. Il debito pubblico italiano è detenuto principalmente da banche italiane, il che dà la misura di una persistente autonomia finanziaria. Non parliamo, poi, della proiezione internazionale del nostro paese, sempre più forte, e non solo in termini di missioni militari. In alcuni paesi balcanici (Albania, Romania, Serbia) l'Italia è la prima presenza imperialista, risultando seconda in Croazia. L'area balcanica, ricordiamolo, è un terreno competitivo tutt'altro che secondario. Così come centrale è oggi l'Africa, dove l'ENI è la prima grande azienda imperialistica in assoluto, superando persino i colossi cinesi. Peraltro, lo stesso recente Memorandum d'Intesa con la Cina sulla Nuova Via della Seta non mira solo - come contropartita per l'apertura dei porti italiani - a un ampliamento delle esportazioni sul mercato cinese. Legarsi alla filiera delle aziende cinesi può agevolare l'ulteriore espansione economica in Africa. Lo scontro con la Francia rinvia a questo: oltralpe vogliono mantenere le proprie posizioni in Africa. Laddove le critiche tedesche rimandano alla volontà di Berlino di consolidare le quote di mercato conquistate negli ultimi anni in Asia, senza esser turbati da temibili concorrenti.

Questo ci richiama alla mente il plauso di certi sovranisti di sinistra a Di Battista, in relazione alle sue invettive contro la politica francese in Africa. Come a dire che, se occasionalmente si torna a parlare di imperialismo, è solo per puntare l'indice contro quello degli altri paesi...
È tipico della storia patria: nei primi decenni del '900, la retorica del colonialismo italiano si alimentava attraverso la denuncia del colonialismo altrui, che impediva al nostro paese di "conquistare un posto al sole". Gli intellettuali che denunciano solo l'imperialismo francese potranno pure autodefinirsi marxisti ma non fanno che palesare la propria subalternità all'imperialismo di casa propria. Di più, poiché per il "rilancio" dell'Italia si vede come necessario il rapporto con la Cina, si sconfina anche nella subalternità all'imperialismo cinese.

A tuo avviso, esiste un nesso tra questo approccio al tema dell'imperialismo e le posizioni sull'immigrazione, che in alcuni casi si approssimano a quelle delle destre?
Certamente, le posizioni sull'immigrazione sono un'altra espressione di subalternità. Nel caso di Giacché, la rappresentazione della destra viene assunta al 100%: egli parla in sostanza di un'invasione. Inoltre, nella già citata intervista, Grimaldi introduce pure un elemento complottistico che conferisce al discorso un sapore ancor più reazionario. Sul piano analitico, ciò è incredibile! Si rimuovono le ragioni materiali dei processi migratori, riconducibili al dominio imperialistico. Dominio che, come si diceva, vede in prima fila la stessa Italia, attualmente impegnata pure nella corsa alle miniere di litio e di cobalto, utili per nuove produzioni come l'auto elettrica. La stessa sollevazione algerina, in atto da settimane, non si limita a contestare l'autoritarismo del "sistema Bouteflika", rivolgendosi anche contro le ricadute materiali della dominazione straniera. Ossia, contro le politiche di austerità imposte, per conto delle potenze imperialiste, dagli organismi finanziari sovranazionali. Questi aspetti non si possono rimuovere. Noi non amiamo la retorica sull'immigrazione come espressione di libertà, che è l'opposto speculare del vade retro degli sciovinisti. Il punto è che l'immigrazione è un dramma causato dall'imperialismo. Le politiche incentrate sui respingimenti e sul restringimento dei diritti non sono solo ingiustificabili, dato che questi processi sono stati innescati dai paesi respingenti, ma producono un allargamento dell'immigrazione irregolare, priva di qualsivoglia tutela e dunque tale da poter essere supersfruttata da imprenditori come, poniamo, quelli rappresentati dalla Lega di Salvini. Quindi, con l'immigrazione parliamo di un altro tassello di una deriva che, a ben vedere, è complessiva, consistendo nella tendenza, tipica di diversi intellettuali, a legittimare il peggio del peggio sulla base di una fraseologia marxisteggiante. L'esempio più eclatante è quello di Diego Fusaro, che probabilmente ha scelto di esprimersi in questi termini per ottenere visibilità mediatica. Ma anche uno studioso di maggior levatura come Carlo Formenti, in alcuni dei suoi ultimi testi (La variante populista e Il socialismo è morto, viva il socialismo! Dalla disfatta della sinistra al momento populista) sposa senza indugio le tesi sovraniste, abbandonando una lettura classista della realtà e facendosi coinvolgere nelle molte rimozioni qui citate, come quella relativa all'imperialismo italiano.

