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1980, la sconfitta operaia apre la strada alla restaurazione padronale

 


Quaranta anni fa, i 35 giorni alla FIAT e la marcia dei quarantamila


In una lettera inviata ad Engels, Marx scriveva che «venti anni contano un giorno nei grandi sviluppi storici, ma vi possono essere giorni che concentrano in sé venti anni». I 35 giorni che trascorrono dal 10 di settembre al 15 di ottobre del 1980 sono giorni che valgono anni; un lasso di tempo breve, fuggevole ma fondamentale, che rappresenta, anche simbolicamente, una cesura tra il prima e il dopo. In quei giorni si consuma infatti una delle più importanti e dolorose sconfitte del movimento operaio italiano. Alla FIAT Auto, il più grande gruppo industriale del paese, va in scena la rivincita padronale e cala il sipario su quella stagione conflittuale scaturita dalle lotte dell’autunno caldo. Il protagonismo operaio, che per oltre un decennio aveva sfidato il potere dell’impresa mettendone in discussione l’arbitrio, è battuto, vinto, sconfitto. La comunità operaia che ha animato quel ciclo di lotte è dispersa, mentre l’intero sistema di valori che era maturato durante quel periodo – la solidarietà, l’egualitarismo, la democrazia diretta – è condannato all’oblio.


PRIMA DEL DILUVIO

A Torino, dopo gli anni Cinquanta, in cui tutti gli ingredienti del ricatto e della discriminazione vengono messi in atto con successo contro i quadri sindacali comunisti e gli operai più combattivi, all’inizio degli anni Sessanta ripartono le lotte dei lavoratori della FIAT. Emblematico è l’episodio di Piazza Statuto, quando un corteo di operai si reca nei pressi della sede della UIL, il sindacato che nel luglio ’62 aveva raggiunto un accordo con separato con l’azienda. Sotto la spinta dei giovani operai, la manifestazione si trasforma in una battaglia di strada che durerà per tre giorni. Inutilmente i dirigenti della CGIL e del PCI cercheranno di convincere i dimostranti a desistere dallo scontrarsi con la polizia.

La rivolta di Piazza Statuto segna il risveglio della classe operaia della FIAT, e prelude all’apertura di quel ciclo di lotte che caratterizzerà l’autunno caldo. In quegli anni la massiccia immigrazione dal Sud ha immesso negli stabilimenti della FIAT una nuova generazione operaia. Giovane, poco qualificata, costretta a vivere in alloggi fatiscenti, sottoposta al lavoro pesante e ripetitivo della catena di montaggio, è proprio questa nuova figura sociale che si forma nelle officine di Mirafiori ad alimentare le lotte radicali dell’autunno caldo. Reclamano maggiore libertà, quegli operai che giunti dal meridione si incrociano con la tradizionale cultura operaia delle maestranze piemontesi. Rifiutano una condizione che, con la crescita della grande fabbrica fordista, è diventata insopportabile: nei ritmi, nel controllo dispotico dei capi, nei salari non adeguati al costo della vita. Richiedono migliori condizioni, quegli operai: riduzione della fatica, dei fumi, della nocività.

Si apre così una stagione che vede il protagonismo operaio conquistare diritti e miglioramenti salariali. Sotto la pressione di questa nuova classe operaia, anche le tradizionali istituzioni del movimento operaio si devono adeguare. Nasce così la FLM (la Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici) e i consigli di fabbrica sostituiscono le vecchie e imbalsamate commissioni interne; si forma così quello che verrà chiamato il “sindacato dei consigli”. Il movimento rivendicativo che sorge nei reparti della grande fabbrica, grazie alla temperie di quegli anni, esce dalla fabbrica e incontra la lotta degli studenti. In quel contesto, i sottomessi, i senza potere riacquistano cittadinanza, parlano alla società, esprimono egemonia. A futura memoria, quella stagione starà a testimoniare che per i lavoratori, le conquiste e i miglioramenti, anche solo minori, si possono strappare alla controparte solo come sottoprodotto di lotte radicali che esprimano nella mobilitazione la forza della classe operaia.


