Per una svolta di lotta unificante, che porti in Italia il vento di Francia e Gran Bretagna
La stampa borghese commenta positivamente i primi cento giorni del governo Meloni.
La borghesia liberale ha fatto un'apertura di credito al nuovo governo a guida postfascista. Laddove sottolinea l'incoerenza tra promesse elettorali e misure realizzate, lo fa proprio per plaudere a tali misure, come nel caso della sobrietà dei conti pubblici, cioè delle politiche di austerità (Corriere della Sera). Laddove critica questa o quell'altra misura (condoni, decreto pasticciato sui rave party, innalzamento del tetto al contante) lo fa per invocare l'interesse generale di sistema al di sopra di quello delle lobby (la Repubblica).
L'unica vera preoccupazione del grande capitale non riguarda la politica del governo, ma la sua tenuta. Gli interrogativi sulla soppressione del reddito di cittadinanza (peraltro richiesta da Confindustria) o sui progetti di autonomia differenziata (peraltro graditi alla piccola e media borghesia del Nord) guardano al rischio di linee di frattura sul fronte sociale e dell'unità amministrativa dello Stato. Ma l'apertura della borghesia liberale alla riforma istituzionale presidenzialista è ormai pubblica, pur dissertando se sia preferibile l'elezione diretta del Presidente della Repubblica o quella del Presidente del Consiglio. Ciò che non è in discussione è il rafforzamento ulteriore dell'esecutivo a scapito del Parlamento e nel nome della stabilità.
Quanto alla politica estera il plauso al governo è corale. Non riguarda solo o principalmente il sostegno all'Ucraina, su cui anzi si aprono crepe o preoccupate riserve, come mostra la Stampa di Giannini, ma l'aumento programmato della spesa militare e soprattutto la proiezione dell'imperialismo italiano sul Mediterraneo (Algeria, Libia, Egitto) col patrocinio indiretto dell'imperialismo USA e in concorrenza con Francia, Turchia, Russia. È la partita dell'ENI e dei migranti sulla frontiera esterna della UE. Il giornale Repubblica è giunto a chiedere a Giorgia Meloni di costituire un proprio comitato di sicurezza nazionale politico militare capace di fronteggiare le nuove emergenze energetiche e di guerra. Un neocolonialismo tricolore.
Naturalmente non mancano nel governo e nella maggioranza su cui si regge conflitti sotterranei, tensioni malcelate, ruggini e rancori di diverso peso. Ma non sono tali da impensierire a oggi la tenuta dell'esecutivo.
Quanto alle “opposizioni” borghesi liberali o liberalprogressiste presenti in Parlamento, sono o avvitate nella propria crisi esistenziale (PD) o impegnate nella difesa del proprio spazio (M5S) o votate al mercanteggiamento aperto con l'esecutivo (Azione e Italia Viva). In ogni caso, non rappresentano alcun problema per Giorgia Meloni. Che anzi fa della manifesta impotenza delle opposizioni, o del loro fallimento, un pezzo centrale della propria retorica. Del resto quale reale opposizione potrebbero fare PD e M5S quando hanno governato per tutta l'ultima legislatura nei governi di ogni colore (M5S) o in larga parte dell'ultimo decennio (PD)?
Ciò che resta clamorosamente vuoto è il campo dell'opposizione sociale. Tutto si può dire tranne che siano mancati in questi cento giorni motivi di contrasto e di mobilitazione. Il governo ha cancellato il reddito di 700.000 “occupabili” a partire dal prossimo agosto a fronte dell'enorme espansione della povertà nell'ultimo triennio; ha programmato il taglio di quasi 30 miliardi di spesa pubblica nei prossimi anni per ridurre il deficit pubblico, con pesanti conseguenze sulla sanità e sulla scuola; ha annunciato la soppressione totale dell'IRAP, con un nuovo colpo inevitabile alla sanità pubblica; ha dato la flat tax al 15% alle partite IVA sino agli 85.000 euro di reddito, con un'ulteriore provocazione verso il lavoro dipendente che regge sulla propria schiena la quasi totalità del carico fiscale; non ha stanziato un euro sul finanziamento dei contratti pubblici fra il 2022 e il 2024 con un nuovo colpo al potere d'acquisto di milioni di lavoratori; ha riproposto le accise sulla benzina in spregio a ogni promessa, con effetti moltiplicatori sull'inflazione e sui salari; ha reintrodotto i famigerati voucher e soppresso ogni limite all'uso dei contratti a termine, nel segno di un ulteriore allargamento del precariato; ha annunciato stipendi differenziati per gli insegnanti tra Nord e Sud, tra regioni ricche e povere, assieme all'ulteriore ingresso dei privati nella scuola; programma con l'autonomia differenziata un nuovo colpo al Meridione d'Italia e alla popolazione povera del paese; infine aumenta la spesa militare in direzione del 2% del PIL partecipando a pieno titolo alla nuova corsa agli armamenti che attraversa il mondo.
C'era bisogno di altro per mettere in piedi una risposta di massa, tanto radicale quanto lo è la politica governativa? Tanto più che in questo caso non esiste l'alibi truffaldino del cosiddetto governo progressista verso cui avere un'attenzione – suicida – di riguardo. C'è un governo a guida postfascista, il più a destra dell'Italia del dopoguerra.
Eppure il nulla. Tutto prosegue nella più grigia delle routine. Le burocrazie di CGIL e UIL fanno uno sciopericchio pro forma in ordine sparso senza una sola rivendicazione riconoscibile (16 dicembre). I sindacati di base fanno la propria azione di sciopero rituale di calendario (2 dicembre) per coprire il proprio spazio. Le sinistre politiche riformiste benedicono passivamente gli uni e gli altri, senza lo straccio di una proposta. Tutto, insomma, resta com'era. Lo stesso livello di partecipazione a questi scioperi simbolici misura la loro bassa credibilità presso la classe dei salariati.
C'è bisogno invece di uscire dalla routine. Di lavorare realmente a una mobilitazione vera capace di motivare milioni di salariati. Di far emergere una piattaforma di rivendicazioni unificanti in cui la classe operaia si possa riconoscere, a partire dalla richiesta di forti aumenti salariali di almeno trecento euro netti e di una scala mobile dei salari. Di convocare un'assemblea nazionale di delegati intercategoriale che possa aprire una vertenza generale, decidere la piattaforma della lotta, promuovere una mobilitazione che la supporti. Sono le parole d'ordine che il nostro partito sta portando in ogni sede, in ogni sindacato di classe, in ogni assemblea di lavoratori.
Si guardi a ciò che accade altrove. In Gran Bretagna è in corso la più grande ondata di scioperi per forti aumenti salariali dai tempi di Margaret Thatcher. In Francia si è aperto uno scontro sociale centrale contro l'innalzamento dell'età pensionabile a 64 anni con una dinamica di scioperi che sta investendo l'intero paese. E in Italia? Forse il governo a guida postfascista merita un trattamento migliore di quello riservato a Sunak e a Macron?
È l'ora di una svolta. Tutte le avanguardie di classe, ovunque collocate sindacalmente, debbono unire la propria azione in questa direzione. Per portare nelle grandi masse del lavoro salariato il vento che si è levato in Europa. Finalmente.