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Occupare la Whirlpool! - Marco Ferrando (31/10/20)


Intervento del Partito Comunista dei Lavoratori all'assemblea operaia alla #Whirlpool di Napoli del 31 ottobre 2020. Il PCL ha sostenuto, sostiene e sosterrà ogni iniziativa di lotta che le lavoratrici e i lavoratori della Whirlpool metteranno in campo.



Per quanto ci riguarda, il tempo è ora. Occupare la fabbrica! Costruire una mobilitazione unitaria del movimento operaio! Per una vertenza generale del mondo del #lavoro! Per la #nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio della fabbrica! "Ma voi proponete l'#esproprio!?" La risposta è: SI. Se i padroni licenziano gli operai, gli operai hanno il diritto di rivendicare il licenziamento dei padroni! Leggi qui le nostre posizioni 👉 https://bit.ly/2Jo08d7

Partito Comunista dei Lavoratori

CONTRO IL FASCISMO, PER LA DIFESA DEI DIRITTI DELLA POPOLAZIONE RUSSOFONA DEL DONBASS UCRAINO

 


CONTRO GLI OLIGARCHI E L’IMPERIALISMO DI PUTIN

La Sezione di Bologna del Partito Comunista dei Lavoratori partecipa al presidio indetto per la giornata del 2 novembre in ricordo della sporca guerra che il governo golpista ucraino conduce nella regione del Donbass

La rivolta reazionaria, cosiddetta di Euromaidan, ha portato al potere un governo appoggiato da settori apertamente fascisti e nazisti. Per reprimere le popolazioni dell’est ucraino ha avuto bisogno delle milizie di estrema destra come Settore destro e Svoboda che con la loro ideologia nazionalista Grande Ucraina vogliono negare i diritti più elementari della popolazione russofona dell’est.

Il nostro sostegno va incondizionatamente alla lotta antifascista e per i diritti della popolazione russofona e denuncia con forza il sostegno diretto e indiretto dato dalla UE, nella sua veste di accordo tra i rapaci imperialismi europei, e dall’imperialismo USA, al governo che conduce questa sporca guerra.

Allo stesso tempo invitiamo con forza gli antifascisti e le organizzazioni del movimento operaio ucraine e internazionali a non concedere nessuna fiducia a Putin e alle mire imperialiste del suo governo.

La nostra posizione è pertanto quella di Lenin del 1917: contro il fascismo e i governi che se ne servono come quello Ucraino, contro gli interessi imperialistici delle potenze europee e Usa, ma completo disfattismo contro le mire imperialiste e nazionaliste di Putin (come allora lo Zar).

Solo lo sviluppo indipendente del movimento operaio può dare soluzione progressiva alla crisi ucraina. Con l'esproprio dell'oligarchia capitalista dell'ovest e dell'est e il controllo operaio sull'industria. Con l'esproprio delle banche e la loro concentrazione in una unica banca pubblica sotto controllo popolare. Con l'annullamento dell'enorme debito pubblico dell'Ucraina verso le banche imperialiste occidentali e russe. Con la realizzazione di un governo dei consigli dei lavoratori, dell'Est e dell'ovest, basato sull'armamento del popolo e dunque sul disarmo di tutte le forze reazionarie, a partire dalle milizie fasciste. Con l'edificazione di una Ucraina unita e socialista rispettosa dei diritti di tutte le minoranze nazionali, anche nella forma di uno stato federale, nella prospettiva storica degli Stati Uniti Socialisti d'Europa.

Solo questa soluzione può garantire l'indipendenza dell'Ucraina dalle pressioni imperialiste di diverso segno – occidentali e russe-che oggi si contendono la sua spartizione.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI

SEZIONE DI BOLOGNA

Dove va il Cile?

 


La Costituzione di Pinochet è stata abrogata

29 Ottobre 2020

Domenica 25 ottobre il referendum sull’abrogazione o meno della vecchia Costituzione di Augusto Pinochet ha riportato il 78,3% dei voti a favore del cambio, con un affluenza al voto del 51% (altissima nella tradizione cilena). È un risultato che esprime la forte domanda di svolta della grande maggioranza della società, a partire dalla classe operaia e dalla giovane generazione.

L’apertura del processo costituente è stato un sottoprodotto della grande sollevazione popolare che ha attraversato il Cile nell’autunno del 2019. “Il paese più stabile dell’America Latina”, come lo aveva definito il Presidente Piñera, fu attraversato in poche settimane da una crisi prerivoluzionaria. Innescata, come spesso accade, da un fatto apparentemente minore: il rincaro del biglietto dei mezzi pubblici. Quando il vaso è colmo basta una goccia a farlo traboccare. La sollevazione ha visto irrompere sullo scenario politico tutte le rivendicazioni sociali e politiche del proletariato cileno e delle masse oppresse del paese: aumento dei salari, calo dei prezzi dei servizi e dei generi di largo consumo, fine delle privatizzazioni nell’istruzione e nella sanità, diritto alle pensioni, rispetto dei diritti di genere, riconoscimento dei diritti delle popolazioni indigene (il 12,8% del paese). Le azioni repressive dei famigerati carabineros contro la protesta popolare (uccisioni, torture, stupri) hanno sollevato uno scandalo nell’opinione pubblica e hanno sospinto a più riprese il processo di radicalizzazione del movimento di massa, con ripetuti scioperi generali. La parola d’ordine “Via Piñera” ha unito sul terreno direttamente politico la domanda di rottura col passato.

Messo alle corde da una sollevazione che minacciava di travolgerlo, Piñera ha cercato di dirottare la pressione sociale su un canale istituzionale. Un itinerario apparentemente “democratico” che gli consentisse di guadagnare tempo e di salvaguardare il potere. L’operazione è riuscita grazie al cosiddetto “Accordo di pace” siglato dal grosso del Parlamento cileno, dai partiti di destra oggi al governo sino alle forze del centrosinistra, incluso il riformista “Frente Amplio”. Il PC stalinista – che esercita un controllo decisivo sulla Confederazione Unitaria dei Lavoratori – si è pudicamente “astenuto”. L’accordo di unità nazionale è stato celebrato naturalmente nel nome della democrazia. L’apertura del processo costituente è la concretizzazione dell’accordo. Per salvarsi da una rivoluzione reale è stata promessa una rivoluzione fittizia.

La convenzione che verrà eletta ad aprile al fine di redigere la nuova costituzione è già condizionata al piede di partenza da forti limiti sul terreno stesso della democrazia. Un terzo dell’assemblea avrà diritto di veto sulle decisioni, assicurando alla destra una possibile rendita di posizione. L’assemblea non potrà intervenire su materie economico-sociali, dove l’attuale Parlamento continuerà ad esercitare poteri sovrani. Anche i trattati internazionali, al pari degli apparati repressivi, saranno estranei alle sue competenze. I lavori della convenzione dureranno due anni. Nel frattempo sarà il Presidente Piñera che continuerà a governare, tenendo sotto controllo i poteri decisivi dello Stato.

Ma la domanda di svolta che si è espressa sul terreno referendario contro la Costituzione di Pinochet rappresenta, ciò nonostante, un problema per la borghesia cilena. Milioni di cileni hanno votato di fatto il 25 ottobre per cancellare il passato. La dinamica esplosiva, radicale e concentrata, di un anno fa è stata contenuta, ma le sue domande non sono rifluite e si sono espresse nel voto. Le masse hanno avanzato non solo una domanda di democrazia ma una richiesta di svolta nelle condizioni materiali della propria esistenza. Il tripudio nelle strade e nelle piazze, con l'interminabile festa popolare, con cui è stato salutato l’esito del voto, rivela l’aspirazione di massa a una nuova vita. Non sarà facile domarla. Piñera è riuscito a rimanere in sella grazie alla politica controrivoluzionaria del Frente Amplio e del PC. Ma il cavallo su cui è seduto non si presenta docile.

La costruzione a sinistra del PC del partito della rivoluzione cilena è il compito dell’avanguardia di classe della nuova generazione operaia e studentesca. Tutta la storia del Cile dell’ultimo mezzo secolo ripropone questo nodo strategico.

Partito Comunista dei Lavoratori

Rilanciare l'iniziativa di classe

 


29 Ottobre 2020

La crisi sanitaria mette a nudo l'incapacità e le armi spuntate del governo. A differenza che a marzo e aprile, questa volta emergono segni di reazione e mobilitazione. Ma la presenza ancora mancante è quella del movimento operaio e delle sue ragioni di classe

Lo scenario italiano è in movimento. L'ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) ha fatto da detonatore delle contraddizioni di questa fase. Far emergere un punto di vista classista e anticapitalista è più che mai il compito del momento. Contro ogni forma di negazionismo reazionario o di subordinazione alle ragioni di altre classi.

