Post in evidenza
ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO
Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Il nostro Partito non potrà essere presente a qu...
Cerca nel blog per parole chiave
La guerra in Ucraina un anno dopo
22 Febbraio 2023
Un'analisi aggiornata della guerra a un anno dal suo inizio, a difesa di un posizionamento coerentemente leninista. La denuncia dell'imperialismo russo. La difesa dell'Ucraina da una guerra imperialista d'invasione. La denuncia del ruolo degli imperialismi NATO e della loro corsa al riarmo. L'opposizione politica a Zelensky dal versante dei lavoratori ucraini. La rivendicazione di una pace giusta in Ucraina, a partire dal ritiro delle forze russe di occupazione. Il ruolo potenzialmente decisivo del proletariato russo. Il nostro sostegno al RRP (Partito Operaio Rivoluzionario) russo e alla sua opposizione al proprio imperialismo e alla sua guerra. La prospettiva socialista e rivoluzionaria internazionale in contrapposizione a tutti gli imperialismi e alla minaccia di una terza guerra mondiale
A un anno dall'invasione russa dell'Ucraina è importante fare il punto sulla guerra. Sulla sua natura, sulla sua evoluzione, sul posizionamento politico dei rivoluzionari.
Nell'anno trascorso, sia nel confronto politico che nel senso comune, sono sedimentati e confusamente intrecciati verità, pregiudizi, rappresentazioni ideologiche impermeabili all'evidenza, inquinamenti prodotti dalle opposte propagande di guerra e dal loro riflesso, spesso capovolto, nella percezione dell'opinione pubblica. Un inestricabile groviglio nel quale spesso si disperdono i fondamentali della guerra, quasi fossero un fastidioso ingombro.
“Lo sappiamo che c'è un aggressore e un aggredito! Ma ora basta, dobbiamo fermare l'escalation che ci sta conducendo alla terza guerra mondiale! Basta armi all'Ucraina, la parola passi alla diplomazia, vogliamo la pace”: questo è dopo un anno un senso comune diffuso, anche a sinistra. Condensa e miscela ingredienti diversi, con diverse declinazioni. Da un lato la paura più che motivata dell'escalation bellica, il rifiuto del militarismo, il fastidio per la retorica borghese, tanto ipocrita quanto insopportabile, a maggior ragione se di un governo a guida postfascista. Dall'altro la volontà di non immischiarsi in “fatti che non ci riguardano”, il regredire del senso di solidarietà e di empatia verso la popolazione ucraina bombardata, veri e propri casi di ucrainofobia, persino una sottile fascinazione delle “ragioni” della Russia e del lato oscuro della forza.
Cogliere questo sentimento pubblico, in tutte le sue contraddizioni e sfaccettature, è molto importante. Non per assecondarlo passivamente e lisciargli il pelo, come fanno per ragioni diverse il M5S, le sinistre riformiste, e persino Berlusconi (a quanto pare in compagnia di... Matteo Messina Denaro), ma per educarlo, separando il lato progressivo di questo sentimento (il rifiuto dell'escalation bellica, della minaccia nucleare, dell'incremento delle spese militari) dall'indifferenza verso un popolo invaso, dall'illusione nelle diplomazie degli imperialismi, dalla rimozione della natura stessa della guerra, che è e resta innanzitutto la guerra dell'imperialismo russo all'Ucraina. Quella iniziata un anno fa.
LA GUERRA DELL'IMPERIALISMO RUSSO
Un anno fa la Russia ha invaso l'Ucraina, non per “difendere il Donbass” ma per conquistare e assoggettare Kiev. Per cancellare la sovranità nazionale dell'Ucraina e la sua stessa legittimità storica. «L'Ucraina è una invenzione di Lenin e dei bolscevichi» dichiarò Putin a reti unificate il 21 febbraio 2022. Dunque deve tornare alla Russia, alla Grande Madre Russia, rivendicata e celebrata dal regime, dal Patriarcato di Mosca, da tutto lo sciovinismo patrio. Da qui la motivazione pubblica dell'invasione del 24 febbraio, insieme imperiale e (dichiaratamente) anticomunista. Due giorni dopo una colonna di sessanta chilometri di carri armati russi marciava in direzione di Kiev.
La previsione era quella di una sua rapida caduta, con la fuga precipitosa del governo in carica e la sua sostituzione con un governo fantoccio filorusso. Era anche la previsione del governo USA, che offrì infatti immediatamente a Zelensky un asilo dorato incoraggiandolo di fatto a fuggire. Erano le ore in cui il cancelliere tedesco Scholz si lasciò scappare sottobanco una confidenza rivelatrice: “Se proprio invasione deve essere, il male minore è che l'Ucraina si arrenda in fretta”. Fatto sta che le previsioni di tutti sono state smentite dalla scelta della resistenza da parte ucraina, cambiando così la dinamica del conflitto. Chi rappresenta le vicende del mondo come opera dei grandi burattinai imperialisti che tutto pianificano e tutto dispongono dovrebbe riconoscere che la realtà dei fatti ha contraddetto una volta di più il loro schema, sin dalle origini di questa vicenda.
L'invasione dell'Ucraina da parte di Putin è un risvolto della politica di potenza dell'imperialismo russo. Un diffuso luogo comune nega la realtà dell'imperialismo russo. Nel migliore dei casi rappresenta la sua politica come sostanzialmente difensiva contro l'espansione della NATO e dell'Occidente. La ragione è semplice: nella memoria del popolo di sinistra l'imperialismo è solo quello americano. È la memoria lunga del dopoguerra. Ma oggi la realtà del mondo è profondamente diversa. Certo, dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989 e la restaurazione capitalista in URSS, gli imperialismi NATO hanno progressivamente allargato la propria area di influenza, inglobando larga parte dell'Est Europa nel proprio dominio e proiettandosi in Medio Oriente. Le promesse ufficiose fatte a Gorbaciov circa il rispetto occidentale dell'area di influenza russa durarono lo spazio del mattino, non più di quanto durò la promessa russa del 1994, col Patto di Budapest, di rispettare i confini dell'Ucraina dopo aver ottenuto il suo disarmo nucleare. Ma la linea espansionista degli imperialismi occidentali ha subìto negli anni 2000 ripetuti rovesci, prima in Iraq, e poi in Afghanistan. E a partire dalla grande crisi capitalistica del 2008 si confronta con l'ascesa impetuosa dell'imperialismo cinese su scala mondiale. Al centro dello scenario internazionale non c'è oggi l'irresistibile espansione degli USA ma la crisi profonda della loro egemonia.
La politica di potenza dell'imperialismo russo, dalla metà degli anni 2000, si è sviluppata in questo contesto. È una reazione non solo all'espansione della NATO post-1989 ma anche e soprattutto all'indebolimento degli imperialismi occidentali. L'irruzione della Russia nella guerra siriana, nel Nord Africa (Libia), in Africa centrale, e persino in Mar Artico, punta a capitalizzare in proprio la crisi dell'egemonia USA e dei loro alleati (è il caso della crisi della Francia in Africa), e il varco aperto dall'ascesa cinese. L'invasione dell'Ucraina, successiva alla disfatta USA in Afghanistan, è un riflesso di questa dinamica.
