♠ in al-Bashir,Alaa Salah,Algeria,anticapitalismo,Associazione professionale sudanese,Bouteflika,Cina,Corte Penale Internazionale,FMI,golpe,Khartum,Partito Comunista Sudanese,rivoluzione,Russia,Sudan at 03:52
“Rivoluzione! Vogliamo essere libere. Vogliamo cambiare il mondo”.
Con queste parole Alaa Salah, una studentessa sudanese di 22 anni, arringava ieri la massa a nuda voce dal tetto di una vecchia automobile a Khartum. Come in Algeria, il ruolo delle donne è centrale nella sollevazione popolare che da dicembre ha attraversato il Sudan e ha finito col travolgere il presidente al-Bashir.
Un'ampia area politica della sinistra campista internazionale, prevalentemente di estrazione stalinista, è giunta ad appoggiare il regime sudanese e persino ad esaltarlo come antimperialista. La sentenza di condanna di al-Bashir della Corte Penale Internazionale, unita all'appoggio di Russia e Cina, erano più che sufficienti a determinare la loro scelta di campo. Noi partiamo da un criterio di classe e dalla prospettiva della rivoluzione, in Sudan come ovunque. Non riconosciamo alcun diritto a una Corte Penale Internazionale che ha coperto i peggiori crimini dell'imperialismo e del sionismo, ma riconosciamo ogni diritto degli sfruttati a ribellarsi a regimi oppressivi. Per questo in Sudan come in Algeria siamo dalla parte della sollevazione popolare.
LA SOLLEVAZIONE POPOLARE CONTRO UN REGIME REAZIONARIO
Lo sfondo della ribellione di massa è la precipitazione della crisi sudanese nell'ultimo decennio. Come il regime di Bouteflika in Algeria, anche il regime sudanese aveva prosperato per lunghi anni grazie alla rendita petrolifera. Il crollo del prezzo, a ridosso della crisi capitalistica internazionale, ha destabilizzato le basi d'appoggio del regime. A ciò si aggiungeva la separazione del Sud Sudan da Khartum nel 2011, che privava il regime di al-Bashir dei maggiori giacimenti petroliferi, che reggevano il 75% delle esportazioni nazionali. L'indebitamento sempre maggiore presso il capitale finanziario è stata una conseguenza naturale. Da qui la crescente pressione usuraia dell'imperialismo sul Sudan. La sollevazione è nata da questa dinamica generale.
A novembre 2018 una delegazione del FMI si recava a Khartum per esigere la fine delle sovvenzioni pubbliche dei prodotti di prima necessità, a partire dalla farina, quale condizione preliminare per la concessione di nuovi crediti. Il regime, già indebitato per 50 miliardi di dollari, applicava le ricette vessatorie dell'imperialismo. Il prezzo del pane triplicò in pochi giorni, in un paese segnato da una inflazione annua del 70%. Da qui le prime manifestazioni in un crescendo di mobilitazione pressoché ininterrotta.
Accanto alla ragione sociale ha operato un fattore politico. Il regime instauratosi nel 1989 sotto la direzione del fronte islamista a guida al-Bashir incarnava una dittatura odiosa e dispotica, già protagonista nel giugno 2012 e nel settembre 2013 di repressioni sanguinose delle manifestazioni popolari. Il consenso del 95% (!) registrato alle ultime elezioni presidenziali del 2015 era espressione di metodi plebiscitari e di brogli clamorosi. In base alla Costituzione formale al-Bashir avrebbe dovuto essere al suo ultimo mandato, ma ad agosto il regime annunciò che il Presidente si sarebbe ricandidato nelle elezioni del 2020, una provocazione agli occhi di ampi settori sociali.
La ribellione deve dunque la sua dimensione e durata alla combinazione di questi fattori.