La seconda ondata della pandemia è in pieno corso e ben lontana da un prevedibile picco. Lo è in tutta Europa e in Italia. Non siamo a marzo ma ad ottobre, non c'è a tempi brevi la pista d'atterraggio dell'estate. Abbiamo davanti a noi un lungo e temibile inverno, senza la speranza a breve di un vaccino (disponibile concretamente nella migliore delle ipotesi non prima della prossima estate), con una curva epidemiologica in forte rialzo ovunque. Una pandemia che in Italia, a differenza che nella primavera scorsa, non risparmia le regioni del Sud, le più sguarnite sotto il profilo sanitario, le più depresse sotto il profilo sociale, a partire dalla Campania.


L'EMERGENZA SANITARIA SI AGGRAVA

Questo quadro drammatico fa la radiografia alla politica dei governi capitalisti e alla natura della società borghese. Innanzitutto in Italia.

La seconda ondata era prevedibile e prevista, ma il sistema sanitario è lo stesso del marzo scorso. C'è maggiore abbondanza di mascherine, grazie all'interessata conversione produttiva di diversi gruppi industriali opportunamente compensati (FCA). C'è un maggior numero di ventilatori polmonari e qualche letto di terapia intensiva in più. Ma tutto il resto è rimasto com'era. Ed è l'essenziale.
Mancano medici e infermieri ospedalieri, a partire da anestesisti e pneumologi. Mancano i tamponi e i medici di base che li somministrano, anche per l'assenza di strutture idonee in cui fare i test. Mancano i laboratori pubblici che li trattano (a vantaggio di quelli privati). Mancano i tracciatori – appena 9000 su scala nazionale – e dunque la possibilità di tenere sotto controllo i contatti dei positivi e la proliferazione del contagio. Mancano le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) per l'assistenza domiciliare dei quarantenati, e dunque l'intasamento ingestibile dei pronto soccorso. Mancano addirittura le autoambulanze, al punto che si è oggi costretti a bandire la gara. Mancano gli spazi e i letti per i ricoveri ordinari per altre patologie, anche gravi, col blocco obbligato in molte strutture persino dei reparti di chirurgia.
In una parola: la prima linea di contenimento della pandemia è crollata (tracciamento e diagnostica), la seconda linea (ospedaliera) è minacciata e in più punti travolta (Milano, Napoli, Genova).
Questo contesto drammatico rimanda in ultima analisi a una precisa responsabilità: i 37 miliardi di tagli alla sanità pubblica in dieci anni per foraggiare quella privata e pagare il debito pubblico alle banche. Tagli fatti e gestiti da tutti i governi e da tutti i partiti di governo, di ieri e di oggi, senza eccezione. Non uno può chiamarsi fuori, a destra come a “sinistra”. In questo quadro l'investimento irrisorio di 6 miliardi nella sanità nel 2020, contestuale a un aggiuntivo investimento doppio di 12 miliardi nella Difesa, non ha fatto che confermare il disastro, tanto più a fronte di una crescita esponenziale del contagio.


LA CRISI DEL TRASPORTO PUBBLICO

La precipitazione della crisi sanitaria si è combinata con l'incapacità strutturale del trasporto pubblico di garantire a pendolari e studenti le condizioni minime di sicurezza. È un punto chiave per comprendere la dinamica del contagio.

La riapertura delle scuole era stata presentata dal governo come fiore all'occhiello della ripresa dell'Italia “in sicurezza”, la bandiera della ritrovata normalità. È avvenuto l'opposto. Non solo per la mancata assunzione di molte migliaia di precari, l'aggiunta di nuovo precariato, la mancata riduzione del numero di alunni per classe, la carenza di nuovi spazi e strutture; ma perché lo spostamento di otto milioni di studenti richiedeva nelle condizioni sanitarie date una riorganizzazione radicale del sistema di trasporto pubblico (bus, tram, metropolitana, ferrovie regionali), con l'aumento massiccio dei mezzi e delle corse. Invece tutto, anche qui, è rimasto com'era. Una manciata di milioni alle Regioni, per lo più neppure spesi, per il resto ognuno si arrangi. Mentre è rimasto inutilizzato l'enorme parcheggio delle compagnie di trasporto private. Il risultato è stato la coincidenza della riapertura delle scuole con l'esplosione della seconda ondata. Non perché il contagio si prenda in classe (non più di quanto si prende altrove) ma perché si prende per arrivarci. Il numero di studenti positivi asintomatici è stato a sua volta il principale veicolo di diffusione del virus in famiglia, con effetto moltiplicatore e concentrato.


IL GOVERNO CONTE IN UNA CRISI DI NERVI

La moltiplicazione di un contagio fuori controllo ha prodotto nel governo una crisi di panico. I tre DPCM degli ultimi dieci giorni portano questo segno, ma nessuno di essi interviene sui fattori strutturali della crisi.

Nessun intervento reale sulla crisi sanitaria. La stabilizzazione di migliaia di infermieri con contratto a termine, già operanti in corsia, non ha cambiato di una virgola la condizione del servizio. Il bando di assunzione di 2000 nuovi tracciatori è un pannicello caldo nell'emergenza attuale. Né il richiamo di pensionati al lavoro può essere considerato diversamente. Per di più le Regioni rispondono al fallimento del controllo sulla diffusione del contagio con la proposta di abbandonare il tracciamento degli asintomatici, cioè con la resa sul punto decisivo del tracciamento.
Lo stesso vale per la questione del trasporto pubblico. Nessuna maggiorazione di mezzi e di corse. «Acquistare subito [!] centinaia di nuovi mezzi pubblici è impossibile» dichiara candidamente il Presidente del Consiglio in una lettera al Fatto Quotidiano (27 ottobre). Mentre centinaia di mezzi privati possono tranquillamente restare in rimessa perché evidentemente... la proprietà privata non si tocca.

Ma senza intervenire radicalmente sulla sanità e sul trasporto davvero si può fronteggiare l'emergenza?


LE CONSEGUENZE OBBLIGATE DI UNA POLITICA DI CLASSE

Prigioniero dei limiti della propria base di classe, il governo ha cercato la soluzione altrove. Richiude la scuola in presenza nelle superiori (perché un 75% di livello minimo a distanza, con il permesso alle regioni di estenderlo, significa generalizzare di fatto il 100% su cui si attestano oggi già sei Regioni); spinge lo smart working in tutta l'amministrazione pubblica (saltando peraltro ogni negoziato coi sindacati); chiude cinema e teatri; chiude bar e ristoranti dalle ore 18.

«Abbiamo ridotto tutte le occasioni di socialità che spingono le persone a uscire nelle ore serali e a spostarsi con i mezzi pubblici. Uscire la sera per andare al ristorante, cinema o teatro significa prendere mezzi pubblici o taxi [...] diminuendo le occasioni di socialità, abbassiamo anche il numero di contatti che ognuno di noi può avere rendendo così più facile fare i tracciamenti nel caso in cui una persona risulti positiva. Senza queste misure la curva è destinata a sfuggirci di mano»: così Giuseppe Conte spiega al Fatto Quotidiano la ratio dei provvedimenti assunti. E la ratio, a modo suo, c'è.
Ma è una ratio che spiega, più di quanto Conte vorrebbe, la natura del suo governo e della società borghese.

Invece di estendere il tracciamento con la massiccia assunzione di personale (che oltretutto dovendo telefonare e monitorare non richiede nel caso specifico una particolare formazione), il governo interviene solo sui tracciabili, dunque sulla “socialità”. Intendiamoci: diversamente da quanto affermano le idiozie negazioniste, una riduzione della socialità nelle condizioni di emergenza sanitaria è una misura necessaria, e può essere persino più drastica, sia localmente che a livello generale. Ma se la socialità deve reggere su di sé l'intero carico dell'emergenza perché non si interviene sui fattori strutturali, allora si producono precise conseguenze, tanto obbligate quanto spiacevoli.
La scuola a distanza può essere a certe condizioni ed entro certi limiti una soluzione di emergenza obbligata, non lo vogliamo negare. Ma estenderla al 100% della scuola superiore, primi anni inclusi, significa penalizzare una fascia consistente di studenti di famiglie povere, sopprimere la attività di laboratorio (che negli istituti tecnici è centrale), danneggiare gli studenti disabili, favorire la dispersione scolastica, in particolare nel Meridione. Mentre tagliare cinema, teatro, cultura significa tagliare uno spazio di relazione sociale particolarmente prezioso proprio nel clima della pandemia, oltre che gettare su una strada altre decine di migliaia di lavoratori precari.