IL RUOLO DEGLI IMPERIALISMI NATO
Gli imperialismi di casa nostra, spiazzati dall'imprevista resistenza ucraina, si sono affrettati a sostenerla per interesse proprio, provando a fare di necessità virtù. La spiegazione è elementare: non intendono subire senza contrasto l'espansione di un imperialismo rivale in Europa, tanto più che la Russia è alleata decisiva dell'imperialismo cinese, l'avversario strategico degli USA su scala globale. Un abbandono della resistenza ucraina al suo destino da parte dell'imperialismo USA avrebbe significato un semaforo verde per la Cina sul Pacifico (Taiwan), e un ulteriore ridimensionamento del proprio ruolo nel mondo. Dunque un tracollo della credibilità dell'imperialismo USA presso tutti i propri alleati, sia in Europa (a partire dalla Polonia e dagli stati baltici) sia in Asia (a partire dal Giappone e dalla Corea del Sud).
Il sostegno degli imperialismi occidentali all'Ucraina è oggettivamente determinante per la sua tenuta nella guerra. Al tempo stesso l'aiuto occidentale sostiene l'Ucraina come la corda sostiene l'impiccato: mira a consolidare l'assoggettamento dell'Ucraina all'influenza della NATO, della UE, del Fondo Monetario Internazionale, e alle loro politiche di rapina. L'imperialismo fa l'imperialismo, sarebbe illusorio attendersi altro.
Ma la teoria della guerra in Ucraina come guerra per procura della NATO contro la Russia è profondamente falsa. Lo è, come abbiamo visto, nello stesso innesco della dinamica di guerra. Ma lo è anche nella sua dinamica successiva.
Lo sforzo militare è intenso su entrambi i lati. L'imperialismo russo ha reagito al fallimento del proprio disegno iniziale con l'escalation della propria offensiva militare. La sconfitta della marcia su Kiev, il fallimento dei ripetuti tentativi di conquistare Karkhiv, la perdita successiva di Kherson a settembre, hanno spinto il regime putiniano a una mobilitazione straordinaria di nuove truppe, all'annessione formale di quattro provincie, e soprattutto allo sviluppo imponente dei bombardamenti sulle infrastrutture civili ucraine. E ora sembra alle viste una nuova imponente offensiva di terra in primavera. Gli imperialismi NATO hanno risposto, sotto pressione ucraina, con un ampliamento parallelo del sostegno militare a Zelensky, prima col ricorso agli Himars, poi con la promessa dopo un anno di guerra dei carri armati pesanti, per quanto gli aiuti reali siano molto minori di quelli propagandati e promessi, a fronte di una perdurante sproporzione delle forze sul campo a vantaggio della Russia (si pensi ai 10000 mezzi corazzati di cui Putin ancora dispone e all'enorme disponibilità di truppe).
Il sostegno militare della NATO all'Ucraina non equivale all'ingresso diretto della NATO in guerra contro la Russia.
Questa distinzione elementare tra sostegno militare e ingresso in guerra vale innanzitutto sul piano storico generale: la Gran Bretagna sostenne l'Etiopia contro l'imperialismo fascista nel 1936 ma non fu in guerra con l'Italia sino al 1940; la Gran Bretagna sostenne la Cina contro l'invasione giapponese nel 1936-'38 ma non era allora in guerra col Giappone; l'URSS staliniana sostenne (ahimè) economicamente e militarmente la Germania nazista fra il 1939 e il 1941, ma non era per questo in guerra contro Gran Bretagna e Francia; Cina e URSS negli anni '60 e '70 sostennero militarmente il Vietnam contro gli USA ma certo non erano in guerra con gli USA... Gli esempi si potrebbero moltiplicare, come si vede, con i più diversi protagonisti, riferimenti e contesti. L'idea per cui un sostegno militare significa di per sé essere in guerra non trova il conforto della storia.
Tale distinzione vale anche nel caso della guerra attuale. L'imperialismo USA e gli imperialismi europei vogliono impedire la vittoria dell'imperialismo russo in Ucraina, che significherebbe la loro sconfitta, ma non al prezzo di essere trascinati direttamente in guerra. Per questo si oppongono all'invio diretto di proprie truppe. Rifiutano la concessione della no fly zone che Zelensky ha richiesto. Hanno minimizzato l'incidente al confine polacco a settembre. Dilazionano ripetutamente gli aiuti (persino dei famosi Leopard) e ne riducono il più possibile l'importo effettivo. Pongono come condizione dei rifornimenti militari l'impegno ucraino a non attaccare il territorio russo in profondità, misurando la stessa natura degli aiuti militari in base a questa clausola di ingaggio.
Più in generale, l'idea per cui gli USA mirerebbero alla guerra contro la Russia per smembrarla e spartirsela ha molto a che fare con la propaganda patriottica putiniana, ma molto meno con la verità. Confonde i piani fantascientifici di alcuni ambienti dell'estrema destra polacca con gli orientamenti dell'imperialismo USA. Il quale da un lato vuole sconfiggere per il proprio interesse i piani di Putin in Ucraina, ma dall'altro teme che una caduta di Putin e ancor più una dissoluzione della Federazione Russa possano essere capitalizzati dalla Cina, il proprio nemico strategico, con un'ulteriore espansione della propria area d'influenza in Asia. Le riflessioni di un Kissinger non sono estranee a questo ordine di preoccupazioni strategiche.
UNA GUERRA ASIMMETRICA
Le trattative tra NATO e Ucraina che accompagnano ogni consegna (o promessa) di nuove armi sono dunque il riflesso di un braccio di ferro tra pressioni diverse: da un lato la pressione ucraina al rialzo, sotto l'incalzare drammatico della guerra russa, dall'altro la volontà della NATO di contenere gli aiuti dentro le compatibilità di un sostegno esterno senza coinvolgimento diretto. Un equilibrio difficile e precario e tuttavia ricercato, cui si si aggiungono come ulteriore fattore di condizionamento le contraddizioni interne al campo degli imperialismi NATO, tra imperialismo USA e imperialismi europei, tra imperialismo britannico e imperialismo tedesco e francese. Ma anche all'interno degli stessi paesi imperialisti tra équipe di governo e stati maggiori. Ovunque preoccupati – dal Pentagono ai comandi tedeschi e francesi – di salvaguardare la propria forza militare evitando di “esagerare” con l'invio di armi all'Ucraina. Ciò che a volte viene scambiato per un improbabile pacifismo dei generali è solo la preparazione alle guerre future, magari contro la Cina sul Pacifico.
La guerra in corso è e resta dunque una guerra asimmetrica. L'Ucraina è il terreno di combattimento, non la Russia. La Russia invade e bombarda l'Ucraina da un anno, distruggendo città, centrali elettriche, fabbriche, ospedali, scuole. L'Ucraina si difende sul proprio territorio senza attaccare il territorio russo (al di là ovviamente delle linee contigue di rifornimento e delle basi militari di attacco adiacenti al fronte) e senza coinvolgere la popolazione russa. È un fatto. Dieci milioni di sfollati ucraini sono il portato di questa realtà, assieme al carico di morti e di terrore. Non sono l'effetto della difesa ucraina e degli aiuti militari NATO, sono l'effetto dei bombardamenti russi e dell'occupazione russa. Dire il contrario, attribuire le vittime ucraine alla resistenza all'invasione (“è Zelensky che vuole il massacro del suo popolo”) non costituisce solo un cinico falso logico, ma anche un sostegno obiettivo alla propaganda di guerra putiniana. Cioè un sostegno all'imperialismo invasore.
LA GUERRA DEL DONBASS DEL 2014 E LA GUERRA RUSSA ALL'UCRAINA
Chi rappresenta la guerra attuale come un prolungamento della guerra del Donbass del 2014 rimuove questa realtà.