COMPOSIZIONE E DINAMICA DELLA RIVOLTA
La mobilitazione non è iniziata nella capitale Khartum, ma nella provincia. In una città, Atbara, situata sulle rive del Nilo, cuore della vecchia tradizione del movimento socialista e comunista sudanese. Era la città delle grandi miniere del ferro, sede dell'antico sindacato operaio. La memoria di una tradizione classista ha avuto il suo peso indiretto nell'innesco della rivolta.
Tuttavia la rivolta di massa non ha avuto sinora un carattere prevalentemente classista, ma popolare. Sono confluiti in essa le masse diseredate della capitale e delle altre città (Porto Sudan, Dongola, Cassala, Gedaref, El Obeid, Nyala); la piccola borghesia urbana, a partire dalle libere professioni; la grande maggioranza degli studenti, in particolare universitari. In ognuno di questi settori sociali non è un caso che le donne abbiano svolto un ruolo portante. Il regime islamista era particolarmente reazionario proprio verso le donne, cui veniva proibito persino di indossare pantaloni o di viaggiare in auto senza presenza del marito. Un sistema vessatorio e grottesco, che contrastava oltretutto sempre più con la crescita del livello di istruzione della popolazione femminile, assai estesa nelle università. Le studentesse come Alaa Salah sono state sospinte alla testa della rivolta dalla radicalità della propria oppressione. La tunica bianca indossata da Alaa è l'abito tradizionale delle donne che lavorano, che già settanta anni fa marciavano così vestite contro le dittature militari.
La dinamica della mobilitazione ha conosciuto una radicalizzazione progressiva non solo in ampiezza ma anche nelle parole d'ordine. A dicembre le parole d'ordine delle manifestazioni era la richiesta della cancellazione degli aumenti. Nei primi mesi del nuovo anno la parola d'ordine centrale che assorbiva tutte le altre era direttamente politica: “Via al-Bashir!”.
Questo salto della politicizzazione del movimento è stato l'effetto naturale della repressione. Una repressione spietata. Il regime ha usato sistematicamente contro le manifestazioni popolari non solo la polizia regolare ma le milizie speciali controllate direttamente dal Presidente. Milizie composte dagli apparati di sicurezza (NISS), le stesse che nel 2013 avevano fatto oltre 200 morti. La storia di questi mesi ha visto decine di manifestanti assassinati, oltre 60, decine di migliaia di arresti, sparizioni, abusi, torture. Un calvario con cui il regime contava come in passato di liquidare la mobilitazione e ripristinare l'ordine. Si è sbagliato. Ciò che normalmente funziona, non funziona necessariamente davanti a una rivoluzione.
IL RUOLO CRUCIALE DELL'ESERCITO, TRA AL-BASHIR E LA RIVOLTA DI MASSA
È accaduto infatti per alcuni aspetti l'opposto. La pressione di massa è stata talmente dirompente da aprire una contraddizione verticale tra il clan presidenziale e l'esercito, con un processo parzialmente simile a quanto è accaduto in Algeria. Le gerarchie militari, al loro interno divise sulla propria relazione col regime, hanno compreso per tempo che la continuità e l'ampiezza della mobilitazione rendeva impraticabile, oltre una certa soglia, la via della repressione frontale, la quale avrebbe comportato un massacro infinitamente più grande che in passato, e che soprattutto avrebbe messo a rischio la stessa unità dell'esercito, sempre più contagiato nei suoi piani bassi dalla pressione popolare. Non a caso le manifestazioni di massa degli ultimi giorni di fronte al quartier generale dell'esercito sudanese a Khartum erano state protette dai soldati contro le provocazioni delle milizie presidenziali, al punto che un soldato è stato ucciso dalla polizia mentre difendeva i manifestanti. A questo punto le alte gerarchie militari hanno destituito al-Bashir con un proprio colpo di Stato al fine di salvare l'unità dell'esercito e dunque il proprio comando.