Peraltro la socialità su cui si interviene suscita non pochi interrogativi. «Uscire la sera per andare al ristorante, cinema, teatro significa prendere mezzi pubblici», d'accordo. Ma uscire al mattino per andare in fabbrica non significa fare lo stesso, in misura anche più concentrata? La produzione evidentemente non si tocca a priori, al pari dei trasporti, o della santissima messa.
A marzo si evitò di recintare come zona rossa i comuni della bergamasca, pur di inchinarsi ai diktat di Confindustria, generando il più alto tasso di contagio e di morti sull'intero pianeta. Un crimine ancora impunito. Nelle settimane di lockdown si permise di fatto a migliaia di aziende di continuare a produrre anche in situazioni di massimo rischio attraverso gli accordi locali con le prefetture. Oggi si evita di realizzare, o si ritardano, possibili e veri lockdown mirati nelle città di massimo contagio (come Milano e Napoli) per non indispettire uno nuovo stato maggiore confindustriale già gravato dal brusco calo dei profitti e proteso a batter cassa su tutta la linea. La risultante obbligata è colpire scuola e cultura. Non è una risultante neutra. È un risvolto dell'incapacità del capitale di venire a capo dei problemi che crea senza ledere la maggioranza della società.


LA CRISI DI CONSENSO SOCIALE DEL GOVERNO

Questa gestione della seconda ondata incappa in una diffusa ostilità sociale. Anche da questo punto di vista la differenza con la primavera scorsa è profonda.
Nei mesi di marzo e aprile, di fronte a un'esperienza di massa traumatica e inedita in cui si era sprofondati all'improvviso, il senso comune popolare è stato di affidamento al governo. Non sono mancate le contraddizioni sociali, a partire dagli scioperi operai, ma l'elemento prevalente fu una relativa fiducia nell'autorità costituita e in particolare nella presidenza del Consiglio, vista come figura protettrice e paterna. Questo affidamento all'autorità ha avuto peraltro il proprio riflesso nello stesso esito delle elezioni regionali, col successo indifferenziato dei governatori.
Oggi molto è cambiato, e molto in fretta. La crisi sociale precipita. Le deboli avvisaglie di ripresa industriale sono state gelate dalla seconda ondata del contagio e dalle nuove obbligate restrizioni. Tutta la fanfara retorica del governo attorno al recovery fund e alla mano salvifica dell'Europa è rapidamente evaporata. Il disincanto sociale si tramuta in un sentimento di paura, disorientamento, sfiducia.
Lo si vede e si sente negli ospedali, dove medici e infermieri si vedono ripiombati in prima linea in un incubo già vissuto e con energie logorate dalla fatica. Lo si vede nella scuola, scossa da una sequenza impressionante di disposizioni contrastanti, e di ripetuti dietrofront, tra riaperture e nuove chiusure, in un clima di incertezza totale. Lo si vede nelle fabbriche, dove si vive col fiato sospeso la spada di Damocle dello sblocco dei licenziamenti sullo sfondo del mancato rinnovo dei contratti, a partire da quello dei metalmeccanici.

Ma la prima linea di faglia su cui il governo inciampa non viene dal lavoro dipendente. Viene dalla piccola borghesia e dalla sua reazione alla chiusura degli esercizi dopo le ore 18. È la mobilitazione delle associazioni di settore che ha fatto il proprio esordio a Napoli con le manifestazioni di venerdì 23 ottobre contro il governatore De Luca, in un intreccio confuso con settori sottoproletari della città, ma ha soprattutto trovato la propria proiezione nei giorni successivi con le manifestazioni contro il governo e il suo DPCM nelle piazze di diverse città. È in larga misura la base sociale tradizionale della destra, attorno alle proprie organizzazioni professionali e di categoria (Confcommercio, Federalberghi, RetImpresa...). La Lega, FdI, Forza Italia, le loro giunte regionali, i loro sindaci, si sono schierati con le manifestazioni o ne sono stati in qualche caso gli organizzatori. L'obiettivo delle organizzazioni di settore è ottenere o il ripristino delle proprie attività o uno spostamento delle fasce orarie della chiusura, o in ogni caso un ristoro consistente del fatturato perduto. Il governo, diviso al suo interno e in evidente difficoltà, prova a offrire alle classi medie un trattamento compensativo di riguardo: un ristoro sino a quattro volte superiore a quello concesso col decreto di marzo, e rivolto anche a imprese con un fatturato superiore a cinque milioni. Per ottenerlo sul proprio conto corrente non si deve fare domanda, è sufficiente il riferimento al codice Ateco. Certo un trattamento diverso da quello riservato ai salariati del settore, ai quali viene destinato un sussidio una tantum di mille euro, che nel caso di percettori del reddito di cittadinanza sarà condizionato a paletti stringenti, fiscali e patrimoniali. In altri termini, il sostegno alle imprese è incondizionato, quello ai lavoratori no. Due pesi e due misure divisi da un confine di classe.

Parallelamente si muove il terzo settore legato alle attività culturali e artistiche colpite dal decreto governativo, ARCI in testa, con il sostegno di un vasto ambiente intellettuale e progressista. Un settore che giustamente chiede che senso ha chiudere cinema e teatri mentre in diverse Regioni si lasciano aperte le sale bingo. Questa mobilitazione è più limitata di quella delle classi medie tradizionali, ma interviene direttamente sulle contraddizioni interne al blocco sociale di centrosinistra. Per questo il Presidente del Consiglio cerca anche qui di tamponare la falla rispondendo direttamente a Riccardo Muti dalle colonne del Corriere, anche qui offrendo ristori immediati agli imprenditori del settore, e un trattamento differenziato ai relativi salariati.


PER L'IRRUZIONE SULLA SCENA DELLA NOSTRA CLASSE

La presenza ancora mancante è quella del movimento operaio attorno alle proprie ragioni di classe indipendenti.
La massa dei salariati è enorme. Durante il lockdown della primavera scorsa, quando si doveva tutti restare a casa, 16,218 milioni di salariati hanno continuato a lavorare, reggendo sulle proprie spalle il peso intero dell'emergenza. Oggi sono al lavoro 20,626 milioni di persone, l'86% del totale degli attivi. Tutta l'attenzione è concentrata sulle chiusure di bar e ristoranti alle 18; pochi hanno presente che milioni di operai lavorano dalle 5 alle 18 o alle 24, a partire da un personale sanitario spesso impegnato in turni massacranti di dodici ore per sopperire alla mancanza degli organici, e che non hanno visto un euro dei famosi soldi promessi agli “eroi”. E soprattutto i milioni di lavoratori e lavoratrici dell'industria, sottoposti nelle condizioni peggiori ad una disciplina di fabbrica sempre più dispotica, con un contratto vacante e la minaccia pendente del licenziamento.

Questa è la classe che non è ancora entrata sulla scena. Pesa come un macigno il calmiere della burocrazia sindacale, così come il lascito di un lungo ciclo di arretramenti, delusioni, sconfitte. Ma le sconfitte non sono mai per sempre, anche quando appaiono insuperabili. Nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro si è accumulata negli anni una montagna di fascine. Umiliazioni subite in silenzio da milioni di uomini e di donne lasciano un deposito profondo in chi le vive. Le classi dominanti lo sanno, e ne parlano nei propri salotti. Lo spettro della vera ribellione sociale ai loro occhi non è quella dei cassonetti bruciati ai margini di qualche manifestazione, ma è quella dello sciopero di massa e l'ingovernabilità del conflitto. Per questo lo stesso Bonomi che vuole lo scalpo degli operai cerca nonostante tutto il coinvolgimento della burocrazia che li controlla. Per questo la burocrazia che li controlla offre ai padroni la funzione preziosa di calmiere.

Sino a quando reggerà questo precario equilibrio?
Questo è l'interrogativo centrale che sottende non solo la vicenda sindacale ma l'intero scenario politico. Senza l'irruzione sulla scena dell'azione di classe del proletariato saranno le classi medie a occupare il palcoscenico, dando una propria forma alla contestazione sociale del governo. Sino a trascinare con sé in qualche caso ambienti sottoproletari o domande sociali che sono oggi prive di un riferimento alternativo. Ma quando la classe operaia entrerà sulla scena, con le proprie forme di lotta, e in una dimensione di massa, allora e solo allora si aprirà uno scenario nuovo. Uno scenario nel quale sia la massa dei disoccupati sia i settori declassati della piccola borghesia potranno disporre di un nuovo polo di aggregazione e ricomposizione, e di una nuova parola d'ordine: i necessari lockdown li paghino i padroni, non i lavoratori, i disoccupati, le partite Iva, i piccoli esercizi.