Quella fu una guerra del governo nazionalista ucraino post-Maidan, guidato dalla destra di Poroshenko, contro la ribellione delle popolazioni russofone alle sue misure reazionarie. Noi, in quel contesto, sostenemmo senza riserve le repubbliche del Donbass contro il governo reazionario ucraino, nonostante la natura rossobruna dei governi separatisti e il sostegno militare loro accordato, per interesse proprio, dall'imperialismo russo.
Questa è una guerra di invasione dell'imperialismo russo contro l'Ucraina intera, inclusa la popolazione russofona del Donbass. Il Donbass è oggi uno dei terreni della guerra, non la ragione della guerra. La “liberazione del Donbass dai nazisti ucraini” è propaganda ipocrita dell'imperialismo russo. Tanto più grottesca se si pensa che la cosiddetta “denazificazione” dell'Ucraina è condotta dalle truppe panislamiste cecene arcireazionarie di Kadyrov e dalle milizie naziste della Wagner, il cui ruolo nella guerra d'invasione russa è oltretutto incomparabilmente superiore a ciò che resta dei fascisti Azov nella difesa ucraina. Al punto che i capi della Wagner, forti del proprio ruolo al fronte, sgomitano ormai in prospettiva per la successione politica a Putin.
Siamo dunque a difesa dell'Ucraina contro la guerra d'invasione dell'imperialismo russo. Proprio perché siamo contro tutti gli imperialismi, siamo contro tutte le loro guerre, a sostegno di tutti i popoli da questi invasi. Abbiamo difeso l'Iraq, la Serbia, l'Afghanistan contro le guerre imperialiste dell'Occidente; difendiamo l'Ucraina dalla guerra d'invasione dell'imperialismo russo.
È una posizione che discende dall'intera tradizione del marxismo rivoluzionario internazionale, come abbiamo ampiamente documentato. Lenin e Trotsky hanno sempre difeso le nazioni dipendenti contro le potenze imperialiste che le opprimevano e/o le aggredivano, anche quando tali nazioni venivano sostenute per interesse proprio da imperialismi rivali. Nel 1916 il sostegno tedesco al movimento nazionale irlandese non impedì a Lenin di sostenere l'Irlanda contro l'imperialismo britannico. Il sostegno della Gran Bretagna all'Etiopia contro l'imperialismo fascista non impedì a Trotsky di rivendicare la difesa dell'Etiopia contro L'Italia. Cosi come il sostegno britannico alla Cina, aggredita dall'imperialismo giapponese, non gli impedì di sostenere la Cina contro il Giappone. In ognuno di questi contesti esistevano le contraddizioni interimperialiste, ma non rappresentavano l'elemento dominante. E le tesi ultrasinistre che in nome di quelle contraddizioni rifiutavano il sostegno alle nazioni dipendenti furono oggetto di una polemica costante sia di Lenin che di Trotsky. La nostra difesa dell'Ucraina contro l'imperialismo russo, nonostante l'appoggio all'Ucraina degli imperialismi NATO, è l'applicazione coerente ed elementare di questo metodo leninista. Come lo è il nostro sostegno alla resistenza curda, pur sostenuta da armi e istruttori americani.
Naturalmente, se la guerra cambiasse natura, cambierebbe la nostra posizione. Se la NATO entrasse direttamente in guerra contro la Russia, assumeremmo una posizione di disfattismo bilaterale, come a fronte di ogni guerra interimperialista. Se la Russia si ritirasse entro i confini del 24 febbraio e l'Ucraina, magari spinta da alcuni ambienti imperialisti guerrafondai (Gran Bretagna, Polonia...) continuasse la guerra contro la Russia, anche in quel caso la nostra posizione cambierebbe in direzione del disfattismo bilaterale. Ma così oggi non è.
Non escludiamo affatto la possibilità di una trascrescenza della guerra attuale in direzione di un conflitto interimperialista. Semmai una delle conseguenze paradossali della rappresentazione della guerra attuale come già interimperialista è proprio quella di rimuovere il rischio di un salto interimperialista della guerra. A maggior ragione nel caso di quella “teoria” strampalata (purtroppo affacciatasi anche in ambienti rivoluzionari) per cui essendo oggi in epoca nucleare, le guerre tra gli imperialismi possono essere solo indirette e “bastarde”, “come in Ucraina”. Pur di negare il diritto alla resistenza ucraina contro l'invasione russa, si giunge di fatto a negare la stessa possibilità di una guerra diretta tra le potenze imperialiste. Un'analisi sbagliata conduce paradossalmente a illusioni semipacifiste del tutto irresponsabili, a scapito della lotta contro la minaccia della terza guerra mondiale imperialista, purtroppo tragicamente possibile.
Resta il fatto che non possiamo confondere una terribile possibilità del futuro con la realtà presente. Lo ribadiamo. L'elemento interimperialistico è ben presente nel conflitto: ne spiega il contesto, disegna gli schieramenti internazionali, influisce sulle forze militari in campo su entrambi i versanti. Ma i soggetti centrali della guerra, quelli che si combattono sul campo, sono da un lato l'imperialismo russo, dall'altro lo Stato ucraino. Questa è oggi la linea del fronte. Non possiamo essere neutrali a fronte di una guerra imperialista d'invasione contro un paese che imperialista non è. Tanto più se il confine della guerra ricalca la frontiera di un'oppressione storica, prima zarista, poi staliniana, per mano dello sciovinismo grande-russo.
Chi dipinge la resistenza ucraina come un semplice braccio esecutivo della NATO non solo nega l'esistenza della nazione ucraina e del suo popolo (al pari di Putin), ma è incapace di spiegare la stessa dinamica della guerra. Certo, la NATO fornisce armi, istruttori, intelligence. Ma ad usare quelle armi sono gli ucraini. A morire sono gli ucraini. I militari ucraini, ma anche i civili. In Russia più di un milione di giovani sono fuggiti per evitare l'arruolamento in guerra. In Ucraina più di centomila volontari si sono arruolati nelle forze di difesa territoriale. È il riflesso indiretto della natura della guerra: da un lato una guerra imperialista d'invasione, dall'altro una guerra nazionale di difesa.
La guerra di difesa non avrebbe resistito un anno intero senza il retroterra di un sostegno popolare. Sostegno che è anche servizio civile, supporto logistico, soccorso ai feriti, cura del vettovagliamento, sostegno morale. Fattori che pesano sul fronte di guerra non meno delle armi. Chi non capisce questo ignora la storia delle guerre di ogni tempo.
LA NOSTRA DIFESA DELL'UCRAINA, IL RIFIUTO DELLA NATO E DELLE SANZIONI
Siamo a difesa dell'Ucraina, in piena autonomia dalla NATO. Siamo contro la NATO, contro la sua espansione in Nord Europa (sulla pelle del popolo curdo), contro il suo allargamento sul Pacifico in contrapposizione alla Cina, contro l'aumento delle spese militari dei governi d'Occidente e la loro folle corsa al riarmo. In una parola, siamo contro gli imperialismi di casa nostra, che sono sempre per noi il nemico principale. Gli ucraini hanno il diritto di usare tutte le armi disponibili per difendersi dall'invasione russa: è il diritto di ogni popolo invaso da un imperialismo. Noi abbiamo il dovere politico di dire che gli imperialismi che danno loro le armi lo fanno nel loro proprio interesse. Abbiamo il dovere politico di dire che un ingresso dell'Ucraina nella NATO sarebbe non una garanzia di pace ma l'iscrizione alle guerre future. Abbiamo il dovere di dire che l'ingresso dell'Ucraina nella UE, come vuole Zelensky, significherebbe impiccare l'Ucraina a nuove politiche di austerità e sacrifici, che ricadrebbero innanzitutto sui lavoratori e le lavoratrici ucraine, quelli che oggi reggono sulle proprie spalle i costi della resistenza all'invasione.