Per questa stessa ragione, la caduta di Bashir è al tempo stesso l'effetto della rivoluzione sudanese e l'inizio della controrivoluzione. La massa popolare saluta festante, e giustamente, la caduta di al-Bashir come propria vittoria, ma la destituzione militare del Presidente incombe come una minaccia contro le aspirazioni di quella stessa massa. Il primo comunicato della nuova giunta militare proclama il coprifuoco, cancella Parlamento e Costituzione, annuncia due anni di governo militare. È questo che chiedevano le masse in rivolta? La conclusione tragica della rivoluzione egiziana, finita tra le braccia dei militari di al-Sisi, non promette nulla di buono.
Ancora una volta, la questione della direzione politica del movimento si presenta come nodo cruciale della rivoluzione.
LA PICCOLA BORGHESIA ALLA DIREZIONE DEL MOVIMENTO
La direzione del movimento di massa di questi mesi si è concentrata nelle mani della Associazione professionale sudanese (SPA), nata come sindacato alternativo del pubblico impiego (a fronte dei sindacati infeudati al regime) ma rapidamente trasformatasi in un raggruppamento civico guidato da professori universitari, medici, ingegneri, il cuore delle libere professioni della capitale. Un ambiente piccolo-borghese democratico-liberale da tempo ostile al regime. La SPA a sua volta si è collegata a tre grandi coalizioni politiche di opposizione, composte dal personale politico più eterogeneo, da ex ministri di al-Bashir caduti in disgrazia sino al Partito Comunista Sudanese, di estrazione stalinista, passando per borghesi liberal e islamici progressisti. La piccola borghesia democratica si trova insomma a capeggiare un grande fronte popolare che prende il nome di “Dichiarazione per la libertà e il cambiamento”: un fronte che nel suo stesso nome non va al di là del confine democratico-costituzionale. Il suo scopo è subordinare la ribellione di massa a un semplice cambio democratico. Ma c'è lo spazio politico e sociale di un semplice cambio democratico in Sudan? La domanda non è peregrina. Lo dimostra lo sviluppo degli avvenimenti in corso.
L'Associazione professionale sudanese nel nome della democrazia ha chiesto insistentemente alle gerarchie militari di destituire al-Bashir, lodando ed esaltando la loro responsabilità democratica e rivendicando un governo di transizione democratica composto da civili e militari. In altri termini la piccola borghesia democratica concepisce la rivoluzione in funzione delle proprie aspirazioni governative. Ma le gerarchie militari sudanesi, sino a ieri bastione del regime, possono essere salutate come garanti e guida della democrazia? È del tutto evidente che non può esserci democrazia e giustizia senza la rimozione (e punizione) dei responsabili di decenni di crimini contro i lavoratori, i giovani, le donne, e sicuramente il corpo degli alti ufficiali sudanesi è tra questi. Affidare il futuro della rivoluzione alle loro mani non è un tradimento delle stesse rivendicazioni democratiche?
Non solo. La rivoluzione sudanese ha posto sul tappeto questioni sociali gigantesche, ben al di là della soglia democratica. Il debito pubblico del Sudan verso le potenze imperialiste, vecchie e nuove, è ingente. Da un lato il FMI, dall'altro Russia e Cina, fedeli alleati di al-Bashir, pongono il Sudan sotto la tutela dei propri interessi di grandi creditori. La rivolta del pane è stata di fatto una rivolta contro le loro misure. Solo una rottura con l'imperialismo, a partire dalla cancellazione unilaterale del debito pubblico, può porre le basi per cancellare quelle vessazioni e riorganizzare il paese su basi nuove. Ciò che implica una soluzione anticapitalista. Ma le gerarchie militari sudanesi non romperanno mai con il Fondo Monetario Internazionale e il suo saccheggio, né lo farà la borghesia nazionale sudanese legata a doppio filo all'imperialismo. Solo il movimento dei lavoratori può perseguire questa soluzione. Solo un governo dei lavoratori, dei contadini poveri, delle masse diseredate del Sudan, può concretizzarla.
