La crisi sanitaria mette a nudo l'incapacità e le armi spuntate del governo. A differenza che a marzo e aprile, questa volta emergono segni di reazione e mobilitazione. Ma la presenza ancora mancante è quella del movimento operaio e delle sue ragioni di classe
Lo scenario italiano è in movimento. L'ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri (DPCM) ha fatto da detonatore delle contraddizioni di questa fase. Far emergere un punto di vista classista e anticapitalista è più che mai il compito del momento. Contro ogni forma di negazionismo reazionario o di subordinazione alle ragioni di altre classi.
La seconda ondata della pandemia è in pieno corso e ben lontana da un prevedibile picco. Lo è in tutta Europa e in Italia. Non siamo a marzo ma ad ottobre, non c'è a tempi brevi la pista d'atterraggio dell'estate. Abbiamo davanti a noi un lungo e temibile inverno, senza la speranza a breve di un vaccino (disponibile concretamente nella migliore delle ipotesi non prima della prossima estate), con una curva epidemiologica in forte rialzo ovunque. Una pandemia che in Italia, a differenza che nella primavera scorsa, non risparmia le regioni del Sud, le più sguarnite sotto il profilo sanitario, le più depresse sotto il profilo sociale, a partire dalla Campania.
L'EMERGENZA SANITARIA SI AGGRAVA
Questo quadro drammatico fa la radiografia alla politica dei governi capitalisti e alla natura della società borghese. Innanzitutto in Italia.
La seconda ondata era prevedibile e prevista, ma il sistema sanitario è lo stesso del marzo scorso. C'è maggiore abbondanza di mascherine, grazie all'interessata conversione produttiva di diversi gruppi industriali opportunamente compensati (FCA). C'è un maggior numero di ventilatori polmonari e qualche letto di terapia intensiva in più. Ma tutto il resto è rimasto com'era. Ed è l'essenziale.
Mancano medici e infermieri ospedalieri, a partire da anestesisti e pneumologi. Mancano i tamponi e i medici di base che li somministrano, anche per l'assenza di strutture idonee in cui fare i test. Mancano i laboratori pubblici che li trattano (a vantaggio di quelli privati). Mancano i tracciatori – appena 9000 su scala nazionale – e dunque la possibilità di tenere sotto controllo i contatti dei positivi e la proliferazione del contagio. Mancano le USCA (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) per l'assistenza domiciliare dei quarantenati, e dunque l'intasamento ingestibile dei pronto soccorso. Mancano addirittura le autoambulanze, al punto che si è oggi costretti a bandire la gara. Mancano gli spazi e i letti per i ricoveri ordinari per altre patologie, anche gravi, col blocco obbligato in molte strutture persino dei reparti di chirurgia.
In una parola: la prima linea di contenimento della pandemia è crollata (tracciamento e diagnostica), la seconda linea (ospedaliera) è minacciata e in più punti travolta (Milano, Napoli, Genova).
Questo contesto drammatico rimanda in ultima analisi a una precisa responsabilità: i 37 miliardi di tagli alla sanità pubblica in dieci anni per foraggiare quella privata e pagare il debito pubblico alle banche. Tagli fatti e gestiti da tutti i governi e da tutti i partiti di governo, di ieri e di oggi, senza eccezione. Non uno può chiamarsi fuori, a destra come a “sinistra”. In questo quadro l'investimento irrisorio di 6 miliardi nella sanità nel 2020, contestuale a un aggiuntivo investimento doppio di 12 miliardi nella Difesa, non ha fatto che confermare il disastro, tanto più a fronte di una crescita esponenziale del contagio.
LA CRISI DEL TRASPORTO PUBBLICO
La precipitazione della crisi sanitaria si è combinata con l'incapacità strutturale del trasporto pubblico di garantire a pendolari e studenti le condizioni minime di sicurezza. È un punto chiave per comprendere la dinamica del contagio.
La riapertura delle scuole era stata presentata dal governo come fiore all'occhiello della ripresa dell'Italia “in sicurezza”, la bandiera della ritrovata normalità. È avvenuto l'opposto. Non solo per la mancata assunzione di molte migliaia di precari, l'aggiunta di nuovo precariato, la mancata riduzione del numero di alunni per classe, la carenza di nuovi spazi e strutture; ma perché lo spostamento di otto milioni di studenti richiedeva nelle condizioni sanitarie date una riorganizzazione radicale del sistema di trasporto pubblico (bus, tram, metropolitana, ferrovie regionali), con l'aumento massiccio dei mezzi e delle corse. Invece tutto, anche qui, è rimasto com'era. Una manciata di milioni alle Regioni, per lo più neppure spesi, per il resto ognuno si arrangi. Mentre è rimasto inutilizzato l'enorme parcheggio delle compagnie di trasporto private. Il risultato è stato la coincidenza della riapertura delle scuole con l'esplosione della seconda ondata. Non perché il contagio si prenda in classe (non più di quanto si prende altrove) ma perché si prende per arrivarci. Il numero di studenti positivi asintomatici è stato a sua volta il principale veicolo di diffusione del virus in famiglia, con effetto moltiplicatore e concentrato.