Siamo dalla parte della resistenza ucraina, non delle sanzioni occidentali contro la Russia. Più precisamente siamo contro le sanzioni. Le sanzioni contro la Russia non solo scaricano il proprio costo sui lavoratori d'Occidente e sui lavoratori russi, ma sono oggi usate dal regime reazionario di Putin sul fronte interno per costruire il consenso sciovinista alla propria guerra imperialista. Sono dunque di fatto contro gli interessi della resistenza ucraina all'invasione e contro lo sviluppo di un'opposizione russa alla guerra. A maggior ragione lo sono le odiose posture russofobe in campo culturale, artistico, sportivo. Più in generale, la nostra opposizione alla guerra dell'imperialismo russo non ha nulla a che spartire con la guerra degli imperialismi occidentali contro la Russia. La NATO combatte la Russia per i propri interessi imperialisti. Noi difendiamo l'Ucraina contro la Russia nel nome degli interessi del proletariato russo, del movimento operaio internazionale, del popolo ucraino.
ALL'OPPOSIZIONE DI ZELENSKY, DALLA PARTE DEI LAVORATORI UCRAINI
Siamo all'opposizione del governo Zelensky. Appoggiare il diritto di resistenza ucraina non significa affatto appoggiare politicamente il governo ucraino. Così come appoggiare il diritto di resistenza del popolo iracheno, il diritto di resistenza del popolo serbo, il diritto di resistenza del popolo afghano, non ha mai significato per parte nostra appoggiare politicamente Saddam Hussein, Milosevic, i talebani. Come appoggiare la resistenza etiope contro l'Italia, o la resistenza cinese contro il Giappone, non significava per Trotsky appoggiare politicamente il Negus o Chiang Kai-shek. È un aspetto elementare della politica rivoluzionaria
Sulla figura e la natura politica di Zelensky regna in realtà una confusione enorme. La propaganda imperialista russa lo presenta come nazista e capo dei nazisti. La propaganda imperialista del campo NATO lo presenta come eroe della democrazia e del progresso. Mentono naturalmente entrambe. Zelensky è un borghese di estrazione ebraica, esponente del centro politico ucraino che si è candidato nel 2019 in opposizione alla destra nazionalista di Poroshenko. Non a caso ha raccolto molti voti proprio nel Donbass. Al tempo stesso, da politico borghese uscito dalle file dello spettacolo (al pari di un Grillo) ha marcati tratti populisti, e si è andato costruendo come riferimento centrale dell'imperialismo NATO e dell'Unione Europea. Inutile dire che la guerra d'invasione russa e la demonizzazione di Zelensky da parte di Putin hanno accresciuto la sua popolarità interna, precedentemente in significativo declino. Per parte nostra non abbiamo bisogno di accodarci alla “zelenskofobia” alimentata dagli ambienti rossobruni per denunciare le politiche borghesi di Zelensky.
Le politiche sociali di Zelensky sono antioperaie e antisindacali: privatizzazioni, precarizzazione, liberalizzazione dei licenziamenti, aumento dell'orario di lavoro, libera compravendita dei terreni a vantaggio della grande proprietà fondiaria. Tutte politiche suggerite dal Fondo Monetario Internazionale e pretese dalla UE. Alle quali si aggiunge l'impegno a pagare l'enorme debito pubblico accumulato per le spese di guerra. Queste politiche sono respinte giustamente dal sindacalismo di classe in Ucraina. I lavoratori e i sindacati ucraini si sono impegnati nella difesa del paese dall'invasione russa, che è innanzitutto la difesa delle proprie case e del proprio lavoro. Anche per questo le politiche sociali del governo sono vissute e spesso denunciate come una pugnalata alla schiena. Lo spettacolo degli oligarchi ucraini che si arricchiscono con la guerra portando all'estero le proprie ricchezze sulla pelle dei loro operai che combattono al fronte e nelle retrovie suscita sdegno e sgomento, giustamente.
Lo stesso vale per le nuove normative militari. Gli ultimi decreti del governo Zelensky privano i soldati al fronte di importanti protezioni legali di fronte ai loro ufficiali, accrescendo a dismisura il potere di questi ultimi. Una petizione popolare ha raccolto decine di migliaia di firme contro tali misure, accusandole di favorire la demoralizzazione dell'esercito e dunque di indebolire la resistenza all'invasione. La lotta di classe trova il proprio spazio anche in una guerra di difesa nazionale.
Lo sgomitamento per la spartizione della futura ricostruzione dell'Ucraina fa oggi del governo di Kiev un crocevia di pressioni e interessi imperialisti occidentali, tra loro concorrenziali ma convergenti. USA, Gran Bretagna e Germania, assieme alla vicina Polonia, puntano ad assicurarsi il grosso della torta quale ricompensa degli aiuti militari. Francia e Italia vogliono partecipare alla partita. La visita di Bonomi a Kiev, a nome di Confindustria, ha qui la sua principale ragione. Ogni imperialismo d'Occidente (ma anche la Turchia e persino la Cina) punta ad ottenere per sé manodopera a basso costo, investimenti detassati, laute commesse per le proprie imprese. Il patriottismo filoucraino è il patriottismo del proprio portafoglio.
Nel mentre difende il paese dalla guerra d'invasione russa nel nome della sovranità nazionale, Zelensky subordina l'Ucraina al controllo imperialista dell'Occidente. Da qui la nostra opposizione. Nel mentre difendiamo l'esistenza stessa dell'Ucraina dall'aggressione mortale dell'imperialismo russo, ci opponiamo alla sua svendita all'imperialismo di casa nostra. L'autodeterminazione nazionale del popolo ucraino, che innanzitutto richiede la sconfitta dell'invasione russa, potrà realizzarsi compiutamente solo rompendo con ogni imperialismo. Dunque solo su basi socialiste. Non è un caso se fu la Rivoluzione d'ottobre a riconoscere quel diritto all'indipendenza ucraina che Putin vuole oggi cancellare nel nome della Grande Russia.
PER UNA PACE GIUSTA, SENZA ANNESSIONI
Vogliamo la fine della guerra, rivendichiamo la pace. Non qualsiasi pace. Poche parole come “pace” sono da sempre strumento di inganno. La guerra in Ucraina non fa eccezione.
Ogni protagonista della guerra declina la pace in base ai propri interessi. Putin chiama “pace” la resa dell'Ucraina: la perdita della sua sovranità o in subordine la sua amputazione, con relative annessioni. È la pace dell'imperialismo aggressore. Gli imperialismi NATO che oggi contrastano nel loro proprio interesse l'operazione russa cercano in realtà sottobanco una via d'uscita. La proposta di “pace” veicolata recentemente dalla CIA ai diplomatici russi circa una spartizione concordata del territorio ucraino occupato quale possibile soluzione del conflitto è stata respinta sia dalla Russia che dall'Ucraina, per opposte ragioni. Ma dà l'idea della logica con cui si muovono gli imperialismi “democratici”. Per loro i diritti dei popoli sono da sempre merce di scambio; vale per i palestinesi, vale per i curdi, perché non potrebbe valere per gli ucraini?