Lavorare a questa prospettiva è il compito di tutte le avanguardie di classe, politiche e sindacali, ovunque collocate. L'importante assemblea nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici combattivi/e che si è tenuta a Bologna il 27 settembre, le iniziative di piazza promosse il 24 ottobre, possono e debbono porsi in questa prospettiva generale: quella di un fronte unico di classe e di massa attorno a una piattaforma di lotta indipendente.
La voce dell'avanguardia di classe e di un programma anticapitalista deve cercare già nelle prossime settimane un proprio spazio di visibilità e di rilancio su tutto il territorio nazionale, magari a partire dalla lotta degli operai della Whirlpool e dall'assemblea aperta da loro convocata il 31 ottobre. Il PCL naturalmente ci sarà, come sempre.

Partito Comunista dei Lavoratori

Si estende la ribellione delle donne in Polonia

 


Mobilitazioni anticlericali e per la libertà di aborto in tutto il paese

28 Ottobre 2020

Una vasta mobilitazione di donne sta scuotendo la Polonia. Il tribunale costituzionale polacco, controllato dal partito reazionario Diritto e Giustizia (PiS), ha recentemente sentenziato che l'aborto è incostituzionale anche in caso di malformazione grave e irreversibile del feto. Nei fatti è la cancellazione del diritto all'interruzione volontaria della gravidanza in Polonia. Questo fatto ha prodotto una reazione di massa delle donne in tutte le principali città polacche, ma anche nelle cittadine e persino in alcune zone rurali. La parola d'ordine rilanciata sui social è “Avete voluto la guerra!”.

Le forme di lotta del movimento sono a modo loro radicali e creative. Blocchi prolungati del traffico cittadino, cortei rumorosi di automobili, assedio delle sedi istituzionali, ma anche un'azione di “sciopero generale” con manifestazione nazionale a Varsavia. Gli slogan hanno un profilo anticlericale ed antigovernativo: “Io penso, io decido”, “Libertà, uguaglianza, diritto di aborto”, “PiS e la Chiesa hanno del sangue sulle loro mani”.
«La nostra violenza è la risposta a ciò che ci riserva l'avvenire» dichiara Karolina Wozniak, una studentessa di 24 anni, uno dei volti pubblici del movimento.

I muri delle città polacche sono segnati da una campagna di graffiti che rilancia le rivendicazioni delle donne. Domenica 25 ottobre in tutto il paese si sono tenute manifestazioni davanti alle chiese, con irruzione e interruzione delle messe, e scritte con lo spray in rosso. «Una profanazione mai vista prima nel bastione cattolico d'Europa» scrive Le Monde.
Il ministro della giustizia ha annunciato che «punirà con severità queste azioni sacrileghe», ma contro ogni previsione il partito di governo incontra sinora difficoltà a organizzare una contromobilitazione. Ci ha provato a Varsavia e Katowice con proprie militanti nazionaliste, ma il risultato è stato assai deludente: poche decine di attiviste, che oltretutto hanno avuto la peggio negli scontri con le femministe. A Katowice è dovuta intervenire la polizia con manganellate e gas lacrimogeni per proteggere la sparuta manifestazione filogovernativa. Mentre a Nowy Dwór Gdanski, un comune rurale di 10000 abitanti del nord del paese, i contadini hanno fatto sfilare i propri trattori a sostegno del movimento delle donne.

Jaroslaw Kaczynski, grande capo del PiS e uomo forte del paese, si trova di fronte a un movimento imprevisto: «Una guerra culturale di tali proporzioni che potrebbe sfuggire al suo controllo» (Le Monde). Vedremo gli sviluppi. Ma è l'ulteriore riprova, se ve ne era bisogno, che l'instabilità è la cifra dello scenario internazionale. Persino là dove ancora domina la reazione.

Partito Comunista dei Lavoratori

I fatti di Napoli

 


La crisi congiunta della borghesia e del movimento operaio

26 Ottobre 2020

I fatti di Napoli di venerdì 23 ottobre sono al centro di un vasto commentario politico.
Non ci interessano in questa sede le grida scandalizzate dei tutori padronali dell’ordine pubblico: sono gli stessi partiti di governo di ieri e di oggi che hanno tagliato 37 miliardi alla sanità pubblica mentre ingrassavano i profitti delle banche e dell’industria militare. Il loro “ordine” criminale è il primo responsabile dell’emergenza attuale. Men che meno ci interessano le posture teatrali del governatore De Luca che ha spolpato la sanità campana anche per finanziare le proprie clientele elettorali, combinando il sottobosco democristiano con il bonapartismo populista, sempre sondaggi alla mano.

Ci interessa invece il confronto apertosi sulla vicenda all’interno della sinistra, anche di quella classista e antagonista. Due sono le letture specularmente opposte dei fatti di Napoli che si alimentano reciprocamente sui social.
La prima vede i fatti di Napoli come una rivolta “guidata dai fascisti” e dominata da posizioni negazioniste. Una lettura variamente appoggiata dagli ambienti borghesi liberali per motivare il riflesso d’ordine e l’appello al pugno di ferro. E anche alimentata per interesse proprio dagli stessi ambienti dell’estrema destra, che provano a intestarsi la ribellione sui media non potendosela intestare sulla piazza. Il tentativo di Forza Nuova di mimare il giorno dopo a Roma la rivolta di Napoli, attraverso un po’ di fuochi artificiali e qualche sparuta decina di fascisti, ha misurato il patetico fallimento dell’operazione.
La seconda è quella che rappresenta i cortei di venerdì notte come una rivolta sociale progressista, espressione del proletariato napoletano o di suoi settori colpiti dalla crisi e minacciati dal lockdown. Una lettura sostenuta o corteggiata da alcuni circuiti di estrema sinistra che tendono a vedere in ogni dinamica di piazza in quanto tale un antagonismo salutare e progressivo. È il caso ad esempio dei CARC, che passano con disinvoltura dalla partecipazione alle peggiori manifestazioni nazionaliste, reazionarie, negazioniste ("Liberiamo l'Italia", Roma 10 ottobre) all'esaltazione dei fatti di Napoli come «resistenza spontanea delle masse popolari».
Ciò che accomuna le due opposte letture è l’assenza di un’analisi di classe, rimpiazzata da schemi ideologici che confondono la realtà con l’immaginario.


UNA PIAZZA COMPOSITA

Va intanto premesso che la piazza di Napoli ha avuto dimensioni obiettivamente contenute, nell’ordine di uno o due migliaia di partecipanti, secondo le stime più ottimistiche fornite dagli stessi promotori. Chi confonde queste dimensioni con quelle di una sollevazione popolare non sa cosa cos’è quest’ultima, forse perché non gli interessa. È in effetti più facile salutare ovunque una rivoluzione immaginaria che lavorare per una rivoluzione reale.

Lo spaccato sociale delle manifestazioni di venerdì rivela al tempo stesso un quadro composito.
Un ruolo centrale l’ha avuto la piccola borghesia della città, a sua volta impasto di ingredienti diversi. Ne fanno parte innanzitutto i piccoli padroni evasori del fisco che tengono in nero i lavoratori che sfruttano, nei retrobottega, nelle cucine, ai banchi dei bar, nei servizi di pulizia, negli studi professionali. Le loro associazioni cittadine (commercio, alberghiero, ristorazione) sono state in prima fila nella convocazione della piazza, e ora fanno leva sulla minaccia dell’ordine pubblico per battere cassa presso lo Stato e la giunta regionale. Il loro obiettivo è la salvaguardia di un privilegio sociale oggi minacciato dalla crisi.
Al loro fianco sono scesi in piazza lavoratori autonomi realmente proletarizzati, piccole partite IVA che non sfruttano lavoro salariato, che hanno già chiuso o che stanno per chiudere, che cercano la tutela sociale da un declassamento già di fatto operante. Sono i percettori annunciati prima dei 600 euro, poi dei 1000, spesso oltretutto arrivati – quando sono arrivati – a rovina già consumata.

Alla piccola borghesia si è aggiunto un settore di lavoro dipendente direttamente coinvolto dalla crisi degli esercizi presso cui lavora, per lo più in nero o con contratti usa e getta. Salariati minacciati dalla disoccupazione, che spesso non potrebbero accedere per via dei mille paletti neppure alla miseria del reddito di cittadinanza o di emergenza, e che dunque vedono nella salvezza dei propri padroni la difesa di qualche forma di reddito.