PER UNA DIREZIONE ALTERNATIVA DEL MOVIMENTO DI MASSA
Manca oggi in Sudan un partito che si batta per questa prospettiva, e dunque per una egemonia alternativa tra le masse.
Il Partito Comunista Sudanese, fedele alla tradizione stalinista, ha una lunga storia. Fu il partito comunista più grande del Grande Medio Oriente arabo-musulmano, assieme al Partito Comunista Iracheno. Come quest'ultimo, pagò sulla propria pelle, in termini di repressione sanguinosa, la politica di subordinazione alla borghesia nazionalista promossa da Mosca. Il suo codice politico non si è modificato nel tempo. Il PC sudanese si è collocato all'opposizione di al-Bashir, ma con un profilo moderato, in cambio del riconoscimento legale. Nei mesi della sollevazione popolare ha avuto una presenza indubbia all'interno del movimento, incorrendo anche nella repressione del regime, ma la sua prospettiva strategica è (testualmente) “una alternativa popolare democratica che apra la strada per il completamento dei compiti della rivoluzione democratica”. Una formulazione che non solo non travalica la democrazia borghese, ma che è ipergradualista sullo stesso terreno democratico, al punto da accreditare indirettamente persino il regime di al-Bashir di una funzione “democratica” da “completare”. La sostanza è che il PC sudanese subordina l'avanguardia della classe lavoratrice e della gioventù all'alleanza con la borghesia nazionale sudanese, che a sua volta si subordina ai militari. Il risultato è che un'enorme sollevazione di massa è esposta ai rischi di una crisi di direzione. Come in Algeria, così in Sudan.
L'intero corso delle rivoluzioni arabe del 2010-2011 pone in evidenza questa legge fisica. Le masse sono capaci di esplosioni grandiose in grado di rovesciare regimi apparentemente eterni. Ma senza un partito rivoluzionario che riesca a prenderne la guida, le rivoluzioni più grandi sono destinate alla sconfitta. La rifondazione della Quarta Internazionale è in ultima analisi la migliore risposta al grido di libertà di Alaa Salah.
Con queste parole Alaa Salah, una studentessa sudanese di 22 anni, arringava ieri la massa a nuda voce dal tetto di una vecchia automobile a Khartum. Come in Algeria, il ruolo delle donne è centrale nella sollevazione popolare che da dicembre ha attraversato il Sudan e ha finito col travolgere il presidente al-Bashir.
Un'ampia area politica della sinistra campista internazionale, prevalentemente di estrazione stalinista, è giunta ad appoggiare il regime sudanese e persino ad esaltarlo come antimperialista. La sentenza di condanna di al-Bashir della Corte Penale Internazionale, unita all'appoggio di Russia e Cina, erano più che sufficienti a determinare la loro scelta di campo. Noi partiamo da un criterio di classe e dalla prospettiva della rivoluzione, in Sudan come ovunque. Non riconosciamo alcun diritto a una Corte Penale Internazionale che ha coperto i peggiori crimini dell'imperialismo e del sionismo, ma riconosciamo ogni diritto degli sfruttati a ribellarsi a regimi oppressivi. Per questo in Sudan come in Algeria siamo dalla parte della sollevazione popolare.
LA SOLLEVAZIONE POPOLARE CONTRO UN REGIME REAZIONARIO
Lo sfondo della ribellione di massa è la precipitazione della crisi sudanese nell'ultimo decennio. Come il regime di Bouteflika in Algeria, anche il regime sudanese aveva prosperato per lunghi anni grazie alla rendita petrolifera. Il crollo del prezzo, a ridosso della crisi capitalistica internazionale, ha destabilizzato le basi d'appoggio del regime. A ciò si aggiungeva la separazione del Sud Sudan da Khartum nel 2011, che privava il regime di al-Bashir dei maggiori giacimenti petroliferi, che reggevano il 75% delle esportazioni nazionali. L'indebitamento sempre maggiore presso il capitale finanziario è stata una conseguenza naturale. Da qui la crescente pressione usuraia dell'imperialismo sul Sudan. La sollevazione è nata da questa dinamica generale.