Rivendichiamo una pace giusta. Una pace senza annessioni. Ciò che significa innanzitutto il ritiro delle truppe russe di occupazione dai territori conquistati dopo il 24 febbraio 2022. “Putin go home” è la prima rivendicazione di pace in Ucraina. Ogni soluzione di pace sotto occupazione militare può essere solo un inganno. Le soluzioni di pace in Palestina sotto l'occupazione sionista sono al riguardo eloquenti. Non può esservi una pace giusta in Ucraina senza il ritiro delle forze russe entro i confini del 23 febbraio 2022. È grave che larga parte del pacifismo italiano, nel mentre respinge il diritto alla resistenza ucraina, rifiuti di chiedere il ritiro dall'Ucraina delle forze russe di occupazione, la più elementare delle rivendicazioni per chi si oppone alla guerra.
Al tempo stesso, una pace giusta non vuol dire subordinazione alla destra nazionalista ucraina, o alle tendenze revansciste presenti in ambienti NATO (Gran Bretagna e Polonia in primis). Al contrario. Non è per noi in discussione l'appartenenza della Crimea alla Russia. Il popolo di Crimea è russo, non semplicemente russofono. Ogni pretesa del nazionalismo ucraino di riconquistare la Crimea sarebbe priva di ogni diritto. Così non è per noi in discussione il diritto di autodeterminazione delle popolazioni russofone del Donbass. Valeva nel 2014 contro il governo ucraino, vale oggi in presenza dell'invasione russa. Sono le popolazioni del Donbass che hanno il diritto di scegliere liberamente dove vogliono vivere, se nel quadro di una Ucraina federale o all'interno dello Stato russo, o come repubbliche indipendenti. Di certo il loro destino non può essere affidato né ai referendum farsa delle forze russe occupanti né alla volontà di rivincita della destra ucraina.
IL RUOLO DECISIVO DEL PROLETARIATO RUSSO
La lotta per una pace giusta assume a riferimento non l'imperialismo russo, non gli imperialismi NATO, ma la resistenza ucraina e il proletariato russo.
Il principale fattore di pace non sono le sanzioni occidentali ma la possibile ribellione dei lavoratori russi, i grandi dimenticati della lotta contro la guerra.
Anche a causa delle sanzioni e delle campagne russofobe, il regime di Putin conserva tuttora purtroppo un consenso nettamente maggioritario in Russia. Ma la situazione non è cristallizzata. Molto dipende dal fronte di guerra. La sconfitta russa a Kherson a settembre e la successiva mobilitazione dei 300000 coscritti ha dato una scossa sul fronte del consenso interno, lo hanno rilevato tutti i sondaggi, di diversa fonte, sulla continuità o meno della guerra. In particolare le crepe del consenso interno si sono manifestate nella giovane generazione e presso le popolazioni della periferia dell'impero, quelle popolazioni non russe su cui si concentra il grosso della campagna di arruolamento alla guerra. Come ogni Bonaparte, Putin si regge sul prestigio della vittoria. Non a caso la guerra di annientamento russo della Cecenia (nel totale disinteresse della sinistra occidentale) ha lastricato l'ascesa di Putin. Per la stessa ragione, una sconfitta sul fronte ucraino potrebbe innescare una crisi del regime. E una crisi del regime putiniano potrebbe trascinare con sé una mobilitazione popolare di ampia portata in Russia.
Chi legge la storia solo in termini di geopolitica, dai liberali di Limes agli ambienti campisti di estrazione staliniana, ignora la stessa categoria di una possibile rivoluzione russa. Tutto si ridurrebbe al bivio tra Putin e la NATO, il resto è chiacchiera. Fortunatamente la storia reale è più creativa di questo schemino. Nessun regime è per sempre. Può cadere per fratture interne, può cadere per effetto di una ribellione dal basso, può cadere per la combinazione di entrambi i fattori. La guerra, ogni guerra, espone il regime che la promuove a una prova cruciale, a maggior ragione un regime bonapartista. Una vittoria lo consolida, una sconfitta può trascinarlo in rovina e persino aprire la via a una rivoluzione. La sconfitta militare della Russia prima nel 1905, poi nel 1917, minò il regime zarista, e innescò grandi crisi rivoluzionarie. Una sconfitta del regime putiniano in Ucraina potrebbe aprire il varco ad una crisi rivoluzionaria in Russia, con effetti enormi sulla lotta di classe internazionale.
Il Revolyutsionnaya Rabochaya Partiya (Partito Operaio Rivoluzionario), con cui il PCL è in rapporto, si batte coraggiosamente per questa prospettiva. Mentre il PC staliniano di Zuganov si schiera col regime putiniano votando i crediti di guerra, il RPR si è schierato da subito contro il proprio imperialismo e la sua guerra, in coerenza con la tradizione leninista. Si tratta della principale organizzazione trotskista in Russia, una delle più consistenti formazioni dell'estrema sinistra presente nel paese. Noi che ci battiamo contro ogni imperialismo a partire dal nostro, salutiamo l'intervento rivoluzionario dei nostri compagni russi contro la guerra del proprio imperialismo. È un augurio per la rifondazione dell'internazionale rivoluzionaria, che i venti di guerra rendono più necessaria che mai.
“Se vuoi la pace prepara la rivoluzione” è la parola d'ordine con cui partecipiamo alle manifestazioni pacifiste e contro la guerra, un anno fa come oggi. Il capitalismo porta la guerra come le nubi portano la pioggia, scriveva Jean Jaurès. Solo il rovesciamento del capitalismo e dell'imperialismo, solo una rivoluzione socialista, in ogni paese e su scala mondiale, può liberare l'umanità dalle guerre. Il pacifismo, anche quello più onesto, è incapace di comprenderlo. I marxisti rivoluzionari hanno il dovere di ricordarlo sempre, contro tutti gli imperialismi e su i tutti i fronti di guerra.
Marco Ferrando
Il nuovo governo arcireazionario di Netanyahu
“L'unica democrazia del Medio Oriente”: così i borghesi liberali di ogni conio e tutti gli stati imperialisti sono soliti chiamare lo stato d'Israele. Una spudorata menzogna, parlando di uno Stato coloniale nato manu militari dalla cacciata dei palestinesi e dall'impedimento del loro ritorno. Ma ora la menzogna diventa impresentabile di fronte al nuovo governo Netanyahu, il governo più reazionario che lo Stato sionista abbia mai avuto.
Il nuovo governo coinvolge al proprio interno tutti i partiti ultraortodossi di ertrema destra. Sia quelli nazionalreligiosi di Potere Ebraico (Ben-Gvir) e del Partito Sionista Religioso (Bezalel Smotrich), sia quelli per così dire “etnici” dello Shas sefardita (Aryeh Deri) e degli askenaziti di Torah Unita. I nazionalisti rivendicano la millenaria Torah come fonte di legge per il XXI secolo. Gli “etnici” chiedono il riconoscimento formale delle proprie regole immutate nel corpo legislativo dello Stato. Uno Stato che peraltro già nel 2018 si è codificato come «Stato dei soli ebrei».
“Una metà della Nazione studierà la Torah, l'altra metà servirà nell'esercito”, ha dichiarato un deputato della nuova maggioranza di governo. Una sintesi programmatica compiuta di confessionalismo e militarismo, di sacerdoti e di guerrieri. E anche una divisione dei ruoli: i militari difenderanno il privilegio di chi può limitarsi alla preghiera senza prestare servizio e senza pagare le tasse. Già oggi peraltro gli israeliani laici pagano il 90% delle tasse del paese, gli haredim il 2%.