In entrambi i cortei si è fatto vivo un pezzo del mondo calcistico delle curve, che soffre oggi la privazione dello stadio e riproduce nello scontro con la polizia il proprio codice paramilitare.

Un settore di sottoproletariato, prevalentemente disoccupato, componente stabile del tessuto sociale napoletano, che ha visto oggi ulteriormente immiserita la propria condizione e allargate le proprie dimensioni.

Infine era certamente presente un settore criminale di basso profilo, colpito in primis dal coprifuoco notturno, che rende più complicate alcune attività criminali (spaccio), e poi dalle maggiori difficoltà di raccogliere il pizzo da attività colpite dal lockdown parziale. Anche se altri settori della malavita si sono ingrassati col lockdown grazie alla pratica dell’usura e dell’acquisto a prezzi stracciati.

Questo magma sociale contraddittorio si è espresso in due cortei diversamente convocati: uno organizzato da giorni dalle corporazioni cittadine delle classi medie, un altro improvvisato venerdì stesso da ambienti antagonisti e partito dal piazzale antistante l'Università Orientale. L’annuncio perentorio di De Luca di un immediato lockdown regionale – senza alcuna copertura economica per nessuno degli interessi colpiti – ha irrobustito entrambi i cortei, popolandoli di altre centinaia di persone, che hanno espresso per questa via la propria protesta.
La composizione dei cortei, entrambi diretti verso i palazzi della Regione, ha così travalicato la diversità delle piattaforme iniziali. Durante la prima ondata della pandemia, che solo marginalmente ha toccato la Campania, De Luca aveva potuto finanziare il proprio blocco clientelare con sussidi varia natura, ottenendo anche per questa via la rielezione. Ora che la seconda ondata travolge Napoli, il Presidente eletto entra in rotta di collisione con gli interessi che aveva foraggiato. Le manifestazioni di venerdì sono anche la crisi di una parte del suo blocco sociale di riferimento.


LA CRISI CONGIUNTA DELLA BORGHESIA E DEL MOVIMENTO OPERAIO

Più in generale, i fatti di Napoli sono il riflesso – in ultima analisi e al di là delle loro modeste dimensioni – della crisi congiunta della borghesia e del movimento operaio. La profondità della crisi capitalista erode l’egemonia borghese su ampi settori di classe media, mentre la crisi del movimento operaio porta tra le braccia della classe media settori di salariati e disoccupati. La risultante d’insieme è un blocco sociale spurio e instabile.
Nell’ultimo decennio abbiamo visto diverse espressioni di questo fenomeno. Ne è stata un'espressione il fenomeno dei "forconi" nel 2010-2011, con un marcato profilo reazionario. Ne è stata un'espressione in Francia il fenomeno dei gilet gialli, con un profilo molto più indefinito e poliedrico. A Napoli non è nato un movimento, si è trattato ad oggi di una manifestazione. Ma nella manifestazione si sono espressi a livello embrionale gli ingredienti potenziali della stessa miscela.
Questa miscela non è stata diretta o ispirata dai fascisti e/o dalla camorra, come vorrebbero quegli ambienti liberali che invocano il pugno di ferro della polizia, ma certo non è diretta né può esserlo, per la sua stessa natura, dalla classe lavoratrice e dalle sue ragioni sociali.

Il tema strategico per la sinistra di classe non è allora l’impossibile egemonia su questo blocco, ma la sua rottura e scomposizione lungo una linea di classe. Una linea che punti a sottrarre salariati, precari, disoccupati all’egemonia piccolo-borghese per ricomporli attorno a una piattaforma di classe unificante e a una mobilitazione generale.

Le misure di emergenza sanitaria le paghino i padroni, non i proletari e nemmeno la piccola borghesia!

- 100% di copertura salariale per tutti i cassaintegrati.
- Blocco generale dei licenziamenti, contro ogni minaccia di sblocco
- Nazionalizzazione delle aziende che licenziano, senza indennizzo e sotto controllo operaio, a partire oggi da Whirlpool.
- Regolarizzazione dei precari: a pari lavoro, pari diritti. Nella sanità, nella scuola, nelle fabbriche, nel terziario, nei campi. Ovunque.
- Abolizione delle leggi di precarizzazione del lavoro, e la giungla delle cooperative e degli appalti.
- Salario dignitoso ai disoccupati.
- Copertura delle perdite di esercizi commerciali ed artigiani, sulla base del reddito (dichiarato) del 2019.
- Un grande piano di nuovo lavoro nel trasporto pubblico, nella bonifica da amianto, nel risanamento del territorio, nella messa in sicurezza delle abitazioni.
- Riduzione generale dell’orario di lavoro a parità di paga, 30 ore pagate 40. Il lavoro che c’è sia ripartito fra tutti.
- Raddoppio dell’investimento nella sanità pubblica e requisizione di quella privata, con l’assunzione a tempo indeterminato di 100000 medici e infermieri e la riapertura dei duecento ospedali soppressi.
- Patrimoniale straordinaria di almeno il 10% sul 10% più ricco e abbattimento delle spese militari. Paghi chi non ha mai pagato.


Sono rivendicazioni che non si limitano a difendere l’immediato interesse della nostra classe, ma puntano alla ricomposizione attorno ad essa di un più vasto blocco sociale anticapitalista.
Solo un'irruzione sul campo della nostra classe, attorno a un proprio programma unificante, può consentirle di polarizzare l’enorme malcontento sociale che monta anche tra le fila dei settori declassati della piccola borghesia, incorporandoli alle ragioni del proletariato e a una prospettiva di governo dei lavoratori.
Il rischio altrimenti è muoversi a rimorchio di altre classi, fosse pure nel nome dell’antagonismo o, addirittura, della rivoluzione.

Partito Comunista dei Lavoratori

L’unico vaccino è l’anticapitalismo

 
La vera velleità non è arrivare ad azzerare la somma dei contagiati e degli ammalati, ma è pensare di poter tenere insieme la salute delle persone e l’economia capitalista


Preservare la salute e l’economia tenendo insieme le due questioni, così ha dichiarato il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte nel corso della conferenza stampa di ieri, 25 ottobre.

«Gli ultimi dati epidemiologici che abbiamo analizzato non ci possono lasciare indifferenti. L’analisi segnala una rapida crescita con la conseguenza che lo stress sul sistema sanitario nazionale ha raggiunto livelli preoccupanti […] Dobbiamo fare il possibile per proteggere salute ed economia».

C’è chi accusa i comunisti di avere parole d’ordine antiche, vecchie, che non entusiasmano più nessuno o, ancora meglio, di possedere idee talmente irrealizzabili da essere utopiche. Così, almeno, è quel che dichiarano i detrattori, siano essi socialdemocratici, riformisti o ancor peggio liberali o radicali. Quel che ha dichiarato il Presidente Conte, nella conferenza stampa in cui ha presentato l’ultimo Dpcm, è infinitamente più utopico delle idee bollate come “antiche e irrealizzabili” che vengono attribuite, spesso ben condite da luoghi comuni e pregiudizi, ai comunisti. Nella fase attuale, nel concreto della situazione, entrando nella carne viva della pandemia in atto nel nostro paese e nel mondo, affermare di voler tenere insieme la salute delle persone, delle lavoratrici e dei lavoratori, con l’economia, è enormemente più fantascientifico di chi bolla i comunisti come superati dalla storia.

Il primo lockdown ci ha insegnato come i settori più colpiti fossero quelli su cui la scure del capitale si è abbattuta più duramente nel corso degli ultimi trent'anni. Non staremo qui a ripetere quanto il coronavirus abbia portato in superficie ogni contraddizione del sistema capitalistico, già ampiamente trattato dal nostro partito con articoli, analisi, volantini e iniziative a riguardo.
Già il 5 aprile di quest’anno, tuttavia, denunciavamo come si stesse aprendo una profonda contraddizione tra la «pressione confindustriale a ripartire subito e a qualunque costo, e la richiesta di continuità del confinamento per un tempo non breve da parte delle autorità sanitarie». Il governo, posto nella proverbiale condizione infelice tra il martello e l’incudine, tentennò un po’ salvo poi riaprire nel giro di breve tempo. Riaperture, in quella fase, in cui continuavano a mancare su tutto il territorio nazionale strumenti di protezione elementare per la popolazione, per gli operatori sanitari, per i lavoratori e le lavoratrici.
Una condizione evidentemente esplosiva, che ha portato con sé in dote l’aumento esponenziale di nuovi contagi. Ma il mantra era “l’economia non può permetterselo”, al punto che anche settori popolari hanno iniziato ad introiettare questo ritornello.