A novembre 2018 una delegazione del FMI si recava a Khartum per esigere la fine delle sovvenzioni pubbliche dei prodotti di prima necessità, a partire dalla farina, quale condizione preliminare per la concessione di nuovi crediti. Il regime, già indebitato per 50 miliardi di dollari, applicava le ricette vessatorie dell'imperialismo. Il prezzo del pane triplicò in pochi giorni, in un paese segnato da una inflazione annua del 70%. Da qui le prime manifestazioni in un crescendo di mobilitazione pressoché ininterrotta.
Accanto alla ragione sociale ha operato un fattore politico. Il regime instauratosi nel 1989 sotto la direzione del fronte islamista a guida al-Bashir incarnava una dittatura odiosa e dispotica, già protagonista nel giugno 2012 e nel settembre 2013 di repressioni sanguinose delle manifestazioni popolari. Il consenso del 95% (!) registrato alle ultime elezioni presidenziali del 2015 era espressione di metodi plebiscitari e di brogli clamorosi. In base alla Costituzione formale al-Bashir avrebbe dovuto essere al suo ultimo mandato, ma ad agosto il regime annunciò che il Presidente si sarebbe ricandidato nelle elezioni del 2020, una provocazione agli occhi di ampi settori sociali.
La ribellione deve dunque la sua dimensione e durata alla combinazione di questi fattori.
COMPOSIZIONE E DINAMICA DELLA RIVOLTA
La mobilitazione non è iniziata nella capitale Khartum, ma nella provincia. In una città, Atbara, situata sulle rive del Nilo, cuore della vecchia tradizione del movimento socialista e comunista sudanese. Era la città delle grandi miniere del ferro, sede dell'antico sindacato operaio. La memoria di una tradizione classista ha avuto il suo peso indiretto nell'innesco della rivolta.
Tuttavia la rivolta di massa non ha avuto sinora un carattere prevalentemente classista, ma popolare. Sono confluiti in essa le masse diseredate della capitale e delle altre città (Porto Sudan, Dongola, Cassala, Gedaref, El Obeid, Nyala); la piccola borghesia urbana, a partire dalle libere professioni; la grande maggioranza degli studenti, in particolare universitari. In ognuno di questi settori sociali non è un caso che le donne abbiano svolto un ruolo portante. Il regime islamista era particolarmente reazionario proprio verso le donne, cui veniva proibito persino di indossare pantaloni o di viaggiare in auto senza presenza del marito. Un sistema vessatorio e grottesco, che contrastava oltretutto sempre più con la crescita del livello di istruzione della popolazione femminile, assai estesa nelle università. Le studentesse come Alaa Salah sono state sospinte alla testa della rivolta dalla radicalità della propria oppressione. La tunica bianca indossata da Alaa è l'abito tradizionale delle donne che lavorano, che già settanta anni fa marciavano così vestite contro le dittature militari.
La dinamica della mobilitazione ha conosciuto una radicalizzazione progressiva non solo in ampiezza ma anche nelle parole d'ordine. A dicembre le parole d'ordine delle manifestazioni era la richiesta della cancellazione degli aumenti. Nei primi mesi del nuovo anno la parola d'ordine centrale che assorbiva tutte le altre era direttamente politica: “Via al-Bashir!”.