Cosa significhi tutto questo è scritto nero su bianco nella dichiarazione programmatica del nuovo governo: «Il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e indiscutibile su tutte le Terre d'Israele». Il governo «promuoverà e svilupperà gli insediamenti in ogni parte della Terra d'Israele». Il riferimento ovviamente è ai territori palestinesi occupati. Il programma del nuovo governo è dunque dichiaratamente un programma di guerra contro la popolazione araba. Quella dei territori, già privata dei più elementari diritti umani (terra, acqua, abitazioni, libertà), ma anche quella che vive entro le mura di Israele, oltre il 20% della popolazione del paese. Per tutti suona la campana della guerra.
Netanyahu, sotto processo per tre gravi casi di corruzione, ha visto nell'accordo con l'estrema destra un possibile salvacondotto, mentre Biden e Putin si sono affrettati a riconoscere il nuovo governo e a complimentarsi con Netanyahu. Nessuna meraviglia. La più grande potenza imperialista è da sempre il baluardo storico del sionismo. Il regime reazionario dell'imperialismo russo e il patriarca Kyrill trovano sintonia con il sionismo e cercano con questi buone relazioni.
Eppure secondo il New York Times il nuovo esecutivo di Gerusalemme è una minaccia significativa per il futuro d'Israele, alla sua direzione, alla sua sicurezza, e persino all'idea di una patria ebraica. È la riprova che gli ambienti più avveduti dell'imperialismo temono che il nuovo governo arcireazionario di Gerusalemme possa favorire il contraccolpo di una rivoluzione palestinese e araba. Ciò che rovinerebbe i piani dell'imperialismo USA in Medio Oriente.
Di certo tanto più ora la rivoluzione palestinese e araba è l'unica risposta vera alla reazione sionista. Le vecchie litanie su “due popoli, due Stati”, cari al liberalismo borghese progressista e alle sinistre riformiste di tutto il mondo, sono tanto più oggi carta straccia. Solo la resistenza palestinese può fronteggiare l'onda d'urto del nuovo governo israeliano. Solo la distruzione di uno Stato sionista che si regge sull'annientamento dei palestinesi può restituire loro terra e diritti. Solo una rivoluzione palestinese e araba può realizzare la prospettiva di una Palestina unita e indipendente, laica e socialista, che riconosca i diritti nazionali della minoranza ebraica, dentro una federazione socialista araba e del Medio Oriente.
Partito Comunista dei Lavoratori
La guerra di Israele
7 Febbraio 2023
I recenti fatti di Jenin dimostrano che il governo di estrema destra a guida Netanyahu è un atto di guerra dichiarata contro il popolo palestinese. Che tuttavia è privo più che mai di una direzione. La cosiddetta Autorità palestinese, da tempo incorporata all'occupazione sionista, è stata in larga parte esautorata dal nuovo corso di Netanyahu che ha dato mano libera ai coloni. La sua unica rivendicazione è quella di poter svolgere come in passato le proprie funzioni di polizia nei territori, a garanzia dell'ordine di Israele. Basti pensare che le ultime elezioni in Cisgiordania si sono tenute nel 2006. Hamas recita parole di fuoco contro il governo israeliano ma la sua vera preoccupazione è quella di mantenere il proprio controllo su Gaza su basi reazionarie e panislamiste. La retorica antisionista è solo copertura ideologica della propria autoconservazione.
Ma sotto la coltre dei vecchi apparati, la giovane generazione ribolle. In Cisgiordania vivono – si fa per dire – tre milioni di palestinesi. A Gaza due milioni. In Israele vivono due milioni di arabi su nove milioni di abitanti. A ciò si devono aggiungere i milioni di palestinesi della diaspora, quelli ammassati nella disperazione dei campi profughi di tutto il Medio Oriente. L'età media dei palestinesi è 21 anni, il 38% ha meno di 15 anni.
Questi dati descrivono l'enorme base di massa e il potenziale di energia di una rivoluzione palestinese. Senza direzione o con direzioni compromesse, la rabbia palestinese alimenta inevitabilmente il terrorismo contro i civili ebrei all'interno della stessa Israele. È la risposta impari e suicida al terrorismo sionista, quello dell'esercito e dei coloni, incomparabilmente superiore perché su basi di Stato. Il terrorismo disperato di un tredicenne non può nulla contro il terrorismo delle forze sioniste di occupazione. E finisce di fatto col rafforzarlo. E tuttavia rivela nel suo spontaneo primitivismo l'indisponibilità della giovane generazione palestinese a subire il tallone di ferro di Israele. Quando l'eroismo dei giovani palestinesi troverà una direzione politica rivoluzionaria, capace di unire gli oppressi e di dar loro un progetto, lo Stato sionista tremerà. E sarà l'inizio di una storia nuova in Medio Oriente.
L'illusione subalterna di “due popoli, due Stati”, nutrita per mezzo secolo dal riformismo internazionale, è ormai e da tempo definitivamente crollata. Solo la dissoluzione rivoluzionaria dello Stato sionista, solo una Palestina libera, laica, socialista, può garantire la pacifica convivenza della maggioranza araba e della minoranza ebraica. Una prospettiva inseparabile a sua volta dalla rivoluzione socialista nella regione araba e mediorientale.
Negli ultimi tredici anni grandi masse hanno preso la parola, in Tunisia, in Egitto, in Libia, in Siria, in Algeria, in Iraq, in Sudan e infine in Iran, dimostrando ovunque la propria forza e il proprio coraggio. Ma non hanno trovato una direzione all'altezza di quel coraggio. Da qui i ripetuti rovesci (Algeria, Iraq), la subordinazione a vecchie o nuove influenze imperialiste (Egitto, Libia, Siria), il tradimento delle speranze (Tunisia), la tenuta di tirannie dispotiche (Iran).
Non mancheranno nuove sollevazioni. Il problema centrale resta la loro direzione. Costruirla è il compito dei marxisti rivoluzionari, e non solo in Medio Oriente.
Partito Comunista dei Lavoratori
Cospito e Benetton, il mondo capovolto della società borghese
La società borghese, come diceva Marx, è un mondo capovolto che poggia sulla testa anziché sui piedi.
Il crollo del Ponte Morandi, dovuto al “risparmio” sulle manutenzioni, ha assassinato 46 persone. Eppure Benetton non solo non è in galera ma ha incassato 8 miliardi da Cassa Depositi e Prestiti, cioè dallo Stato, che ha generosamente acquistato le sue azioni. Alfredo Cospito non ha ammazzato nessuno, eppure, per volontà dello Stato, giace al 41 bis senza poter appendere al muro della cella la foto dei propri cari.
Rovesciare l'ordine esistente, rimettere il mondo sui propri piedi, è l'unico modo di fare giustizia.
Solo una rivoluzione può cambiare le cose.
Partito Comunista dei Lavoratori
USA: nel 2022 gli omicidi della polizia sono aumentati, e i neri sono il principale obiettivo
Pubblichiamo un articolo di Malik Miah, marxista e attivista dei diritti civili negli Stati Uniti da oltre cinquant'anni.
I neri costituiscono il 13% della popolazione degli Stati Uniti, ma rappresentano il 24% delle persone uccise dalla polizia.
Più di 1176 persone sono state uccise dalla polizia nel 2022, in aumento rispetto all'anno precedente, rendendolo «l'anno più letale per la violenza della polizia da quando gli esperti hanno iniziato a monitorare le uccisioni», ha scritto Sam Levin del Guardian. Eppure è raro che qualche poliziotto venga sanzionato o perseguito.