Hai appena nominato Fusaro, il sovranista più spregiudicato. Che ne pensi della sua condanna in blocco delle lotte per i diritti civili?
Alla base vi è una contrapposizione tra diritti civili e diritti sociali che va respinta. Secondo i sovranisti, il femminismo, le mobilitazioni lgbt e, in generale, le ideologie libertarie, rientrerebbero totalmente nell'alveo del capitale globale transnazionale, che se ne farebbe scudo contro gli interessi nazionali. Si tratta di una lettura delirante, che si pone in un orizzonte culturale ultraconservatore. La logica da seguire è un'altra e rinvia a un'egemonia proletaria nei movimenti per i diritti civili, anche perché la piena realizzazione degli stessi è incompatibile con la salvaguardia del capitale. Le ideologie liberalprogressiste, relegando i diritti civili nel quadro delle compatibilità vigenti, non possono che portare a risultati modestissimi, come dimostrano le unioni civili approvate in Italia dal centrosinistra. Ma chi separa gli interessi sociali dai diritti civili non fa che regalare l'egemonia su questo tema a forze come il PD e i suoi affini. Penso, ad esempio, a Marco Rizzo, che propone di continuo questo cliché: "la sinistra dei salotti si occupa dei diritti civili, mentre noi ci concentriamo sui proletari". Noi rifiutiamo questa cesura, così come quella tra oppressione di genere e movimento operaio, che non a caso la Rivoluzione d'Ottobre concepì in stretta connessione, tanto da portare con sé conquiste come la legalizzazione dell'aborto, poi venuta meno in seguito alla controrivoluzione stalinista.

È tutto molto chiaro. Ma c'è chi indica nel PCL l'alfiere di un internazionalismo astratto e perciò, in ultima analisi, incapace di scalfire le culture dominanti nel capitalismo globale...
Respingiamo con risolutezza queste critiche. Per 15 anni, come opposizione interna di Rifondazione Comunista, e poi per 12 come PCL abbiamo svolto una lineare battaglia classista contro l'europeismo riformista, denunciandone l'appiattimento sulle politiche di austerità. Mentre noi eravamo impegnati in tal senso, i vari Ugo Boghetta e Marco Rizzo, oggi campioni verbali dell'attacco all'UE, partecipavano acriticamente alle illusioni riformiste. Il secondo in particolare, era dirigente di Rifondazione nel '97-'98, quando il governo di centrosinistra gettava le basi per entrare nell'euro e varava il Pacchetto Treu; poi, in seguito alla rottura con Bertinotti, ha sostenuto il governo D'Alema che bombardava la Serbia. Per non dire del fatto che, al Parlamento europeo nel 2005, arrivò a votare i Trattati Europei. Noi, invece, siamo sempre stati per la rottura con l'UE però su una base di indipendenza proletaria. Un ipotetico governo dei lavoratori, così come lo concepiamo noi, partirebbe anche da questi atti: 1) l'abolizione del debito pubblico verso il capitale finanziario; 2) la nazionalizzazione delle banche, unificate in un solo istituto centrale; 3) la cancellazione di tutti i trattati firmati con gli altri imperialismi in seno all'UE. In sostanza, abbiamo sempre proposto una rottura diversa da quella legata agli interessi capitalistici nazionali, rivendicata da settori della piccola e media borghesia di casa nostra. L'idea che qualsiasi rottura con l'UE sia in sé positiva è profondamente sbagliata. Non si può prescindere dalla dinamica di classe che la produce. Il momento dell'Oxi, per dire, non era egemonizzato dal marxismo rivoluzionario, ma si basava su elementi progressivi: nel sentimento popolare di protesta pesavano le istanze giovanili e proletarie. Un altro conto sarebbe una rottura subalterna al Front National, alla Lega o all'AfD tedesca.