Stando sempre alle parole di ieri di Conte, pare sia “velleitario” arrivare alla somma di zero contagi, positivi e guariti. Il punto è che non c’è niente di velleitario nel rivendicare condizioni igienico-sanitarie adeguate alla vita quotidiana ed al lavoro delle persone.
Velleitarie sono le posizioni di Confindustria.
Quel che si sta andando a delineare nel prossimo mese è un lockdown non dichiarato, per cui le persone sono semplici unità di produzione che possono recarsi presso il proprio posto di lavoro, tornare a casa, fare la spesa. Produci-consuma-crepa.
Il mantra è sempre lo stesso. L’emergenza per i padroni è un conto, per i lavoratori è ben altra cosa, lo dimostrano i dati dell’incremento esponenziale delle ricchezze dei multimiliardari che gestiscono celeberrime aziende transnazionali.

La guerra – come giornalisti e professori universitari l’hanno chiamata nel corso dei primi mesi della pandemia – contro il coronavirus è una certezza, così come lo è quella contro il capitalismo, solo che quest’ultimo rappresenta una patologia infinitamente più grave: è lo stesso sistema sociale che ha demolito ovunque i servizi sanitari per favorire il sostentamento alle banche e ai capitalisti, e riverserà nuovamente la propria crisi sulla maggioranza della società a partire dai lavoratori.
Anche per questo la guerra contro il coronavirus è inseparabile da quella contro il capitalismo: o la Borsa o la vita.
Anche perché, davvero, non abbiamo nulla da perdere all’infuori delle nostre catene: abbiamo un mondo da conquistare.

Marco Piccinelli

Whirlpool, tutti i nodi sono giunti al pettine

 


L'unica soluzione è la nazionalizzazione

25 Ottobre 2020

I nodi sono giunti al pettine nella vicenda Whirlpool.
Sullo sfondo della drammatica pandemia in pieno corso, i vertici dell'azienda americana hanno confermato la chiusura dello stabilimento campano. Quasi 400 operai licenziati, più 500 lavoratori dell'indotto. Una soluzione inaccettabile, tanto più a Napoli.

La conferma della chiusura non è una sorpresa. Gli azionisti Whirlpool hanno pianto miseria per un anno intero nonostante i bilanci dell'azienda siano tutti in attivo. Lo scopo era incassare centinaia di milioni di ulteriori regalie pubbliche da parte sia del governo che della regione. Cui si aggiungono, come per tutti i capitalisti, il taglio dell'IRAP a danno della sanità pubblica e le garanzie pubbliche sui crediti bancari. Tutti soldi pagati con la fiscalità generale, quindi dalle tasche dei lavoratori. Ora gli azionisti Whirlpool, incassato il malloppo, hanno dato agli operai il ben servito.

Questo epilogo prevedibile chiama in causa le responsabilità di tutti gli attori pubblici di questa vicenda. Per un anno tutti i partiti di governo, in compagnia degli amministratori regionali, hanno raccontato agli operai che sarebbe stata trovata una soluzione, o che addirittura il problema era già risolto. Si doveva solamente attendere, nutrire fiducia, e soprattutto votarli. In questo ha primeggiato su tutti Luigi Di Maio, che ha costruito su Whirlpool un pezzo delle proprie campagne elettorali in Campania, sino a recitare la parte in commedia delle parole "dure" contro la proprietà, ad uso delle telecamere.

Ora la commedia è finita, perché purtroppo parlano i fatti. E i fatti, a essere onesti, chiamano in causa anche la politica dei vertici sindacali. A cosa è servito alimentare illusioni su un possibile accordo con l'azienda, quando era chiaro che la decisione di chiudere era presa da tempo? A cosa è servito appoggiare le regalie finanziarie del governo agli azionisti Whirlpool in cambio di promesse finte? A nulla.

Ora è necessaria una svolta. Non c'è più nulla da negoziare con la Whirlpool. L'azienda va occupata e presidiata a oltranza dagli operai per impedirle di portar via i macchinari. Dalla fabbrica non deve uscire un bullone. La proprietà Whirlpool va nazionalizzata, senza un euro di indennizzo agli azionisti, e sotto il controllo degli operai. La produzione deve continuare in tutti gli stabilimenti, a salvaguardia dei posti di lavoro e degli stipendi. Questa è l'unica possibile soluzione della vicenda che non sia penalizzante per gli operai. Altre soluzioni, rispettose della produzione e del lavoro, non ne esistono. E infatti oggi nessuno sa indicarle.

Chiediamo a tutte le organizzazioni di fabbrica che fanno riferimento alle ragioni del lavoro di unire la propria azione a sostegno della nazionalizzazione della Whirlpool. Gli operai e le operaie hanno dato prova di una combattività e generosità straordinaria in tutta questa vicenda. Meritano una prova di unità, ma anche di determinazione. L'unica possibilità concreta di salvare il posto di lavoro passa per una svolta radicale dell'azione di lotta. Va costituita una cassa nazionale di resistenza a sostegno di una lotta prolungata e dell'occupazione della fabbrica.

Il governo ha fatto capire che l'unica cosa che teme è la turbativa dell'ordine sociale a Napoli. È la prova che solo un'azione di massa radicale degli operai può scuotere la controparte e strappare risultati. Le direzioni sindacali hanno annunciato formalmente lo «scontro sociale»? Chiediamo che prendano sul serio le proprie parole. Ma soprattutto che le prendano sul serio gli operai attraverso la propria azione.

Partito Comunista dei Lavoratori

La rivolta di massa in Nigeria

 


Una grande rivolta di massa è in corso in Nigeria, la principale potenza economica africana. L'innesco dell'esplosione sociale è il video che documenta l'assassinio di un uomo a sangue freddo da parte delle forze di polizia. Un “caso George Floyd”, per capirci. Con la differenza che avviene in un paese che non è esattamente sotto i riflettori dell'opinione pubblica dei paesi imperialisti.


Il crimine poliziesco è la goccia che ha fatto traboccare il vaso dell'indignazione popolare. Da tempo la gioventù nigeriana è vessata dalla violenza ordinaria delle cosiddette SARS (squadre speciali antirapina), una milizia armata in uniforme che opera al servizio del governo Buhari, un regime corrotto dalle tangenti delle grandi aziende che investono in Nigeria (ENI in testa). Le SARS gestiscono l'ordine pubblico col metodo dello squadrismo: incarcerazioni arbitrarie, torture, sequestri, estorsioni. Un apparato criminale che si regge sull'intimidazione e sul terrore, con la copertura dell'esercito regolare e della legge.

Non a caso la rivolta ha assunto come parola d'ordine «End SARS», sciogliere le SARS. Una parola d'ordine direttamente politica indirizzata contro il Presidente Buhari. Il governo ha sperato in un primo tempo che la ribellione si esaurisse, come altre volte è accaduto, ma la mobilitazione è continuata. Sorpreso dalle dimensioni e dalla durata della rivolta, Buhari ha pensato di tacitarla con un escamotage truffaldino: ha annunciato lo scioglimento delle SARS come chiedeva la piazza (11 ottobre), ma ricostruendola due giorni dopo sotto un altro nome. L'operazione ha radicalizzato ancor di più la dinamica di massa. A questo punto, dopo essersi appellato invano ai rivoltosi perché dismettessero la protesta, il governo ha usato la forza. Prima ha imposto il coprifuoco nella capitale; poi di fronte alla continuità della mobilitazione, per nulla intimidita dal coprifuoco, è ricorso alla repressione armata. Martedì la polizia ha aperto il fuoco contro i manifestanti, facendo almeno diciotto morti.

La rivolta nigeriana occupa le strade e le piazze da due settimane. Ha il volto della gioventù in un paese in cui l'età media della popolazione è diciotto anni. Le forme della ribellione sono state diverse combinando manifestazioni pacifiche di massa, barricate di strada, assalti alle caserme della polizia. Col passare dei giorni anche la composizione sociale della massa si è allargata: ai giovani disoccupati e precari si sono uniti vasti strati popolari e di lavoro dipendente. Con ciò le parole d'ordine politiche hanno iniziato a combinarsi con rivendicazioni sociali a partire dalla richiesta di lavoro e di aumenti salariali. Le opposizioni borghesi liberali hanno chiesto ai manifestanti di tornare a casa e al governo di rispondere alle richieste della popolazione. Addirittura il segretario generale dell'ONU (!) ha sentito il bisogno di invitare «i manifestanti a protestare pacificamente e ad astenersi da qualsiasi atto di violenzaper evitare che nel paese la situazione possa degenerare in maniera irreversibile». Una notevole preoccupazione per chi copre e avalla in tutto il mondo le peggiori violenze imperialiste e i peggiori regimi reazionari.