La classe dominante vede la polizia (sia essa federale, statale, di contea e municipale) come centrale per l'oppressione nazionale degli afroamericani e il supersfruttamento della classe operaia.
«La polizia in tutto il Paese ha ucciso in media più di tre persone al giorno, o quasi cento persone al mese lo scorso anno», ha scritto Levin. Le cifre provengono dal gruppo di ricerca non profit Mapping Police Violence (MPV), che gestisce un database di morti avvenute ad opera della polizia, tra cui sparatorie mortali, pestaggi, uso di taser e contenzioni fisiche.
Il governo non raccoglie tali dati a causa dell'opposizione della lobby pro-armi. L'FBI ha creato il suo database sulla violenza della polizia solo nel 2019 e collabora con circa 18.000 enti di polizia locali e statali. Il Congresso si è opposto all'obbligo di raccolta dei dati.
«La pubblicazione dei dati arriva due anni dopo che l'omicidio di George Floyd ha scatenato rivolte nazionali che chiedono giustizia razziale, riduzione dei finanziamenti e delle dimensioni delle forze di polizia, e che la polizia risponda delle sue azioni», ha scritto Levin.
«Nonostante l'attenzione internazionale e alcuni sforzi locali per ridurre la brutalità della polizia, si è intensificata la reazione contraria alla riforma della giustizia penale e il numero complessivo di omicidi è rimasto allarmantemente alto».
In effetti, anche le più modeste riforme della polizia sono state annullate o bloccate, e il Congresso e l'amministrazione del presidente Joe Biden hanno spinto per maggiori finanziamenti ai dipartimenti di polizia e si sono opposti agli sforzi del movimento popolare indipendente che cercava cambiamenti più radicali.
Levin ha parlato con Bianca Austin, zia di Breonna Taylor, la cui uccisione nel marzo 2020 in Kentucky ha scatenato le prime proteste di massa. "Non si ferma mai", ha detto Austin. "C'è stato un movimento e una sollevazione in tutto il mondo, e continuiamo ad avere altri omicidi? Dov'è che sbagliamo? È così scoraggiante".
Ci sono circostanze sempre uguali che precedono le uccisioni da parte della polizia, e i poliziotti sono protetti dall'azione penale perché dichiarano di aver temuto per la propria vita in quel preciso momento.
Samuel Sinyangwe, esperto di dati e analista politico che ha fondato l'MPV, ha dichiarato a Levin: "Si tratta di semplici azioni di routine della polizia che poi sfociano in omicidi... Ciò che è evidente è che questa dinamica continua a peggiorare e che è profondamente sistemica".
Sinyangwe ha detto che nel 32% dei casi raccolti dal MPV l'anno scorso, "la persona stava fuggendo prima di essere uccisa, generalmente correndo o guidando", cioè in quei momenti in cui, secondo gli esperti, "la forza letale è ingiustificata" e "mette in pericolo i cittadini".
"A giugno, agenti di polizia dell'Ohio hanno sparato decine di colpi contro Jayland Walker, che era disarmato e in fuga. Un mese dopo, un agente in California è uscito da un'auto civetta e ha immediatamente sparato contro Robert Adams, che correva nella direzione opposta", ha detto Sinyangwe.
IL RAZZISMO ALLA RADICE DELLA POLIZIA
"Tra il 2013 e il 2022, i cittadini di colore hanno avuto tre volte più probabilità di essere uccisi dalla polizia statunitense rispetto ai bianchi", ha dichiarato Sinyangwe.
MPV ha documentato che in alcune città, tra cui Minneapolis (dove è stato assassinato George Floyd), la polizia ha ucciso abitanti di colore a un tasso 28 volte superiore rispetto agli abitanti bianchi. A Chicago, il tasso era 25 volte superiore.
"La capacità della polizia di essere giudice, giuria e boia ha subìto un'involuzione. Non importa quanto insistiamo sul fatto che sia sbagliato, la società permette che tutto ciò avvenga", ha detto Jacob Blake, il cui figlio è stato colpito e paralizzato dalla polizia a Kenosha, nel Wisconsin, nel 2020.
Sinyangwe ha affermato che a contribuire all'aumento della violenza della polizia sono le crescenti collaborazioni tra sceriffi e altri organi di polizia, i cui agenti eseguono mandati di perquisizione o inseguimenti che possono causare la morte. Gli uffici degli sceriffi sono anche particolarmente politicizzati durante le elezioni (negli Stati Uniti quella di sceriffo è di solito una carica elettiva, NdT), con una competizione per essere più "duri contro il crimine", che si traduce in dipartimenti sempre più violenti.
La dottoressa Elizabeth Jordie Davies, studiosa della Johns Hopkins University ed esperta di movimenti sociali, ha detto a Levin che il numero costantemente alto di uccisioni da parte della polizia, anno dopo anno, rende evidente che è necessario un ampio cambiamento di sistema per prevenirle.
"In questo Paese c'è un impegno continuo a usare la violenza per controllare le persone e gestire i problemi", ha detto. "E se continuiamo a dare alla polizia più soldi e potere, continueremo a vedere sempre più violenze di polizia".
Il rapporto dell'MPV riguarda solo l'anno scorso. Quest'anno si stanno verificano quotidianamente nuove uccisioni. I video registrati dai passanti e resi pubblici continuano a scatenare ampie e immediate proteste e richieste di giustizia.
L'UCCISIONE DI UN INSEGNANTE NERO
Ad esempio, il 3 gennaio la polizia di Los Angeles ha ucciso Keenan Anderson, 31 anni, ad un posto di blocco. Dopo l'incontro fatale dell'insegnante di colore con i poliziotti, si è scatenata una protesta da parte degli attivisti e della sua famiglia.
La rivista Rolling Stone il 13 gennaio ha raccontato così il caso: «All'inizio di questa settimana, la polizia di Los Angeles ha reso pubbliche le riprese delle body cam degli agenti, estratte da un video informativo sull'incidente. Il filmato mostrava Anderson che implorava aiuto mentre diversi agenti lo tenevano fermo cercando di immobilizzarlo. A un certo punto, Anderson ha gridato: "Stanno cercando di rendermi George Floyd". Mentre Anderson giaceva sul marciapiede, un agente sembrava tenere il gomito sul collo di Anderson. Un altro agente lo stava colpendo più volte con il taser, a volte per diversi secondi alla volta».
Rolling Stone ha riferito che la cofondatrice di Black Lives Matter, Patrisse Cullors (cugina di Anderson), ha dichiarato al Guardian che la morte di Anderson poteva essere evitata. "È stato un incidente stradale. Invece di trattarlo come un potenziale criminale, la polizia avrebbe dovuto chiamare l'ambulanza", ha detto Cullors.
"Se ci fosse stata una prassi che prevedeva, nei casi di incidenti stradali, l'intervento di professionisti disarmati che si recano sul posto semplicemente per aiutare, si sarebbe evitata la morte di mio cugino. E si sarebbero evitate tante altre morti".
Martin Luther King, uno dei più grandi leader afroamericani di tutti i tempi – e l'unico nero cui sia stata dedicata una data di festività civile, il giorno del suo compleanno, il 15 gennaio – si oppose alla violenza della polizia nel Sud della segregazione e nel Nord.
In una parte meno nota del suo famoso discorso "I Have A Dream" della Marcia su Washington del 1963, King disse: "Non potremo mai essere soddisfatti finché i neri continueranno ad essere vittime degli indescrivibili orrori della brutalità poliziesca."