LE DIFFICOLTÀ DEL SINDACATO DEI CONSIGLI

Il fermento operaio, esploso alla FIAT durante l’autunno caldo, minaccerà per anni la governabilità della costrizione fordista del lavoro. Ci vorranno più di dieci anni per piegare questa riottosa classe operaia. E per farlo la direzione aziendale dovrà ingaggiare una battaglia campale contro l’avanguardia dei lavoratori.
Nel 1980 a Torino gli stabilimenti della FIAT concentrano ancora quasi centomila lavoratori. In quel periodo il sindacato dei consigli mostra segni di difficoltà. Sul piano sindacale, la tattica dell’azienda di non rispettare gli accordi raggiunti, in una sistematica girandola in cui i diritti vengono sanciti ma non applicati, sfibra il movimento rivendicativo. Mentre su un piano più generale, la svolta dell’EUR che consolidava la linea della moderazione salariale e di una maggiore flessibilità del lavoro, produce tra le avanguardie della FIAT uno stato di crescente malessere. Inoltre, le speranze di un cambiamento radicale del quadro politico maturate a metà degli anni Settanta, e rovesciatesi nel suo contrario con i governi di unità nazionale avevano contribuito a determinare un certo distacco tra i lavoratori e le rappresentanze politiche della sinistra. Ma in quel frangente, alla FIAT il movimento operaio conserva ancora tutta la sua forza; lo stesso rinnovo contrattuale dell’anno precedente s’era chiuso con un crescendo conflittuale che aveva visto la combattività operaia riversarsi all’esterno della fabbrica, conquistare il centro della città, moltiplicare i blocchi stradali e ferroviari.


LA CRISI DELLA FIAT

Da alcuni anni la FIAT soffre di un elevato indebitamento e stenta a recuperare il periodo di stagnazione della metà degli anni Settanta. Soprattutto ha difficoltà a reggere la concorrenza con le altre grandi case automobilistiche, in particolare con quelle giapponesi, che stanno sfidando tutti i giganti mondiali dell’automobile. La sua struttura produttiva, concentrata e antiquata, risulta ormai superata di fronte a un modello aziendale agile, decentrato e pienamente automatizzato come quello giapponese che consente di produrre la stessa quantità di automobili della FIAT con un terzo circa della manodopera occupata. Anche per questo, nel 1980 approfittando della crisi mondiale del mercato automobilistico, la famiglia Agnelli procede a passi spediti verso una radicale ristrutturazione dell’apparato produttivo. Si muove su tre piani: innovazione tecnologica (automatizzando le linee di montaggio), ripristino del comando gerarchico in fabbrica (eliminando le avanguardie di fabbrica e i delegati sindacali combattivi), espulsione massiccia di manodopera dai propri stabilimenti. L’anno precedente ha fatto le prove generali con il licenziamento di sessantuno lavoratori, accusati di essere contigui con il terrorismo. Quest’atto repressivo provoca una divisione nella sinistra e nel sindacato. La FLM risponde con scioperi e iniziative territoriali che hanno una riuscita parziale, mentre le confederazioni sindacali si defilano, e Giorgio Amendola, importante e prestigioso dirigente del PCI, facendo suo il teorema che lega le forme di lotta più radicali al terrorismo, dalle colonne di Rinascita esprime critiche durissime al sindacato dei consigli e alla FLM, chiedendo perché le strutture sindacali non abbiano preso per prime l’iniziativa contro ogni forma di violenza e di "teppismo" in fabbrica e contro il terrorismo.

In seguito, la magistratura appurerà che solo quattro di questi licenziati erano collegati in qualche modo con i gruppi terroristici. La gran parte di loro vincerà le cause alla pretura del lavoro, ma intanto il terreno è stato preparato. Contestualmente, la FIAT con i suoi grandi organi di stampa inizia a denunciare «il caos e il disordine che regnano nelle officine», «il rischio del collasso per l’azienda», indica «la necessità di far finire la grande sarabanda che è iniziata con l’autunno caldo». Per questa operazione di sfondamento la proprietà affida i pieni poteri a Cesare Romiti, un manager romano che si farà conoscere per la sua inflessibile durezza antioperaia.


IL POPOLO DEI CANCELLI

Il dado è dunque tratto, e il 10 settembre 1980 la FIAT annuncia quattordicimila licenziamenti. Per trentacinque giorni i lavoratori presidiano i cancelli e bloccano la produzione.
Da subito emerge una grande disponibilità alla lotta, perché gli operai intuiscono che lo scontro assume un significato epocale, per loro e per l’insieme della classe operaia italiana. O si vince o si perde. Il pareggio non è previsto, perché la FIAT vuole conseguire un obiettivo politico: domare quella classe che nel corso degli anni Settanta era stata capace di intralciare il suo dominio.