Seguiremo nei prossimi giorni lo sviluppo dello scenario. Di certo la ribellione di massa in Nigeria, come la grande protesta proletaria in corso in Indonesia, conferma una volta di più l'instabilità della situazione politica mondiale, anche ai tempi del Covid, anche nel cuore dell'Africa.

Partito Comunista dei Lavoratori

Medicina di guerra e società borghese

 


L'evocazione della “medicina di guerra” è tornata nel corso della prima ondata del Covid, quando la penuria delle terapie intensive a fronte della pressione dei malati gravi costrinse il personale sanitario in non poche occasioni a scegliere chi salvare e chi no. Non è accaduto solo in Italia. In Francia fu redatto un preciso codice di comportamento da parte delle associazioni professionali dei medici, con l'esplosione di una polemica pubblica. A Madrid una scrupolosa inchiesta giornalistica documentò una mole impressionante di “casi” sgradevoli nascosti sotto il tappeto dei dati ufficiali.


Con la seconda ondata della malattia che si è levata in Europa, la medicina di guerra ritorna. Per il momento non tanto sul versante delle terapie intensive, quanto su quello del respingimento di altre patologie.
La situazione italiana è emblematica. Al momento la pressione dei malati gravi, bisognosi di terapia intensiva, è ancora sotto controllo, in particolare nel Nord, anche se la progressione esponenziale del virus allunga un'ombra inquietante sul futuro.
Invece sale a ritmo vertiginoso il numero di possibili positivi da “tamponare”, costretti a file umilianti davanti ai drive in, e talvolta contagiati proprio durante l'attesa. Ma cresce fortemente anche il numero di malati Covid accertati che sono segnati da sintomi importanti, seppur ancora non gravi. Dovrebbe occuparsi di loro innanzitutto la medicina territoriale, ma è stata annientata da decenni di austerità. I medici di base arrancano. Le unità di assistenza domiciliare sono una goccia nel mare, a partire dalle metropoli. Dunque il malato si rivolge al pronto soccorso, quale unico luogo di assistenza. Ma proprio per questo i pronto soccorso straboccano, e i pazienti attendono per ore nelle autoambulanze in coda davanti agli ospedali (vedi Genova). Quando alla fine giunge il soccorso, arriva spesso anche la brutta notizia: mancano i posti letto per ricoveri Covid non gravi, che non possono mischiarsi ad altri malati. Perché mancano i reparti e gli spazi appositi. C'è allora una sola soluzione. Ridurre posti e reparti destinati alle patologie ordinarie, per adibirli ai malati Covid. Cioè respingere di fatto altri malati. È una selezione che si compie sotto la pressione dell'emergenza anche in ospedali prestigiosi, come il Niguarda a Milano, che ieri ha chiuso le chirurgie. A maggior ragione si diffonde in strutture minori e periferiche.
Nulla è dunque più pericoloso in tempo di Covid che prendersi una polmonite ordinaria, o una peritonite, o un infarto. Anche questa è medicina di guerra.

La medicina di guerra in tempo di pace è il fallimento della società borghese.
Che ha smantellato il servizio sanitario per pagare il debito alle banche.
Che ha chiuso duecento ospedali pubblici per ingrassare le cliniche private.
Che destina trenta miliardi l'anno agli armamenti ma è incapace di assumere medici e infermieri.
Che è organizzata per sfruttare il lavoro e non per proteggere la vita.

Partito Comunista dei Lavoratori

Portare nelle lotte la prospettiva di rivoluzione!

 


Contro il fronte unico dei padroni un fronte unico di classe e di massa

22 Ottobre 2020

Testo del volantino (allegato in fondo alla pagina) per le iniziative della giornata di mobilitazione nazionale del 24 ottobre

Dare continuità all’Assemblea delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi! Estendere ed unificare le lotte attorno ad una piattaforma generale! Portare nelle lotte la prospettiva di rivoluzione!

La pandemia si sovrappone a un’offensiva frontale del padronato e a una nuova grande crisi del capitalismo mondiale. Confindustria fa muro sul rinnovo dei contratti, annuncia un milione di licenziamenti, reclama i pieni poteri nelle aziende. Il governo regala ai padroni lo sblocco dei licenziamenti, stoppa il rinnovo dei contratti pubblici, mantiene tutto il peggio dei decreti Salvini contro picchetti, blocchi stradali, occupazioni.

Le burocrazie sindacali, Landini in testa, non solo non organizzano la difesa del lavoro ma appoggiano il governo. Il loro scopo è mostrare al padronato la propria funzione sociale di controllo e disinnesco delle lotte, per timore di essere scaricate. È la funzione di “agenzia della borghesia nel movimento operaio”, come diceva Lenin. Una definizione oggi della burocrazia sindacale ancor più calzante di allora.

Costruire una direzione alternativa del movimento operaio che lo liberi dalla burocrazia è compito di tutte le avanguardie, ovunque collocate sindacalmente. Non si tratta di dare consigli critici agli apparati, né di limitarsi a conservare un piccolo spazio di sindacato alternativo. Si tratta di strappare agli apparati la direzione delle lotte, conquistare la maggioranza dei lavoratori, sviluppare l’egemonia di un progetto alternativo tra le masse.

Tutto questo è molto difficile, dopo un lungo ciclo di arretramenti, sconfitte, delusioni. Ma tanto più oggi è possibile perseguire l’obiettivo solo lavorando controcorrente alla più ampia unità di classe contro padroni e governo. Solo contrapponendo al fronte unico dei padroni il fronte unico dei lavoratori e delle lavoratrici.

Non mancano lotte di resistenza e conflitti. Li abbiamo visti nello scorso marzo, nelle fabbriche, nella logistica, nella scuola, tra i braccianti. Ma sono lotte in ordine sparso, che non si parlano, che stanno recintate nel proprio perimetro aziendale o di settore. Unire queste lotte attorno ad una piattaforma generale è una necessità inaggirabile. A fronte di una offensiva generale del padronato, occorre una mobilitazione generale del lavoro capace di ribaltare i rapporti di forza complessivi.


PROSEGUIRE E ALLARGARE IL PERCORSO UNITARIO

L’Assemblea nazionale delle lavoratrici e dei lavoratori combattivi che si è tenuta il 27 settembre a Bologna è un primo passo in questa direzione. Le forze ad oggi raccolte sono ancora molto limitate. Ma il segnale di controtendenza è prezioso. Per la prima volta dopo tanto tempo organizzazioni e tendenze sindacali di diversa collocazione e provenienza (Si Cobas, SGB, settori della Opposizione CGIL, Slai Cobas per il sindacato di classe) hanno scelto di mettere insieme le proprie forze in una iniziativa nazionale comune. Non attraverso un cartello di sigle, ma attivando un percorso unitario fondato sui delegati, sulle delegate, sui lavoratori e lavoratrici combattivi/e, al di là di ogni divisione di sigla e appartenenza. Un percorso segnato da comuni rivendicazioni classiste e dalla prospettiva di costruzione di una vera azione di sciopero generale.

Questo percorso va ora proseguito e allargato. Non si tratta di recintare il perimetro dell’Assemblea di settembre, ma di lavorare ad estenderlo ad ogni livello. I militanti sindacali del Partito Comunista dei Lavoratori sono ovunque impegnati in questa direzione.
È la battaglia che conduciamo nell’Opposizione CGIL assieme ad altri lavoratori e lavoratrici della componente contro una linea di pura autoconservazione del proprio spazio. È la linea che conduciamo nei sindacati di base con riferimento classista contro ogni logica autocentrata e settaria. A tutti chiediamo di investire le proprie forze nel percorso unitario avviato, ponendo termine alla frammentazione dell’avanguardia.

Questa azione di coinvolgimento di forze nuove va soprattutto indirizzata verso i lavoratori, a partire dalla loro avanguardia più larga. Quella che nel marzo scorso ha trainato una breve ma intensa stagione di scioperi contro i padroni. Quella che nelle ultime settimane ha ridato segni di presenza negli scioperi metalmeccanici contro la serrata contrattuale di Federmeccanica.