Finché l'istituzione monopolistica della polizia esisterà e sarà sostenuta da entrambi i partiti principali, le uccisioni da parte della polizia continueranno. Ci è voluto un movimento di massa per i diritti civili per porre fine alla segregazione legale. Ci vorrà la stessa cosa per abolire la polizia e questo corrotto sistema di "giustizia".
Malik Miah
Cento giorni di Meloni, cento giorni senza opposizione
Per una svolta di lotta unificante, che porti in Italia il vento di Francia e Gran Bretagna
La stampa borghese commenta positivamente i primi cento giorni del governo Meloni.
La borghesia liberale ha fatto un'apertura di credito al nuovo governo a guida postfascista. Laddove sottolinea l'incoerenza tra promesse elettorali e misure realizzate, lo fa proprio per plaudere a tali misure, come nel caso della sobrietà dei conti pubblici, cioè delle politiche di austerità (Corriere della Sera). Laddove critica questa o quell'altra misura (condoni, decreto pasticciato sui rave party, innalzamento del tetto al contante) lo fa per invocare l'interesse generale di sistema al di sopra di quello delle lobby (la Repubblica).
L'unica vera preoccupazione del grande capitale non riguarda la politica del governo, ma la sua tenuta. Gli interrogativi sulla soppressione del reddito di cittadinanza (peraltro richiesta da Confindustria) o sui progetti di autonomia differenziata (peraltro graditi alla piccola e media borghesia del Nord) guardano al rischio di linee di frattura sul fronte sociale e dell'unità amministrativa dello Stato. Ma l'apertura della borghesia liberale alla riforma istituzionale presidenzialista è ormai pubblica, pur dissertando se sia preferibile l'elezione diretta del Presidente della Repubblica o quella del Presidente del Consiglio. Ciò che non è in discussione è il rafforzamento ulteriore dell'esecutivo a scapito del Parlamento e nel nome della stabilità.
Quanto alla politica estera il plauso al governo è corale. Non riguarda solo o principalmente il sostegno all'Ucraina, su cui anzi si aprono crepe o preoccupate riserve, come mostra la Stampa di Giannini, ma l'aumento programmato della spesa militare e soprattutto la proiezione dell'imperialismo italiano sul Mediterraneo (Algeria, Libia, Egitto) col patrocinio indiretto dell'imperialismo USA e in concorrenza con Francia, Turchia, Russia. È la partita dell'ENI e dei migranti sulla frontiera esterna della UE. Il giornale Repubblica è giunto a chiedere a Giorgia Meloni di costituire un proprio comitato di sicurezza nazionale politico militare capace di fronteggiare le nuove emergenze energetiche e di guerra. Un neocolonialismo tricolore.
Naturalmente non mancano nel governo e nella maggioranza su cui si regge conflitti sotterranei, tensioni malcelate, ruggini e rancori di diverso peso. Ma non sono tali da impensierire a oggi la tenuta dell'esecutivo.
Quanto alle “opposizioni” borghesi liberali o liberalprogressiste presenti in Parlamento, sono o avvitate nella propria crisi esistenziale (PD) o impegnate nella difesa del proprio spazio (M5S) o votate al mercanteggiamento aperto con l'esecutivo (Azione e Italia Viva). In ogni caso, non rappresentano alcun problema per Giorgia Meloni. Che anzi fa della manifesta impotenza delle opposizioni, o del loro fallimento, un pezzo centrale della propria retorica. Del resto quale reale opposizione potrebbero fare PD e M5S quando hanno governato per tutta l'ultima legislatura nei governi di ogni colore (M5S) o in larga parte dell'ultimo decennio (PD)?
Ciò che resta clamorosamente vuoto è il campo dell'opposizione sociale. Tutto si può dire tranne che siano mancati in questi cento giorni motivi di contrasto e di mobilitazione. Il governo ha cancellato il reddito di 700.000 “occupabili” a partire dal prossimo agosto a fronte dell'enorme espansione della povertà nell'ultimo triennio; ha programmato il taglio di quasi 30 miliardi di spesa pubblica nei prossimi anni per ridurre il deficit pubblico, con pesanti conseguenze sulla sanità e sulla scuola; ha annunciato la soppressione totale dell'IRAP, con un nuovo colpo inevitabile alla sanità pubblica; ha dato la flat tax al 15% alle partite IVA sino agli 85.000 euro di reddito, con un'ulteriore provocazione verso il lavoro dipendente che regge sulla propria schiena la quasi totalità del carico fiscale; non ha stanziato un euro sul finanziamento dei contratti pubblici fra il 2022 e il 2024 con un nuovo colpo al potere d'acquisto di milioni di lavoratori; ha riproposto le accise sulla benzina in spregio a ogni promessa, con effetti moltiplicatori sull'inflazione e sui salari; ha reintrodotto i famigerati voucher e soppresso ogni limite all'uso dei contratti a termine, nel segno di un ulteriore allargamento del precariato; ha annunciato stipendi differenziati per gli insegnanti tra Nord e Sud, tra regioni ricche e povere, assieme all'ulteriore ingresso dei privati nella scuola; programma con l'autonomia differenziata un nuovo colpo al Meridione d'Italia e alla popolazione povera del paese; infine aumenta la spesa militare in direzione del 2% del PIL partecipando a pieno titolo alla nuova corsa agli armamenti che attraversa il mondo.
C'era bisogno di altro per mettere in piedi una risposta di massa, tanto radicale quanto lo è la politica governativa? Tanto più che in questo caso non esiste l'alibi truffaldino del cosiddetto governo progressista verso cui avere un'attenzione – suicida – di riguardo. C'è un governo a guida postfascista, il più a destra dell'Italia del dopoguerra.
Eppure il nulla. Tutto prosegue nella più grigia delle routine. Le burocrazie di CGIL e UIL fanno uno sciopericchio pro forma in ordine sparso senza una sola rivendicazione riconoscibile (16 dicembre). I sindacati di base fanno la propria azione di sciopero rituale di calendario (2 dicembre) per coprire il proprio spazio. Le sinistre politiche riformiste benedicono passivamente gli uni e gli altri, senza lo straccio di una proposta. Tutto, insomma, resta com'era. Lo stesso livello di partecipazione a questi scioperi simbolici misura la loro bassa credibilità presso la classe dei salariati.
C'è bisogno invece di uscire dalla routine. Di lavorare realmente a una mobilitazione vera capace di motivare milioni di salariati. Di far emergere una piattaforma di rivendicazioni unificanti in cui la classe operaia si possa riconoscere, a partire dalla richiesta di forti aumenti salariali di almeno trecento euro netti e di una scala mobile dei salari. Di convocare un'assemblea nazionale di delegati intercategoriale che possa aprire una vertenza generale, decidere la piattaforma della lotta, promuovere una mobilitazione che la supporti. Sono le parole d'ordine che il nostro partito sta portando in ogni sede, in ogni sindacato di classe, in ogni assemblea di lavoratori.
Si guardi a ciò che accade altrove. In Gran Bretagna è in corso la più grande ondata di scioperi per forti aumenti salariali dai tempi di Margaret Thatcher. In Francia si è aperto uno scontro sociale centrale contro l'innalzamento dell'età pensionabile a 64 anni con una dinamica di scioperi che sta investendo l'intero paese. E in Italia? Forse il governo a guida postfascista merita un trattamento migliore di quello riservato a Sunak e a Macron?
È l'ora di una svolta. Tutte le avanguardie di classe, ovunque collocate sindacalmente, debbono unire la propria azione in questa direzione. Per portare nelle grandi masse del lavoro salariato il vento che si è levato in Europa. Finalmente.