Questo salto della politicizzazione del movimento è stato l'effetto naturale della repressione. Una repressione spietata. Il regime ha usato sistematicamente contro le manifestazioni popolari non solo la polizia regolare ma le milizie speciali controllate direttamente dal Presidente. Milizie composte dagli apparati di sicurezza (NISS), le stesse che nel 2013 avevano fatto oltre 200 morti. La storia di questi mesi ha visto decine di manifestanti assassinati, oltre 60, decine di migliaia di arresti, sparizioni, abusi, torture. Un calvario con cui il regime contava come in passato di liquidare la mobilitazione e ripristinare l'ordine. Si è sbagliato. Ciò che normalmente funziona, non funziona necessariamente davanti a una rivoluzione.
IL RUOLO CRUCIALE DELL'ESERCITO, TRA AL-BASHIR E LA RIVOLTA DI MASSA
È accaduto infatti per alcuni aspetti l'opposto. La pressione di massa è stata talmente dirompente da aprire una contraddizione verticale tra il clan presidenziale e l'esercito, con un processo parzialmente simile a quanto è accaduto in Algeria. Le gerarchie militari, al loro interno divise sulla propria relazione col regime, hanno compreso per tempo che la continuità e l'ampiezza della mobilitazione rendeva impraticabile, oltre una certa soglia, la via della repressione frontale, la quale avrebbe comportato un massacro infinitamente più grande che in passato, e che soprattutto avrebbe messo a rischio la stessa unità dell'esercito, sempre più contagiato nei suoi piani bassi dalla pressione popolare. Non a caso le manifestazioni di massa degli ultimi giorni di fronte al quartier generale dell'esercito sudanese a Khartum erano state protette dai soldati contro le provocazioni delle milizie presidenziali, al punto che un soldato è stato ucciso dalla polizia mentre difendeva i manifestanti. A questo punto le alte gerarchie militari hanno destituito al-Bashir con un proprio colpo di Stato al fine di salvare l'unità dell'esercito e dunque il proprio comando.
Per questa stessa ragione, la caduta di Bashir è al tempo stesso l'effetto della rivoluzione sudanese e l'inizio della controrivoluzione. La massa popolare saluta festante, e giustamente, la caduta di al-Bashir come propria vittoria, ma la destituzione militare del Presidente incombe come una minaccia contro le aspirazioni di quella stessa massa. Il primo comunicato della nuova giunta militare proclama il coprifuoco, cancella Parlamento e Costituzione, annuncia due anni di governo militare. È questo che chiedevano le masse in rivolta? La conclusione tragica della rivoluzione egiziana, finita tra le braccia dei militari di al-Sisi, non promette nulla di buono.
Ancora una volta, la questione della direzione politica del movimento si presenta come nodo cruciale della rivoluzione.
LA PICCOLA BORGHESIA ALLA DIREZIONE DEL MOVIMENTO
La direzione del movimento di massa di questi mesi si è concentrata nelle mani della Associazione professionale sudanese (SPA), nata come sindacato alternativo del pubblico impiego (a fronte dei sindacati infeudati al regime) ma rapidamente trasformatasi in un raggruppamento civico guidato da professori universitari, medici, ingegneri, il cuore delle libere professioni della capitale. Un ambiente piccolo-borghese democratico-liberale da tempo ostile al regime. La SPA a sua volta si è collegata a tre grandi coalizioni politiche di opposizione, composte dal personale politico più eterogeneo, da ex ministri di al-Bashir caduti in disgrazia sino al Partito Comunista Sudanese, di estrazione stalinista, passando per borghesi liberal e islamici progressisti. La piccola borghesia democratica si trova insomma a capeggiare un grande fronte popolare che prende il nome di “Dichiarazione per la libertà e il cambiamento”: un fronte che nel suo stesso nome non va al di là del confine democratico-costituzionale. Il suo scopo è subordinare la ribellione di massa a un semplice cambio democratico. Ma c'è lo spazio politico e sociale di un semplice cambio democratico in Sudan? La domanda non è peregrina. Lo dimostra lo sviluppo degli avvenimenti in corso.