Non confondiamo i burocrati con gli operai. Le burocrazie di Fiom, Fim, Uilm hanno indetto uno sciopero il 5 novembre per salvare la faccia di fronte agli operai e incanalare la loro lotta su un binario morto. Il loro obiettivo è ottenere la detassazione dell’aumento contrattuale per caricare il contratto sulla fiscalità generale (cioè sul portafoglio dei lavoratori) a vantaggio dei profitti. Ma gli operai che hanno scioperato e che possono scioperare il 5 novembre lo fanno per i propri interessi, con tutte le confusioni e contraddizioni del caso. Dobbiamo interloquire con questi operai, che sono la maggioranza sindacalizzata dell’industria, per sottrarli all’influenza dei burocrati e conquistarli alla nostra piattaforma generale. Lo possiamo fare solo dentro la lotta comune, non separandoci da questa, non levando il disturbo a tutto vantaggio dei burocrati. Dobbiamo portare la nostra piattaforma nella lotta comune, per radicalizzarla ed estenderla, non tenerci fuori dalla lotta nel nome della nostra piattaforma.


PER UNA PROSPETTIVA DI RIVOLUZIONE

La politica del fronte unico non può limitarsi al piano sindacale. Tutte le rivendicazioni della piattaforma definita il 27 settembre e rilanciata dalle manifestazioni di oggi richiamano una prospettiva politica. La drastica riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga, la forte patrimoniale sulle grandi ricchezze, la cancellazione dei decreti Salvini, la contestazione dell’indebitamento pubblico col capitale finanziario da scaricare sul portafoglio dei lavoratori, sulla sanità, sulla scuola, pongono la prospettiva di un’alternativa operaia alla crisi del capitale. O loro o noi. O il potere dei capitalisti o il potere degli operai. Nessuna conquista parziale su quel terreno è possibile senza che la borghesia tema davvero la minaccia dell’ordine pubblico e della sovversione. I padroni mollano qualcosa solo quando han paura di perdere tutto. Solo la minaccia di una rivoluzione può strappare riforme. Solo una rivoluzione, solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici basato sulla loro forza e sulla loro autorganizzazione, può realizzare una svolta vera.

Politica del fronte unico e programma di rivoluzione sono i due capisaldi della politica del PCL. Siamo per la più larga unità d’azione dell’avanguardia, che ricomponga in un unico fronte il Patto d’azione e il Coordinamento delle sinistre di opposizione nato il 7 dicembre. Perché non ha senso nel nome del fronte unico mantenere percorsi separati, tanto più a fronte delle stesse rivendicazioni generali. Ma portiamo nel fronte più largo dell’opposizione classista l’esigenza di una prospettiva di rivoluzione, in Italia e nel mondo. L’unica che può fondare su solide basi l’internazionalismo proletario, contro ogni forma di europeismo liberale o sovranismo reazionario.

L’unica che indica le basi possibili del partito comunista rivoluzionario.

Partito Comunista dei Lavoratori

Difesa della salute o salute della difesa?

 


La Difesa fa il pieno mentre la Sanità è allo sfascio

L'Italia intera affronta la seconda ondata della pandemia. Il governo, la stampa borghese, l'intero sistema mediatico si sbracciano nell'evocare il primato dell'emergenza sanitaria. Ipocriti! La legge di bilancio 2021 destina alle spese militari, non alla sanità o alla scuola, la maggioranza relativa dei fondi nazionali per gli investimenti. Non è una fake news, è il dato fornito, nero su bianco, dalla fonte più insospettabile: il quotidiano di Confindustria, Il Sole 24 Ore (20 ottobre, pagina 2)

Vediamo meglio. I fondi nazionali per gli investimenti ammontano a 50 miliardi. Sono spalmati su quindici anni e divisi in 40 capitoli. Alla sanità si destinano due miliardi, due miliardi e ottocento milioni all'università, un miliardo e cinquecentoquaranta milioni all'istruzione. Alla difesa vanno invece 12 miliardi e 770 milioni. «A sorpresa sarà il Ministero della Difesa a incassare nella legge di bilancio 2021 la somma più alta dei fondi» recita testualmente il quotidiano dei capitalisti, con tanto di tabelle allegate.

L'articolista sente il bisogno di spiegare questa enormità con l'argomento che il Ministero della Difesa non potrà accedere ai fondi del Recovery plan, disponibili invece per altri ministeri. Ma l'argomento è farlocco. In primo luogo perché i fondi europei andranno in varie forme a tutti i ministeri, Difesa inclusa: il settore aerospaziale, strettamente connesso all'industria militare, è uno dei fiori all'occhiello dei programmi di modernizzazione e concentrazione capitalistica della UE, in aperta competizione sul mercato mondiale con USA e Gran Bretagna. In secondo luogo alla Difesa tricolore vanno ogni anno, ordinariamente, dai 25 ai 30 miliardi del bilancio statale. I 12 miliardi e 770 milioni previsti oggi dai fondi per gli investimenti sono dunque elargizioni extra. Elargizioni che si aggiungono al tradizionale bottino. Elargizioni di cui beneficia, direttamente e indirettamente, l'intero complesso industrial-militare, la fitte rete di interessi che passa per i grandi azionisti del gruppo Leonardo, le banche, le gerarchie militari e tutto il loro sottobosco. È il retroterra dell'imperialismo italiano.

Nel nuovo scenario internazionale in cui l'imperialismo USA fa rotta sulla Cina (che vinca Trump o Biden poco cambia), il Mediterraneo resta relativamente scoperto. Grecia e Turchia si contendono il Mediterraneo orientale, a suon di minacce militari. L'egemonia turca si estende in Libia, con sventolio di ambizioni ottomane. L'Egitto si arma contro la Turchia, col contributo recente di tre fregate italiane. La Francia si candida a presidio politico e militare antiturco, in competizione con l'Italia.
E L'Italia? L'imperialismo italiano si arma come fanno tutti, nel nuovo grande gioco del nuovo secolo. L'ENI è la più grande azienda al mondo in terra d'Africa. I suoi azionisti rivendicano apertamente il “mare nostrum”, mentre il Corriere della Sera – proprietà Banca Intesa – invoca una nuova politica estera italiana, finalmente capace di interdizione militare.

Anche a casa nostra l'industria di guerra si arricchisce con soldi sottratti agli ospedali e alle scuole. Salvini e Meloni si mettono in divisa, sull'attenti. Sinistra Italiana vota le spese militari, come Rifondazione negli anni di Prodi. La CGIL è muta. La vera unità nazionale non è a difesa della salute, ma per la salute della Difesa. Solo la classe lavoratrice può rovesciare il tavolo e rovinare il banchetto. Ma ha bisogno di una coscienza e di un'organizzazione.

Partito Comunista dei Lavoratori

Il coordinamento delle sinistre di opposizione aderisce alla mobilitazione del 24 ottobre

 


Il coordinamento nazionale delle sinistre di opposizione, nato a Roma il 7 dicembre, sostiene la giornata nazionale promossa dall'Assemblea dei lavoratori e lavoratrici combattivi/e tenutasi a Bologna il 27 settembre. Ne condivide le rivendicazioni, a partire dalla riduzione dell'orario di lavoro a parità di paga e dalla patrimoniale sulle grandi ricchezze. Ne condivide l'impianto unitario, cioè la ricerca della più ampia unità d'azione tra tutte le organizzazioni della sinistra di classe, politica e sindacale, fuori da ogni logica autocentrata e settaria. È la stessa impostazione su cui si è mosso il nostro coordinamento nell'ultimo anno.


La nuova grande crisi capitalistica, la seconda ondata della pandemia, l'offensiva frontale di Confindustria contro le condizioni del lavoro, a partire dal rifiuto di rinnovare i contratti, promuovono un nuovo livello di scontro tra capitale e lavoro, sul piano nazionale e internazionale. Ciò a fronte di una subalternità organica delle burocrazie sindacali al governo Conte e al padronato. Tutto ciò rende tanto più indispensabile unire l'azione di tutte le organizzazioni dell'avanguardia di classe attorno a una politica di fronte unico, di classe e di massa, in contrapposizione all'europeismo liberale borghese come al nazionalismo sciovinista e sovranista, di chiara marca reazionaria.

Ci pare che il patto d'azione per un fronte unico anticapitalista, cui alcune organizzazioni del nostro coordinamento partecipano organicamente, si muova nella giusta direzione dell'unità di classe attorno alle ragioni indipendenti del lavoro. Per questo aderiamo alla giornata nazionale del 24 ottobre e alle iniziative territoriali promosse, convinti che la politica del fronte unico, politico e sindacale, comporti innanzitutto la ricerca della massima unità d'azione tra le organizzazioni che la condividono e la praticano.

Coordinamento delle sinistre di opposizione