Bene, ma oggi questa battaglia di lunga data come intendete proseguirla? Come si può lavorare per una rottura con l'UE che non si confonda con quella agitata dai sovranisti?
Va puntualizzato che, proprio perché siamo per l'indipendenza di classe, intendiamo svolgere una duplice azione: contro l'UE, ma anche contro l'imperialismo italiano, al quale nei prossimi tempi dedicheremo sempre più attenzione. Oggi, oltre alla persistenza dell'UE c'è una tendenza a sgomitare delle diverse potenze nazionali che va registrata e denunciata. Fatta questa precisazione, va detto che è nostro obiettivo sviluppare un lavoro comprendente almeno due livelli. Il primo riguarda la definizione di una politica classista in senso generale, tale da cementare la solidarietà tra i proletariati europei. È un piano, questo, che concerne le rivendicazioni materiali e dovrebbe tradursi in una piattaforma unificante nei singoli paesi e a livello continentale. Tra i suoi punti qualificanti: quel salario minimo europeo che non andrebbe lasciato ai populisti (noi pensiamo a un salario minimo intercategoriale di 1500 euro); la ripresa della battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro, che oggi dovrebbe coincidere con le 30 ore a parità salariale o, per meglio dire, in un quadro di aumenti salariali; la già citata abolizione del debito pubblico per reperire le risorse atte a rilanciare le politiche sociali. Ecco, questo è, se vogliamo, il nostro "europeismo". Carlo Formenti arriva a negare l'esistenza dell'Europa in quanto categoria politica, ma noi gli ricordiamo che, nel 1923, quando c'era tensione tra Francia e Germania per il controllo della Ruhr, l'Internazionale Comunista di Lenin e Trotsky lanciò con vigore la parola d'ordine dell'Unione degli Stati Socialisti d'Europa. Memori di questo esempio, riteniamo sia necessario creare le basi per unire il proletariato su scala continentale. Per quanto riguarda il secondo livello, esso rimanda a un serrato confronto strategico e lavoro comune con tutti i settori dell'avanguardia proletaria con cui vi siano affinità programmatiche e di principio. Non solo, quindi, con le realtà del trotskismo con cui siamo già in contatto (vedi Anticapitalisme et Revolution, in seno al Nouveau Parti Anticapitaliste francese). Alla Terza Internazionale aderirono correnti di orientamento ideologico assai differente da quello dei bolscevichi, perché ne condividevano gli obiettivi di fondo. Ora, questa ricomposizione delle avanguardie europee potrebbe portare, in prospettiva, proprio alla ricostruzione della IV Internazionale.



Note:

(1) Intervista con un economista contro
Il Pane e le rose - Collettivo redazionale di Roma

Il capitalismo uccide la natura. L'alternativa o è anticapitalista o non è

Il futuro dell'umanità è in pericolo.
La temperatura del pianeta continua a crescere, l'aria che si respira è sempre più contaminata, i ghiacciai si sciolgono, cresce il livello degli oceani, si estinguono molte specie viventi, si estendono insieme siccità e inondazioni. Nove milioni di persone nel mondo muoiono ogni anno per l'inquinamento.