L'Associazione professionale sudanese nel nome della democrazia ha chiesto insistentemente alle gerarchie militari di destituire al-Bashir, lodando ed esaltando la loro responsabilità democratica e rivendicando un governo di transizione democratica composto da civili e militari. In altri termini la piccola borghesia democratica concepisce la rivoluzione in funzione delle proprie aspirazioni governative. Ma le gerarchie militari sudanesi, sino a ieri bastione del regime, possono essere salutate come garanti e guida della democrazia? È del tutto evidente che non può esserci democrazia e giustizia senza la rimozione (e punizione) dei responsabili di decenni di crimini contro i lavoratori, i giovani, le donne, e sicuramente il corpo degli alti ufficiali sudanesi è tra questi. Affidare il futuro della rivoluzione alle loro mani non è un tradimento delle stesse rivendicazioni democratiche?
Non solo. La rivoluzione sudanese ha posto sul tappeto questioni sociali gigantesche, ben al di là della soglia democratica. Il debito pubblico del Sudan verso le potenze imperialiste, vecchie e nuove, è ingente. Da un lato il FMI, dall'altro Russia e Cina, fedeli alleati di al-Bashir, pongono il Sudan sotto la tutela dei propri interessi di grandi creditori. La rivolta del pane è stata di fatto una rivolta contro le loro misure. Solo una rottura con l'imperialismo, a partire dalla cancellazione unilaterale del debito pubblico, può porre le basi per cancellare quelle vessazioni e riorganizzare il paese su basi nuove. Ciò che implica una soluzione anticapitalista. Ma le gerarchie militari sudanesi non romperanno mai con il Fondo Monetario Internazionale e il suo saccheggio, né lo farà la borghesia nazionale sudanese legata a doppio filo all'imperialismo. Solo il movimento dei lavoratori può perseguire questa soluzione. Solo un governo dei lavoratori, dei contadini poveri, delle masse diseredate del Sudan, può concretizzarla.
PER UNA DIREZIONE ALTERNATIVA DEL MOVIMENTO DI MASSA
Manca oggi in Sudan un partito che si batta per questa prospettiva, e dunque per una egemonia alternativa tra le masse.
Il Partito Comunista Sudanese, fedele alla tradizione stalinista, ha una lunga storia. Fu il partito comunista più grande del Grande Medio Oriente arabo-musulmano, assieme al Partito Comunista Iracheno. Come quest'ultimo, pagò sulla propria pelle, in termini di repressione sanguinosa, la politica di subordinazione alla borghesia nazionalista promossa da Mosca. Il suo codice politico non si è modificato nel tempo. Il PC sudanese si è collocato all'opposizione di al-Bashir, ma con un profilo moderato, in cambio del riconoscimento legale. Nei mesi della sollevazione popolare ha avuto una presenza indubbia all'interno del movimento, incorrendo anche nella repressione del regime, ma la sua prospettiva strategica è (testualmente) “una alternativa popolare democratica che apra la strada per il completamento dei compiti della rivoluzione democratica”. Una formulazione che non solo non travalica la democrazia borghese, ma che è ipergradualista sullo stesso terreno democratico, al punto da accreditare indirettamente persino il regime di al-Bashir di una funzione “democratica” da “completare”. La sostanza è che il PC sudanese subordina l'avanguardia della classe lavoratrice e della gioventù all'alleanza con la borghesia nazionale sudanese, che a sua volta si subordina ai militari. Il risultato è che un'enorme sollevazione di massa è esposta ai rischi di una crisi di direzione. Come in Algeria, così in Sudan.
L'intero corso delle rivoluzioni arabe del 2010-2011 pone in evidenza questa legge fisica. Le masse sono capaci di esplosioni grandiose in grado di rovesciare regimi apparentemente eterni. Ma senza un partito rivoluzionario che riesca a prenderne la guida, le rivoluzioni più grandi sono destinate alla sconfitta. La rifondazione della Quarta Internazionale è in ultima analisi la migliore risposta al grido di libertà di Alaa Salah.