13 Ottobre 2020
«Non è il momento degli scioperi... Non fermate la locomotiva dell'industria italiana.» Così ha dichiarato ieri Carlo Bonomi, fresco presidente di Confindustria. È lo stesso che nel febbraio scorso nella veste di capo di Assolombarda impose di non recintare come zona rossa i comuni della bergamasca. Allora il motto era “Bergamo is running”. Il risultato fu il maggior tasso di mortalità Covid del mondo. Ma la locomotiva dei profitti camminava, perché fermarla?
Dopo questa esperienza sul campo, i capitalisti italiani hanno voluto premiare Bonomi eleggendolo a capo di Confindustria, un titolo indubbiamente meritato. E Bonomi oggi li ripaga con un nuovo atto di fedeltà al cinismo della propria classe. Gli operai, a partire dai metalmeccanici, rinuncino ad ogni aumento salariale contrattuale, accontentandosi di eventuali elemosine aziendali finanziate da maggiore sfruttamento. E soprattutto non si azzardino a scioperare. Gli operai possono crepare, non lottare. Questa la sostanza del messaggio.
Bonomi si sente forte, non senza ragione. Ha davanti a sé un governo che lo riverisce, una burocrazia sindacale che tutto vorrebbe tranne aprire un conflitto, una classe operaia segnata negli anni da tante sconfitte e delusioni. Perché dunque non andare all'incasso? Così ragionano i vertici di Confindustria nel mentre tirano la corda della provocazione. Bonomi si offre alla borghesia italiana come lo stato maggiore di una vittoria annunciata.
Ma l'arroganza può giocare brutti scherzi, e le corde si possono spezzare. Già a marzo centinaia di migliaia di operai hanno scioperato contro padroni che li costringevano al lavoro senza sicurezza e in pieno contagio. Padroni e dirigenti sindacali dovettero affrettarsi in piena notte a varare un protocollo antincendio. La protesta è rientrata. Ma se domani dovesse riprendere? C'è una seconda linea del padronato italiano che il problema se lo pone e non vuol correre rischi. I Ferrero, i Barilla, i grandi gruppi del capitalismo alimentare che hanno disobbedito a Bonomi lo hanno fatto per quello. Bonomi tira dritto centralizzando la linea di scontro, ma la sua armata non è compatta. Se vince, vince per tutti; se perde, perde da solo.
Parallelamente, la burocrazia sindacale di FIOM, FIM e UILM ha dovuto obtorto collo proclamare uno sciopero per difendere il proprio ruolo di burocrazia. L'obiettivo è ottenere dal governo una detassazione di eventuali aumenti contrattuali per metterli a carico della fiscalità generale (cioè dell'insieme dei lavoratori), a tutela dei profitti. “È un compromesso che a voi conviene” dicono i burocrati ai capitalisti, “lo sciopero l'abbiamo rinviato a novembre proprio per poterlo revocare. Il governo ci aiuti, e voi collaborate. Di noi avete bisogno per avere la pace sociale”.
Ecco, è possibile che dentro questa cornice capitalisti e burocrati finiscano con l'accordarsi. È ciò che normalmente accade. Ma se invece non avvenisse? Se Bonomi andasse avanti per la propria strada contando – a ragione – sulla remissività del sindacato, e gli operai si infilassero in quel varco dando allo sciopero un contenuto vero? Nulla a oggi ci dice che così andranno le cose, ma nulla può escluderlo. E in quel caso la lotta di classe potrebbe uscire dai binari del già visto, con buona pace della locomotiva di Bonomi.
La certezza è una sola: dieci milioni di operai in attesa di contratto sono privi di un proprio stato maggiore, quello di cui dispongono i padroni. Costruire controcorrente questo stato maggiore è il compito dell'avanguardia. Allargare e unificare tutte le lotte di resistenza in contrapposizione frontale al padronato e attorno ad una piattaforma generale indipendente è la linea su cui costruire la locomotiva della nostra classe.