A Mirafiori compare un grande ritratto di Marx che nel corso della lotta diventerà il simbolo condiviso del movimento che si oppone ai licenziamenti. Davanti ai cancelli della fabbrica torinese si raccoglie anche una moltitudine di soggetti (lavoratori di altri comparti, giovani, studenti, casalinghe, pensionati) che reputano uno sfregio inaccettabile la pretesa di disfarsi di così tanti lavoratori, e la sottoscrizione lanciata dai sindacati raccoglie in pochi giorni 700 milioni di lire. A Mirafiori giunge anche il segretario nazionale del PCI Enrico Berlinguer, che sollecitato da un delegato sindacale che gli chiede cosa avrebbe fatto il PCI se i lavoratori avessero occupato gli stabilimenti, assicura il sostegno del partito, qualora a quella decisione fossero giunti il sindacato e i lavoratori. Non è meno battagliero un altro dirigente del PCI, il sindaco di Torino Diego Novelli, che davanti a migliaia di lavoratori, con tono tribunizio proclama che «se qualcuno pensasse di far passare per forza quel disegno, ebbene quel giorno noi non saremo davanti ai cancelli di Mirafiori ma saremo dentro Mirafiori». Queste prese di posizione, come poi sarà evidente, rispondono alla necessità di controllare, attraverso l’apparato centrale della CGIL, lo sviluppo della vertenza, cercando al tempo stesso di conservare il consenso e la simpatia di quella base operaia che richiede a gran voce l’adozione di forme di lotte più efficaci. Di fronte ad una possibile radicalizzazione che può condurre all’occupazione degli stabilimenti, il PCI ha tutto l’interesse a non farsi scavalcare da una dinamica che rischia di non controllare. Scegliendo di non raccogliere il guanto di sfida che la FIAT ha lanciato al sindacato e all’insieme del movimento operaio, i riformisti devono accettare così le esigenze del padronato, tentando di limitare i danni. Infatti il PCI e le burocrazie sindacali, lavorando per realizzare un compromesso con l’azienda, frenano il pieno dispiegarsi delle lotte e non mettono in campo tutta la forza politica e organizzativa che il movimento operaio dispone.

Mentre a Torino si susseguono scioperi e manifestazioni, negli alberghi romani si svolgono ripetuti incontri segreti tra i dirigenti di CGIL, CISL, UIL e la direzione aziendale. Dal canto suo, la segreteria del PCI preme sul governo per tentare di convincere Corso Marconi a moderare la sua intransigenza, e Gerardo Chiaromonte, responsabile della politica economica del partito, incontra riservatamente Romiti scongiurandolo di trovare un’intesa concordata col sindacato.
Il 27 settembre il governo va in minoranza alla Camera sul “decretone” economico. La FIAT annuncia la sospensione dei licenziamenti, e la decisione unilaterale di mettere in cassa integrazione a zero ore per tre mesi ventiquattromila lavoratori. Dalle prime lettere, risulta evidente che i destinatari sono i delegati sindacali. Scoperto è il disegno di Romiti: con le avanguardie espulse dalla fabbrica, è l’intero movimento sindacale ad essere decapitato e impossibilitato a promuovere ogni iniziativa di lotta e di resistenza. Nelle assemblee prevale la convinzione che il blocco totale sia l’unica risposta possibile al tentativo della FIAT di dividere i lavoratori tra quelli in cassa integrazione e quelli richiamati al lavoro. Nonostante tutto, il tessuto solidale regge; gli operai consolidano i presidi, e lungo il perimetro delle fabbriche nascono le prime baracche improvvisate che fungono da centri logistici della mobilitazione. Tra i lavoratori, ma anche tra le strutture sindacali intermedie cresce la volontà di occupare gli stabilimenti. A tale proposito si attiva un piano organizzativo pronto a entrare in azione.


LA MARCIA DEI QUARANTAMILA

Ma in quel momento cruciale dove si decide il destino della partita, in cui matura l’infaticabile lavorio teso a spezzare le istanze operaie, le avanguardie di
lotta della FIAT non riescono a darsi un’espressione politica alternativa rispetto agli apparati maggioritari che controllano il movimento operaio. Anche la stessa rivendicazione della riduzione generalizzata dell’orario di lavoro, che avrebbe potuto diventare un richiamo e una bandiera per l’intero mondo dei lavoro italiano, non riesce a diventare una delle parole d’ordine centrali dei settori più coscienti del movimento che si era messo in moto.

Senza una direzione alternativa, senza l’occupazione degli stabilimenti, la lotta operaia che si sviluppa davanti ai cancelli della FIAT è condannata alla sconfitta. La svolta arriva a metà ottobre, quando una massa di capi e capetti, impiegati e crumiri, organizzati e comandati dall’azienda, sfila per le vie di Torino agitando parole d’ordine antioperaie: esigono lo smantellamento dei picchetti, pretendono la libertà di lavoro, chiedono al sindaco Novelli di aprire i cancelli. Questa sfilata, che passerà alla storia come la “marcia dei quarantamila” (ma il numero reale dei “marciatori” sarà abilmente gonfiato dai media compiacenti), apre la strada alla capitolazione delle confederazioni sindacali. Dopo poche ore, Lama, Carniti e Benvenuto firmano un accordo capestro che ha scritto di suo pugno Romiti: ventitremila lavoratori vengono messi in cassa integrazione a zero ore; una vera e propria lista una lista di proscrizione che azzera la forza organizzata che il movimento operaio aveva sedimentato nel periodo precedente.
Quest’esito così disastroso non era scontato; in pochi giorni la sinistra politica e il sindacato avrebbero potuto opporre una mobilitazione di massa, sufficientemente ampia da essere in grado di respingere e oscurare la livida sfilata antioperaia andata in scena a Torino. Lo stesso Romiti nelle sue memorie sottolinea che fino all’ultimo il risultato della vertenza fu in bilico, che solo chi fosse stato in grado di resistere fino all’ultimo sarebbe stato in grado di piegare l’avversario.

Dopo l’intesa siglata a Roma, mentre l’apparato del PCI si mobilita per far accettare dalla base l’accordo siglato, dai palchi sindacali si tenta di far passare una sconfitta per una vittoria. Le bugie dei bonzi si sprecano come fiammiferi al vento; “entro il giugno 1983 rientreranno comunque tutti in fabbrica” è la più gettonata. Moltissimi lavoratori, nelle tumultuose e improvvisate assemblee che si tengono nei piazzali, bocciano l’accordo. Ma ormai, dopo la rabbia del primo momento, prevale l’impotenza e la disperazione.


LA RESTAURAZIONE ITALIANA

Dopo la marcia dei quarantamila grigi servitori della FIAT, e la resa senza condizioni delle burocrazie sindacali, la comunità operaia di Mirafiori è dispersa, vinta, battuta. I lavoratori che hanno resistito per trentacinque giorni si sentono traditi, abbandonati, privati di ruolo e di rilevanza sociale. Nel corso degli anni saranno più di duecento i suicidi che si registreranno tra coloro che hanno perso il posto di lavoro.
La vittoria padronale varca i cancelli della FIAT e s’irradia sull’intero paese; un’altra egemonia si sostanzia nella società e penetra nei luoghi di lavoro. Inizia l’epoca liberista, e le conquiste del mondo del lavoro vengono messe in discussione. Si inizia a parlare di “azienda Italia”, mentre i valori espressi nelle lotte appassionate del decennio precedente sono rovesciati nel loro contrario. Tutto si appiattisce, e lo spirito critico viene soppiantato dall’adulazione cortigiana nei confronti dei capitani d’industria. La fierezza di quegli operai che con il loro antagonismo avevano lottato per una società più giusta viene irrisa, schernita, espunta dalla rappresentazione mediatica, considerata nemica di quella modernità che si appresta a celebrare Craxi e la sua corte di nani e ballerine.

Nel corso di questi ultimi quarant’anni la FIAT sotto l’incedere del cambiamento si trasformerà, muterà di continuo i suoi assetti, sempre alla ricerca del massimo profitto. Per i lavoratori del gruppo, così come per tutti gli sfruttati, si tratta di resistere ai nuovi attacchi e provare a rovesciare la situazione sfavorevole. Walter Benjamin scriveva che «la lotta di classe che è sempre davanti agli occhi dello storico educato su Marx è una lotta per le cose rozze e materiali, senza le quali non esistono quelle più fini e spirituali. Ma queste ultime sono presenti, nella lotta di classe, in altra forma che non sia la semplice immagine di una preda destinata al vincitore. Esse vivono, in questa lotta, come fiducia, coraggio, umore, astuzia, impassibilità, e agiscono retroattivamente nella lontananza dei tempi. Esse rimetteranno in questione ogni vittoria che sia toccata nel tempo ai dominatori». E sono forse queste le qualità migliori che, oggi come ieri, esprimono quei lavoratori che con coraggio e determinazione provano a mettere in discussione il potere e l’arroganza della classe dei dominatori.

Piero Nobili