IL GOVERNO CONTE IN UNA CRISI DI NERVI
La moltiplicazione di un contagio fuori controllo ha prodotto nel governo una crisi di panico. I tre DPCM degli ultimi dieci giorni portano questo segno, ma nessuno di essi interviene sui fattori strutturali della crisi.
Nessun intervento reale sulla crisi sanitaria. La stabilizzazione di migliaia di infermieri con contratto a termine, già operanti in corsia, non ha cambiato di una virgola la condizione del servizio. Il bando di assunzione di 2000 nuovi tracciatori è un pannicello caldo nell'emergenza attuale. Né il richiamo di pensionati al lavoro può essere considerato diversamente. Per di più le Regioni rispondono al fallimento del controllo sulla diffusione del contagio con la proposta di abbandonare il tracciamento degli asintomatici, cioè con la resa sul punto decisivo del tracciamento.
Lo stesso vale per la questione del trasporto pubblico. Nessuna maggiorazione di mezzi e di corse. «Acquistare subito [!] centinaia di nuovi mezzi pubblici è impossibile» dichiara candidamente il Presidente del Consiglio in una lettera al Fatto Quotidiano (27 ottobre). Mentre centinaia di mezzi privati possono tranquillamente restare in rimessa perché evidentemente... la proprietà privata non si tocca.
Ma senza intervenire radicalmente sulla sanità e sul trasporto davvero si può fronteggiare l'emergenza?
LE CONSEGUENZE OBBLIGATE DI UNA POLITICA DI CLASSE
Prigioniero dei limiti della propria base di classe, il governo ha cercato la soluzione altrove. Richiude la scuola in presenza nelle superiori (perché un 75% di livello minimo a distanza, con il permesso alle regioni di estenderlo, significa generalizzare di fatto il 100% su cui si attestano oggi già sei Regioni); spinge lo smart working in tutta l'amministrazione pubblica (saltando peraltro ogni negoziato coi sindacati); chiude cinema e teatri; chiude bar e ristoranti dalle ore 18.
«Abbiamo ridotto tutte le occasioni di socialità che spingono le persone a uscire nelle ore serali e a spostarsi con i mezzi pubblici. Uscire la sera per andare al ristorante, cinema o teatro significa prendere mezzi pubblici o taxi [...] diminuendo le occasioni di socialità, abbassiamo anche il numero di contatti che ognuno di noi può avere rendendo così più facile fare i tracciamenti nel caso in cui una persona risulti positiva. Senza queste misure la curva è destinata a sfuggirci di mano»: così Giuseppe Conte spiega al Fatto Quotidiano la ratio dei provvedimenti assunti. E la ratio, a modo suo, c'è.
Ma è una ratio che spiega, più di quanto Conte vorrebbe, la natura del suo governo e della società borghese.
Invece di estendere il tracciamento con la massiccia assunzione di personale (che oltretutto dovendo telefonare e monitorare non richiede nel caso specifico una particolare formazione), il governo interviene solo sui tracciabili, dunque sulla “socialità”. Intendiamoci: diversamente da quanto affermano le idiozie negazioniste, una riduzione della socialità nelle condizioni di emergenza sanitaria è una misura necessaria, e può essere persino più drastica, sia localmente che a livello generale. Ma se la socialità deve reggere su di sé l'intero carico dell'emergenza perché non si interviene sui fattori strutturali, allora si producono precise conseguenze, tanto obbligate quanto spiacevoli.
La scuola a distanza può essere a certe condizioni ed entro certi limiti una soluzione di emergenza obbligata, non lo vogliamo negare. Ma estenderla al 100% della scuola superiore, primi anni inclusi, significa penalizzare una fascia consistente di studenti di famiglie povere, sopprimere la attività di laboratorio (che negli istituti tecnici è centrale), danneggiare gli studenti disabili, favorire la dispersione scolastica, in particolare nel Meridione. Mentre tagliare cinema, teatro, cultura significa tagliare uno spazio di relazione sociale particolarmente prezioso proprio nel clima della pandemia, oltre che gettare su una strada altre decine di migliaia di lavoratori precari.
Peraltro la socialità su cui si interviene suscita non pochi interrogativi. «Uscire la sera per andare al ristorante, cinema, teatro significa prendere mezzi pubblici», d'accordo. Ma uscire al mattino per andare in fabbrica non significa fare lo stesso, in misura anche più concentrata? La produzione evidentemente non si tocca a priori, al pari dei trasporti, o della santissima messa.
A marzo si evitò di recintare come zona rossa i comuni della bergamasca, pur di inchinarsi ai diktat di Confindustria, generando il più alto tasso di contagio e di morti sull'intero pianeta. Un crimine ancora impunito. Nelle settimane di lockdown si permise di fatto a migliaia di aziende di continuare a produrre anche in situazioni di massimo rischio attraverso gli accordi locali con le prefetture. Oggi si evita di realizzare, o si ritardano, possibili e veri lockdown mirati nelle città di massimo contagio (come Milano e Napoli) per non indispettire uno nuovo stato maggiore confindustriale già gravato dal brusco calo dei profitti e proteso a batter cassa su tutta la linea. La risultante obbligata è colpire scuola e cultura. Non è una risultante neutra. È un risvolto dell'incapacità del capitale di venire a capo dei problemi che crea senza ledere la maggioranza della società.
LA CRISI DI CONSENSO SOCIALE DEL GOVERNO
Questa gestione della seconda ondata incappa in una diffusa ostilità sociale. Anche da questo punto di vista la differenza con la primavera scorsa è profonda.
Nei mesi di marzo e aprile, di fronte a un'esperienza di massa traumatica e inedita in cui si era sprofondati all'improvviso, il senso comune popolare è stato di affidamento al governo. Non sono mancate le contraddizioni sociali, a partire dagli scioperi operai, ma l'elemento prevalente fu una relativa fiducia nell'autorità costituita e in particolare nella presidenza del Consiglio, vista come figura protettrice e paterna. Questo affidamento all'autorità ha avuto peraltro il proprio riflesso nello stesso esito delle elezioni regionali, col successo indifferenziato dei governatori.
Oggi molto è cambiato, e molto in fretta. La crisi sociale precipita. Le deboli avvisaglie di ripresa industriale sono state gelate dalla seconda ondata del contagio e dalle nuove obbligate restrizioni. Tutta la fanfara retorica del governo attorno al recovery fund e alla mano salvifica dell'Europa è rapidamente evaporata. Il disincanto sociale si tramuta in un sentimento di paura, disorientamento, sfiducia.
Lo si vede e si sente negli ospedali, dove medici e infermieri si vedono ripiombati in prima linea in un incubo già vissuto e con energie logorate dalla fatica. Lo si vede nella scuola, scossa da una sequenza impressionante di disposizioni contrastanti, e di ripetuti dietrofront, tra riaperture e nuove chiusure, in un clima di incertezza totale. Lo si vede nelle fabbriche, dove si vive col fiato sospeso la spada di Damocle dello sblocco dei licenziamenti sullo sfondo del mancato rinnovo dei contratti, a partire da quello dei metalmeccanici.
Ma la prima linea di faglia su cui il governo inciampa non viene dal lavoro dipendente. Viene dalla piccola borghesia e dalla sua reazione alla chiusura degli esercizi dopo le ore 18. È la mobilitazione delle associazioni di settore che ha fatto il proprio esordio a Napoli con le manifestazioni di venerdì 23 ottobre contro il governatore De Luca, in un intreccio confuso con settori sottoproletari della città, ma ha soprattutto trovato la propria proiezione nei giorni successivi con le manifestazioni contro il governo e il suo DPCM nelle piazze di diverse città. È in larga misura la base sociale tradizionale della destra, attorno alle proprie organizzazioni professionali e di categoria (Confcommercio, Federalberghi, RetImpresa...). La Lega, FdI, Forza Italia, le loro giunte regionali, i loro sindaci, si sono schierati con le manifestazioni o ne sono stati in qualche caso gli organizzatori. L'obiettivo delle organizzazioni di settore è ottenere o il ripristino delle proprie attività o uno spostamento delle fasce orarie della chiusura, o in ogni caso un ristoro consistente del fatturato perduto. Il governo, diviso al suo interno e in evidente difficoltà, prova a offrire alle classi medie un trattamento compensativo di riguardo: un ristoro sino a quattro volte superiore a quello concesso col decreto di marzo, e rivolto anche a imprese con un fatturato superiore a cinque milioni. Per ottenerlo sul proprio conto corrente non si deve fare domanda, è sufficiente il riferimento al codice Ateco. Certo un trattamento diverso da quello riservato ai salariati del settore, ai quali viene destinato un sussidio una tantum di mille euro, che nel caso di percettori del reddito di cittadinanza sarà condizionato a paletti stringenti, fiscali e patrimoniali. In altri termini, il sostegno alle imprese è incondizionato, quello ai lavoratori no. Due pesi e due misure divisi da un confine di classe.
Parallelamente si muove il terzo settore legato alle attività culturali e artistiche colpite dal decreto governativo, ARCI in testa, con il sostegno di un vasto ambiente intellettuale e progressista. Un settore che giustamente chiede che senso ha chiudere cinema e teatri mentre in diverse Regioni si lasciano aperte le sale bingo. Questa mobilitazione è più limitata di quella delle classi medie tradizionali, ma interviene direttamente sulle contraddizioni interne al blocco sociale di centrosinistra. Per questo il Presidente del Consiglio cerca anche qui di tamponare la falla rispondendo direttamente a Riccardo Muti dalle colonne del Corriere, anche qui offrendo ristori immediati agli imprenditori del settore, e un trattamento differenziato ai relativi salariati.
PER L'IRRUZIONE SULLA SCENA DELLA NOSTRA CLASSE
La presenza ancora mancante è quella del movimento operaio attorno alle proprie ragioni di classe indipendenti.
La massa dei salariati è enorme. Durante il lockdown della primavera scorsa, quando si doveva tutti restare a casa, 16,218 milioni di salariati hanno continuato a lavorare, reggendo sulle proprie spalle il peso intero dell'emergenza. Oggi sono al lavoro 20,626 milioni di persone, l'86% del totale degli attivi. Tutta l'attenzione è concentrata sulle chiusure di bar e ristoranti alle 18; pochi hanno presente che milioni di operai lavorano dalle 5 alle 18 o alle 24, a partire da un personale sanitario spesso impegnato in turni massacranti di dodici ore per sopperire alla mancanza degli organici, e che non hanno visto un euro dei famosi soldi promessi agli “eroi”. E soprattutto i milioni di lavoratori e lavoratrici dell'industria, sottoposti nelle condizioni peggiori ad una disciplina di fabbrica sempre più dispotica, con un contratto vacante e la minaccia pendente del licenziamento.
Questa è la classe che non è ancora entrata sulla scena. Pesa come un macigno il calmiere della burocrazia sindacale, così come il lascito di un lungo ciclo di arretramenti, delusioni, sconfitte. Ma le sconfitte non sono mai per sempre, anche quando appaiono insuperabili. Nelle fabbriche e nei luoghi di lavoro si è accumulata negli anni una montagna di fascine. Umiliazioni subite in silenzio da milioni di uomini e di donne lasciano un deposito profondo in chi le vive. Le classi dominanti lo sanno, e ne parlano nei propri salotti. Lo spettro della vera ribellione sociale ai loro occhi non è quella dei cassonetti bruciati ai margini di qualche manifestazione, ma è quella dello sciopero di massa e l'ingovernabilità del conflitto. Per questo lo stesso Bonomi che vuole lo scalpo degli operai cerca nonostante tutto il coinvolgimento della burocrazia che li controlla. Per questo la burocrazia che li controlla offre ai padroni la funzione preziosa di calmiere.
Sino a quando reggerà questo precario equilibrio?
Questo è l'interrogativo centrale che sottende non solo la vicenda sindacale ma l'intero scenario politico. Senza l'irruzione sulla scena dell'azione di classe del proletariato saranno le classi medie a occupare il palcoscenico, dando una propria forma alla contestazione sociale del governo. Sino a trascinare con sé in qualche caso ambienti sottoproletari o domande sociali che sono oggi prive di un riferimento alternativo. Ma quando la classe operaia entrerà sulla scena, con le proprie forme di lotta, e in una dimensione di massa, allora e solo allora si aprirà uno scenario nuovo. Uno scenario nel quale sia la massa dei disoccupati sia i settori declassati della piccola borghesia potranno disporre di un nuovo polo di aggregazione e ricomposizione, e di una nuova parola d'ordine: i necessari lockdown li paghino i padroni, non i lavoratori, i disoccupati, le partite Iva, i piccoli esercizi.
Lavorare a questa prospettiva è il compito di tutte le avanguardie di classe, politiche e sindacali, ovunque collocate. L'importante assemblea nazionale dei lavoratori e delle lavoratrici combattivi/e che si è tenuta a Bologna il 27 settembre, le iniziative di piazza promosse il 24 ottobre, possono e debbono porsi in questa prospettiva generale: quella di un fronte unico di classe e di massa attorno a una piattaforma di lotta indipendente.
La voce dell'avanguardia di classe e di un programma anticapitalista deve cercare già nelle prossime settimane un proprio spazio di visibilità e di rilancio su tutto il territorio nazionale, magari a partire dalla lotta degli operai della Whirlpool e dall'assemblea aperta da loro convocata il 31 ottobre. Il PCL naturalmente ci sarà, come sempre.