Non sono dati “di parte”, ma una verità riconosciuta da tutta la comunità scientifica. Eppure è stato necessario un movimento di decine di milioni di giovani per denunciarla agli occhi del mondo.

Ma qual è la causa vera e di fondo della devastazione ambientale? Ci raccontano che sono i consumi individuali sbagliati e gli stili di vita inappropriati. Come a dire che le responsabilità sono di ognuno, e dunque la società non c'entra. Ipocriti! È vero l'opposto. Alla base di tutto sta proprio un'organizzazione della società e dell'economia che mette il profitto sopra ogni cosa, e che subordina a sé ogni individuo. La dittatura del profitto: questo è ciò che distrugge gli ecosistemi del pianeta.

È la dittatura del profitto che ha sospinto le energie fossili, che ha posto al centro il binomio tra auto e petrolio, che ha marginalizzato le energie rinnovabili. È la dittatura del profitto che intossica gli alimenti coi pesticidi, che impoverisce i suoli col supersfruttamento, che trasforma in discariche i mari e i fiumi. E questa dittatura del profitto non è un effetto spiacevole di politiche sbagliate, che si può correggere con qualche riforma. È il pilastro su cui si regge l'intera organizzazione della società. Un'organizzazione che si chiama capitalismo. Senza la messa in discussione del capitalismo, in ogni paese e su scala mondiale, non vi sarà la riconciliazione tra specie umana e natura.

Questa riconciliazione è non solo necessaria ma possibile. Il potenziale tecnico delle energie rinnovabili (sole, vento, acqua) consentirebbe di coprire per oltre 10 volte i bisogni energetici dell'umanità. Una riconversione ecologica dell'economia mondiale creerebbe una mole immensa di nuovo lavoro socialmente utile. Ma solo il rovesciamento della dittatura dei capitalisti, in ogni paese e in una prospettiva mondiale, potrà aprire la via a questa riorganizzazione razionale dell'economia. Una riorganizzazione ecosocialista: nella quale sarà la maggioranza della società a decidere finalmente come, cosa, per chi produrre, e non un pugno di miliardari.

In ogni paese i governi e lo Stato tutelano gli interessi di questi miliardari. Basti pensare che l'ENI incassa ogni anno in Italia ben 16 miliardi di sussidi pubblici per continuare a inquinare. Soldi versati indistintamente da vecchi e nuovi governi. Soldi presi da salari, pensioni, sanità, istruzione. Soldi sottratti (anche) alle bonifiche ambientali, al trasporto pubblico su ferro, al riassetto idrogeologico del territorio. Per non parlare dei 70-80 miliardi versati ogni anno alle banche per pagare gli interessi sui titoli di Stato e gonfiare il portafoglio dei loro grandi azionisti. Gli stessi che siedono nei consigli di amministrazione delle grandi aziende inquinanti.

Occorre fare piazza pulita di tutto questo. Il movimento studentesco che si è levato il 15 marzo ha potenzialità enormi. Altri vogliono dirottarlo su falsi binari, magari elettorali. Noi vogliamo invece portare al suo interno un progetto anticapitalista, unendo attorno ad esso tutti coloro che lo condividono.
Partito Comunista dei Lavoratori

Verona, 30 marzo, in tante e tanti contro l'oscurantismo


Foto dello spezzone del Partito Comunista dei Lavoratori

31 Marzo 2019
Quanto successo ieri a Verona è importante. Il governo Salvini-Di Maio non si potrà immaginare, ancora una volta, senza opposizione. Abbiamo partecipato con il nostro spezzone, con le nostre parole d'ordine, alla manifestazione di Verona anche per questo, per ribadire che solo un'opposizione sociale, di massa e prolungata può sconfiggere l'arretramento e gli attacchi ai diritti e all'autodeterminazione delle donne e di tutti i soggetti oppressi.
Contro i reazionari e l'oscurantismo, una soluzione: anticapitalismo!
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI