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Solidarietà ai lavoratori aggrediti da una banda fascista

Il Partito Comunista dei Lavoratori esprime tutta la propria solidarietà ai lavoratori della SDA di Carpiano (Mi) che durante un picchetto del SI.Cobas sono stati aggrediti da una squadraccia fascista e padronale. Siamo vicini ai compagni feriti, a cui auguriamo una pronta guarigione.
Il fatto in sé è gravissimo: una banda fascista di padroncini collegati a SDA, alcuni addirittura in tuta da lavoro con il logo dell'azienda come riportato dalla stampa, ha aggredito gli scioperanti che da alcuni giorni bloccano l'hub SDA di Carpiano nella zona sud-est di Milano, esibendo tra l'altro immagini di Benito Mussolini.
Tutto ciò non deve finire nel dimenticatoio o essere vissuto come un fatto di cronaca isolato, proprio mentre fascisti e nazisti in Italia, e non solo, rialzano la testa contro i lavoratori, in particolar modo contro il proletariato migrante.
Nell'autodifesa e nelle lotte sindacali deve essere perseguita la massima unità.
Per quel che concerne il sindacalismo di base assume una sua importanza lo sciopero del prossimo 27 ottobre, che il PCL sostiene.
Parallelamente il PCL continuerà a battersi per una svolta complessiva, unitaria e radicale, del movimento operaio nella prospettiva di uno sciopero generale di massa attorno ad un programma di lotta unificante, condizione decisiva per alzare un argine contro la reazione e aprire il varco di una alternativa di classe.

Partito Comunista dei Lavoratori

Per una alternativa di classe anticapitalista e socialista

Testo del volantino del PCL per il corteo contro il G7 di Torino

28 Settembre 2017
 Il G7 di Torino annuncia la retorica di un nuovo Rinascimento quale frutto della cosiddetta quarta rivoluzione industriale. L'incontro di robotica e informatica sarebbe garante della nuova era, nel nome dell'interesse generale, al di sopra delle classi e dei loro conflitti. Tutte le culture dominanti recitano questo rosario. Dal ministro Calenda al populismo reazionario grillino, che addirittura assume le nuove tecnologie come proprio marchio ideologico.

Ipocrisia pura. Una truffa per i lavoratori.


LA TRUFFA DEL “RINASCIMENTO” TECNOLOGICO

Il capitale in crisi cerca nelle nuove tecnologie un mercato di investimento e volano di rilancio. I nuovi giganteschi monopoli mondiali delle tecnologie informatiche - gli uni contro gli altri armati - e la loro proiezione massiccia nel campo dei servizi, della logistica, dell'industria (inclusa la nuova frontiera dell'auto elettrica) sono effetto e concausa di questa rincorsa. Ma non è la corsa del progresso. È la corsa di un nuovo attacco al lavoro salariato.

Le condizioni servili dei lavoratori salariati presso Amazon, Google, Facebook, con orari massacranti, assenza di diritti, vessazioni umilianti, sono l'immagine plastica di questa realtà. Come lo sono le condizioni di lavoro nella logistica: dove la concorrenza spietata per la spartizione del crescente mercato dell'e-commerce sospinge il peggiore banditismo antioperaio, mazzieri inclusi. Non sono un retaggio dell'arretratezza, sono le vesti della modernità del capitale.

Certo: robotica e informatica potrebbero liberare il lavoro dalla fatica, se poste in funzione di un'altra organizzazione della società, mirata alla soddisfazione dei bisogni. In una società capitalista mirata alla massimizzazione del profitto producono invece un effetto opposto: cancellano i posti di lavoro e moltiplicano la miseria.


NEL NOME DEL PROGRESSO UNA GREPPIA PER I CAPITALISTI

Non solo. Per finanziare gli investimenti tecnologici i capitalisti battono cassa presso i (propri) governi. Le nuove regalie di miliardi alle imprese italiane promesse dal ministro Calenda nella prossima legge di stabilità sono esemplari: super-ammortamenti, incentivi, riduzioni fiscali, a beneficio di grandi azionisti che negli anni di crisi han continuato a macinare profitti grazie al super sfruttamento del lavoro e alla speculazione finanziaria. Basta guardare al boom dei titoli azionari in Borsa.

Parallelamente, per finanziare la nuova greppia dei capitalisti, si mandano i lavoratori in pensione a 70 anni, e si tagliano gli ammortizzatori sociali. In Italia 170 aziende industriali, molte sopra i 500 dipendenti, minacciano di buttare sulla strada 200.000 lavoratori, senza più la rete di protezione di mobilità e cassa in deroga, proprio nel momento in cui intascano nel nome del progresso i miliardi promessi dal governo. Questa è la realtà del capitalismo, e non c'è rimedio.

Per di più, il mercato delle nuove tecnologie e le relative norme di regolazione, diventano terreno di scontro tra gli Stati capitalisti sul mercato mondiale, ognuno dei quali cerca di assoldare i propri salariati nella guerra patriottica contro i concorrenti. Stati Uniti e Cina si affrontano anche in questo campo senza risparmio di colpi. Gli imperialismi nazionali europei (Italia inclusa), stretti nella morsa di questi giganti, provano a reagire cercando un accordo continentale. Ma la UE resta percorsa da forti contrasti nazionali, instabilità politica, crisi manifesta dei vecchi equilibri finanziari (fiscal compact), difficoltà a individuarne di nuovi. Mentre il rilancio internazionale di protezionismi e nazionalismi apre nuove divisioni in Europa nel rapporto con USA e Cina.
Il G7 sarà solo il sipario pubblico di questo sgomitamento tra predoni sul mercato mondiale.


NÉ RIFORMISMO NÉ SOVRANISMO

È necessario costruire una alternativa a tutto questo. Senza illusioni riformiste, e senza mistificazioni sovraniste.

“Gli operai non hanno patria” vale oggi non meno che ai tempi di Marx. Operai italiani, francesi, inglesi, americani e cinesi non hanno nulla di nuovo da attendersi dai propri padroni. Hanno invece un interesse comune da difendere al di là delle frontiere. Due miliardi di salariati nel mondo (17 milioni in Italia) sono una forza enorme, la leva di un altro mondo possibile. Ma questa forza pesa se si trasforma in organizzazione e coscienza di sé, contro tutti i veleni ideologici del capitale (nazionalismo, xenofobia, interclassismo). L'arretramento della coscienza di classe è oggi profondo, per responsabilità preminente delle direzioni fallimentari della sinistra, sindacale e politica. Rimontare la china, ricostruire coscienza classista e anticapitalista, diventa un compito decisivo dell'avanguardia.


PER UN GOVERNO DEI LAVORATORI E DELLE LAVORATRICI

L'alternativa è anticapitalistica o non è. O rovescia la dittatura dei capitalisti, riorganizzando alla radice la società umana, in una prospettiva europea e mondiale, o si riduce a una truffa pietosa come quella di Tsipras e del governo portoghese (dove Partito Comunista Portoghese e Bloco de Izquierda capitolano a UE e NATO). Questa è la verità controcorrente da portare tra gli sfruttati: o una prospettiva di rivoluzione o la rassegnazione alla reazione.

Rovesciare la dittatura dei capitalisti significa affermare un governo dei lavoratori, basato sulla loro organizzazione e la loro forza. Solo la classe lavoratrice può imporre questo governo, l'unico capace di realizzare le misure straordinarie richieste dalla crisi sociale:

- La ripartizione generale del lavoro, con la riduzione progressiva dell'orario di lavoro a parità di paga (a partire dalle 30 ore settimanali)
- La cancellazione di tutte le leggi di precarizzazione del lavoro.
- Un grande piano di nuovo lavoro in opere sociali di pubblica utilità (a partire dal risanamento ambientale) pagato dalla tassazione progressiva di grandi profitti e patrimoni.
- L'abolizione del debito pubblico verso le banche, e la loro nazionalizzazione, senza indennizzo per i grandi azionisti.
- L'esproprio delle aziende che licenziano o violano i diritti sindacali, sotto il controllo dei lavoratori.

La lotta per queste misure può unificare milioni di lavoratori, privati e pubblici, italiani e immigrati, nel Nord e nel Sud, e attorno ad essi la maggioranza della società. A sua volta la lotta per queste misure è inseparabile dalla lotta per l'unico governo capace di realizzarle.

Si tratta di portare questa programma in ogni lotta, in ogni conflitto e resistenza sociale, unificando innanzitutto attorno ad esso tutte le avanguardie che lo condividono e vogliono battersi per sostenerlo.
È la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori.
Partito Comunista dei Lavoratori
 

Rilanciare il movimento studentesco

Testo del volantino nazionale a cura della Commissione studenti del partito

27 Settembre 2017
 Sono passati circa due anni da quando l'allora governo Renzi cambiava l'assetto fondamentale del mondo dell'istruzione con la riforma della "Buona Scuola".
Una riforma che puntava a tutelare gli interessi dei privati (imprese e banche) a scapito del diritto allo studio, ossia l'interesse pubblico, di tutti i giovani, di potersi formare per poter affrontare al meglio la propria vita (non solo, e non tanto, lavorativa).
Solo così si può definire una riforma che apriva i finanziamenti alla scuola ai privati (che in cambio possono e vogliono dei ritorni economici), che indirizzava maggiori finanziamenti alle scuole con miglior risultati (che lo sono perché già disponevano di maggior risorse), che dava pieni poteri di gestione (premi stipendio) e di assunzione ai presidi (a scapito dei lavoratori della scuola sempre più divisi e ricattabili) e, in ultimo, ma non per importanza, che obbligava gli studenti a lavorare gratis (liceali 200 ore, tecnici e professionali 400).


E il movimento studentesco?

Non c'è da stupirsi che il governo Renzi allora, e oggi il governo Gentiloni, facciano gli interessi della borghesia (industriali e banchieri), e non dell'immensa maggioranza della popolazione (lavoratori). Non è un caso che i partiti dominanti (PD, centrodestra e M5S) ricevano sistematicamente finanziamenti dalle grandi imprese, banche ed assicurazioni di questo paese. Come diceva un vecchio rivoluzionario tedesco (Marx): "I governi sono i comitati d'affari della borghesia"; per questo se il governo distrugge il diritto allo studio per difendere gli interessi privati (essenzialmente i profitti) della borghesia non c'è nulla di nuovo sotto al sole.
Il punto, però, è che se il governo ha fatto al meglio gli interessi di chi rappresenta (borghesia), il movimento studentesco (che dovrebbe rappresentare gli interessi degli studenti) non ha fatto altrettanto. Perché la riforma poteva essere fermata: più volte nella storia (anche di questo paese) il movimento studentesco ha ottenuto grandi conquiste attraverso la lotta contro i governi, e questo grazie alla lotta radicale e di massa, fatta di assemblee, occupazioni e manifestazioni. Nulla di tutto questo è stato fatto, o per lo meno provato, in questi ultimi anni in Italia. Non per colpa del destino cinico e baro, ma per responsabilità della direzione del movimento studentesco, ossia di chi lo dirige a maggioranza: i centri sociali tra autonomi e Disobbedienti, e i sindacati studenteschi ultrariformisti (UDU-RdS e UdS).
Da una parte un settarismo che li porta a dividere sistematicamente le manifestazioni studentesche (magari per questioni di posizionamento) e a non intervenire nelle lotte e negli scioperi dei lavoratori (visto che "la classe operaia non esiste più", teoria di Toni Negri, massimo referente intellettuale dei centri sociali) congiunto ad un avventurismo che li porta a scontri mediatici con la polizia, a scapito di migliaia di giovani manifestanti impreparati di fronte alla risposta repressiva dello Stato. Dall'altra una forte impronta sindacalista, senza posizionamenti e prospettive politiche, congiunto ad un riformismo che ingabbia l'organizzazione a stare alla coda e al servizio delle classi dominanti.


Per una direzione marxista rivoluzionaria del movimento studentesco

Contro questa linea perdente bisogna lottare per una svolta nel movimento studentesco, a partire dalle manifestazioni studentesche di questo autunno. Per un movimento studentesco che lotti unitariamente (con manifestazioni unitarie) contro i governi nemici degli studenti e le loro politiche, che cerchi di arrivare alla maggioranza degli studenti (con assemblee negli istituti e nelle università) e che non sostituisca la lotta paziente, organizzata e di massa, con scontri mediatici inutili. Un movimento che sappia unire la propria lotta alla lotta del mondo del lavoro, dei lavoratori e dei disoccupati, per un cambio generale di questa società. Perché solo la rivoluzione cambia le cose. Organizzare attorno a questo programma tutti i giovani e gli studenti che lo condividono è la ragione del Partito Comunista dei Lavoratori.
PCL - Commissione studenti
 

Né riformismo né sovranismo. Per un cartello elettorale della sinistra classista

Le elezioni politiche si avvicinano. L'intero scenario politico è segnato da questa scadenza. Sullo sfondo, un negoziato infinito sulla legge elettorale dall'esito incerto, con ripetuti colpi di scena negli ultimi mesi. Ma soprattutto un clima segnato dalla concorrenza scoperta tra renzismo, salvinismo, grillismo, nel corteggiamento degli umori più reazionari, contro i migranti, contro il lavoro, contro i diritti democratici. I referendum autonomisti di Lombardia e Veneto si pongono nella scia di questa ventata reazionaria e le offrono ulteriore alimento. È il clima generale che oggi consente un rigurgito di organizzazioni fasciste e delle loro iniziative militanti.
L'elemento più preoccupante di questo scenario è l'assenza di una risposta di classe e di massa, per responsabilità preminenti delle direzioni del movimento operaio e della sinistra politica.
Sul terreno sindacale, le burocrazie dirigenti hanno rimosso dal campo ogni iniziativa di mobilitazione, persino di fronte alla totale chiusura del governo Gentiloni alle loro timide richieste sulle pensioni. Parallelamente un settore centrale della classe lavoratrice dell'industria è sotto attacco frontale (duecentomila posti di lavoro a rischio nelle 166 vertenze aperte al tavolo nazionale col governo), nel momento stesso del taglio degli ammortizzatori, senza che l'accoppiata Camusso-Landini avanzi una sola indicazione di lotta unificante, e un qualsivoglia contrasto reale.
Ma il punto non è solo l'assenza di mobilitazione. È l'assenza di un punto di vista di classe indipendente sulla politica italiana, e di una chiara prospettiva anticapitalista.


I CONTORCIMENTI DELLE SINISTRE RIFORMISTE

I gruppi dirigenti della sinistra riformista di provenienza Rifondazione - già responsabili del proprio tracollo a partire dalle proprie compromissioni di governo - hanno da tempo dissolto il (formale) riferimento di classe in una cultura civico-progressista. Tutta la loro politica ignora il tema stesso della ricomposizione del fronte di classe, dell'unificazione delle lotte, della risposta alla crisi capitalistica. Ruota invece attorno a un altro problema: come salvare o recuperare la presenza istituzionale del proprio ceto politico in disarmo. In altri termini, come sopravvivere al proprio fallimento. I loro infiniti contorcimenti su come presentarsi alle prossime elezioni riguardano esclusivamente questo aspetto.

Dal punto di vista programmatico generale non vi sono divergenze sostanziali nel campo riformista: il Partito della Rifondazione Comunista resta fedele a Tsipras (e al mito dell'”Europa sociale e democratica”), anche dopo la sua capitolazione alla troika, come tutti i partiti del Partito della Sinistra Europea, confermando la vocazione strategica al governo del capitalismo; Sinistra Italiana, che ha chiesto e ottenuto lo status di osservatore nel Partito della Sinistra Europea, non ha oggi un programma diverso da quello del PRC, ma solo una collaborazione più estesa col PD nelle amministrazioni locali, dove continua a cogestire tagli sociali e disastri ambientali. Entrambi, a fini elettorali, coltivano una relazione stretta col giro civico di Falcone e Montanari, nel nome della cittadinanza progressista.
Il vero contenzioso sta nelle relazioni con MDP e Pisapia. Ma anche qui non c'entrano questioni di principio - che i riformisti non conoscono - ma solo di calcolo. Con una soglia di sbarramento ipotizzata al 5% (come nell'intesa elettorale di luglio tra PD, Forza Italia, Lega e M5S, poi naufragata), tutta la sinistra riformista aveva siglato l'appello di Montanari e Falcone che rivendicava un'unica lista a sinistra, da Pisapia al PRC, passando per Bersani e D'Alema, con la benedizione del Manifesto. Con la soglia di sbarramento al 3% si riaprono i giochi: Sinistra Italiana preme su Bersani e D'Alema per fare lista insieme, come in Sicilia (anche perché Pisapia ha posto un veto nei confronti di SI); il PRC preme a sua volta su Sinistra Italiana perché rompa con Bersani e D'Alema e addivenga a una intesa “antiliberista”, salvo in Sicilia abbandonare in fretta la pregiudiziale anti-MDP e allinearsi a D'Alema in cerca di un seggio.

Mettiamola così: le soluzioni elettorali della sinistra riformista saranno la risulta del rapporto tra Pisapia e Bersani. Se il loro asse tiene, è probabile un accordo tra SI e PRC. Se il loro asse salta, è possibile una soluzione "siciliana", col PRC a rimorchio di un partito che sostiene Gentiloni.
Non è qui importante prevedere l'esito di questa partita contrattuale multipla. L'essenziale è il punto politico di fondo: ogni soluzione elettorale ipotizzata dai gruppi dirigenti delle sinistre riformiste, quale che sia la sua geometria finale, muove dalla assenza di una prospettiva anticapitalista e dalla rimozione del confine di classe elementare. Oltre il quale tutto diviene possibile, come sempre è accaduto, nell'eterno gioco della democrazia borghese. Di certo non è da quel versante che può emergere un punto di riferimento nuovo per l'avanguardia di classe, né in termini di programmi né in termini di indicazioni di lotta. Il fatto che SI e PRC coprano le burocrazie sindacali di Camusso e Landini è già di per sé indicativo.


LE RESPONSABILITÀ DELLE SINISTRE SOVRANISTE

Ma la sinistra riformista non è l'unica presenza a sinistra.
Con un ruolo minore è emerso in questi anni un polo “sovranista di sinistra”, come peraltro in forme diverse in diversi paesi europei. Questo polo gravita oggi in Italia attorno alla Rete dei Comunisti, al gruppo dirigente di USB, e a Giorgio Cremaschi, assieme a una galassia di soggetti minori (tutti aggregati nella Piattaforma Eurostop).
Il polo sovranista - di prevalente estrazione ideologica stalinista - ha cercato di capitalizzare a proprio vantaggio il fallimento annunciato del riformismo europeista (Tsipras), facendo dell'uscita dell'Italia dall'euro e dalla UE il proprio obiettivo centrale.
Al di là della sua presa in settori della classe lavoratrice, questa impostazione politica e programmatica dirotta su un falso obiettivo la ricerca dell'alternativa, e finisce con contribuire, in modo grave, al disorientamento dell'avanguardia di classe. Di più: finisce col subordinarla, al di là delle intenzioni, a pulsioni reazionarie di altre classi.

Dal punto di vista programmatico, l'impostazione sovranista ripropone, in forma diversa, l'utopia di un possibile compromesso “sociale e democratico” tra capitale e lavoro su scala nazionale. Dal socialismo in un solo paese al keynesismo in un solo paese. L'idea centrale è infatti quella per cui l'uscita dall'euro consentirebbe il recupero della "sovranità nazionale" e dei principi progressivi della Costituzione (borghese), una sorta di ritorno alla presunta età dell'oro della Prima Repubblica, dove “c'erano i diritti sociali” del lavoro. Questa visione riesce a sommare ingredienti ideologici diversi: la sostituzione della centralità di classe con la centralità della moneta, e dunque l'attribuzione della sovranità alla moneta e non alla classe sociale che la stampa; l'idealizzazione retrospettiva della Prima Repubblica borghese e del suo interclassismo "democratico e progressivo"; l'illusione che nel quadro della crisi capitalistica mondiale e degli attuali rapporti internazionali possa tornare l'epoca delle riforme sociali e democratiche... grazie all'uscita dalla UE e dall'euro. Come se l'aggressione del capitale non colpisse i lavoratori britannici o americani. Questa impostazione è nei fatti, al di là delle chiacchiere, l'accettazione del quadro capitalista.

Dal punto di vista politico è, se possibile, peggio. Il sovranismo nazionalista è da sempre un veleno per la classe lavoratrice. Lo è persino all'interno delle nazioni oppresse, dove al di là del pieno sostegno al diritto di autodeterminazione e alle rivendicazioni nazionali progressive, i comunisti sono chiamati a difendere l'autonomia della classe operaia dalla borghesia nazionalista. Ma tanto più lo è nei paesi imperialisti, e dunque in un paese imperialista come l'Italia, dove il sovranismo assume una valenza reazionaria. La presentazione dell'Italia come semicolonia della Germania, dalla quale difendere “la nostra sovranità”, è un falso grottesco. L'Italia è la seconda potenza industriale d'Europa, partecipa allo strozzinaggio della Grecia, contende alla Francia l'egemonia sul Nord Africa, condivide con la concorrente Germania la rapina imperialista nei Balcani. Il rapporto dell'Italia con la Germania è un rapporto negoziale tra paesi imperialisti. Promuovere manifestazioni sotto l'ambasciata tedesca per difendere la “sovranità dell'Italia” dalla Germania, come è accaduto a dicembre, è, di fatto, sciovinismo. E tanto più questa posizione è grave in un contesto internazionale segnato dal prepotente ritorno dei protezionismi e nazionalismi imperialisti, sullo sfondo di populismi xenofobi con base di massa. Non è un caso che i sovranisti di sinistra abbiano a lungo corteggiato il M5S, coprendo di fatto la sua natura reazionaria.

Il sovranismo a sinistra non solo è per noi inaccettabile, ma è una posizione da combattere apertamente, senza sconti o ammiccamenti. La scelta eventuale del campo sovranista di presentarsi in qualche forma alle elezioni è questione che non può riguardarci. Ci riguarda invece la nettezza di una demarcazione chiara anche su questo fronte, contro ogni equivoco e pasticcio.


PER UN CARTELLO ELETTORALE DELLA SINISTRA CLASSISTA, FUORI DA OGNI EQUIVOCO

L'esigenza che riteniamo centrale è marcare a sinistra la presenza di un punto di vista classista, anticapitalista, internazionalista. Chiaramente alternativo all'europeismo borghese della sinistra riformista così come al sovranismo nazionalista.

È essenziale assumere come riferimento la classe lavoratrice come unico possibile baricentro di un blocco sociale alternativo.
È essenziale avanzare una prospettiva anticapitalista, contro ogni riproposizione di illusioni riformiste, quale unica vera risposta alle esigenze di emancipazione e liberazione della classe lavoratrice e di tutti i settori oppressi.
È essenziale ricondurre a quella prospettiva tutte le indicazioni di lotta e di ricomposizione di una opposizione sociale e di massa, nella logica di costruzione di un ampio fronte unico di classe contro il padronato e le tre destre dominanti.
È essenziale promuovere una campagna internazionalista, che porti tra i lavoratori e nelle loro lotte l'interesse internazionale del movimento operaio, contro ogni forma di sciovinismo. A partire dalla contrapposizione all'imperialismo italiano, per la prospettiva di una Europa socialista.
L'insieme di questi elementi risponde alle necessità di riorganizzare una risposta di classe e sviluppare la coscienza degli sfruttati. Nessuno di essi è archiviabile o negoziabile con impostazioni riformiste e/o sovraniste.
Pensiamo che questo punto di vista possa e debba trovare una propria presenza nella prossima campagna elettorale.
Data la natura delle leggi elettorali esistenti, ed in particolare del numero ingente di firme richieste per la presentazione delle liste, questa presenza richiede la convergenza unitaria di forze diverse. Per questo abbiamo proposto a Sinistra Anticapitalista e a Sinistra Classe Rivoluzione - che si richiamano entrambe a una prospettiva rivoluzionaria - un cartello elettorale comune. Restiamo convinti dell'importanza di questo sbocco.

Tra il PCL, SA e SCR esistono certo differenze importanti che attengono a diversi aspetti politici, strategici e di progetto, aspetti che spiegano l'esistenza di formazioni diverse, di diversi percorsi, di diverse collocazioni internazionali. Aspetti su cui il PCL mantiene, com'è naturale, la propria autonomia di proposta, come la centralità della lotta per un governo dei lavoratori e della costruzione del partito rivoluzionario leninista.
Ma tra PCL, SA e SCR esiste anche un nucleo centrale di posizioni comuni sul riferimento di classe, la critica del riformismo, la critica del sovranismo. Un nucleo di posizioni - classiste, anticapitaliste, internazionaliste - la cui importanza è fortemente avvalorata dal contesto politico attuale, e che fonda non casualmente un comune fronte di lotta tra le tre organizzazioni sul terreno sindacale, nella contrapposizione alle burocrazie, e in altri ambiti di movimento. Sono le stesse posizioni che ci demarcano, insieme, da altri campi politici. Si tratta allora di valorizzarle in una campagna elettorale comune.

Un cartello elettorale delle tre formazioni, rispettoso della riconoscibilità di ciascuna, consentirebbe una campagna elettorale controcorrente a sinistra, capace di rappresentare un punto di riferimento importante per settori di avanguardia, anche al di là del bacino di riferimento delle tre organizzazioni, e in ogni caso un fattore prezioso per lo sviluppo della coscienza politica di settori di classe.
Una campagna elettorale comune delle tre organizzazioni sarebbe inoltre un'esperienza assai utile per consolidare e allargare il campo di lavoro comune sui diversi terreni di lotta e di movimento.

Per tutte queste ragioni vogliamo confidare che in tempi (necessariamente) brevi si possa concludere positivamente, nella chiarezza, la verifica in corso.

Partito Comunista dei Lavoratori

Sui referendum per l'autonomia in Lombardia e Veneto

Contro le consultazioni reazionarie di Maroni e Zaia

 

 I referendum del 22 ottobre in Lombardia e Veneto hanno carattere consultivo: chiedono un mandato negoziale verso il governo nazionale a favore di “una maggiore autonomia” regionale.

Il referendum del Veneto intendeva sottoporre a referendum cinque quesiti (tra cui il trattenimento in Veneto dell'80% delle tasse localmente riscosse) e in aggiunta uno specifico quesito sull'”indipendenza del Veneto”. Nel 2015 la Corte Costituzionale ha depennato quattro dei cinque quesiti, oltre a quello indipendentista, ammettendo esclusivamente il quesito più generico («vuoi che al Veneto siano attribuite ulteriori forme di autonomia?»). Zaia ha tuttavia dichiarato che, nel caso di una maggioranza di votanti sugli aventi diritto, lo Statuto regionale consente alla regione Veneto la definizione di un disegno di legge per l'autonomia.
Maroni ha un taglio più interno alla logica istituzionale di coalizione del centrodestra in vista delle imminenti elezioni regionali (non senza un elemento di contrappeso regionalista alla linea nazionalista di Salvini).
L'elemento comune è la volontà di rafforzare il potere dei "governatorati".


LA RINEGOZIAZIONE DELL'EQUILIBRIO DEI POTERI DOPO IL 4 DICEMBRE

Non siamo in presenza di una scelta secessionista. È indubbio che la frattura tra Nord e Sud si è ulteriormente approfondita negli anni della crisi, e che un settore di media borghesia del Nord-Est, molto integrato nel mercato tedesco, può essere attratto da una suggestione separatista. Ma questa è oggi un'opzione molto minoritaria nello stesso Veneto. Non ha sponde in Confindustria, impegnata sulla linea europeista, e difficilmente può aprirsi un varco nelle rappresentanze politiche del centrodestra, a fronte di una Lega che cerca lo sbarco al Sud, e di un Berlusconi che si fa garante della stabilità istituzionale presso la Merkel.

Al tempo stesso però non siamo in presenza di una pura operazione elettoralistica. Dopo il 4 dicembre, con la sconfitta del disegno centralistico-bonapartista del renzismo, si è aperta una fase di crisi istituzionale che investe anche l'equilibrio dei poteri. La riapertura di una questione federalistica è il contraccolpo del 4 dicembre. Il negoziato tra Lombardia/Veneto e governo nazionale si pone su questo sfondo.


CATALOGNA E “PADANIA”, REALTÀ E FINZIONE


Il contenuto politico e sociale dei due referendum è reazionario. Il tentativo di Maroni e Zaia di assimilarli al referendum della Catalogna è semplicemente patetico.

La Catalogna è una nazionalità reale, segnata da una riconoscibilità linguistica e culturale, storicamente oppressa dalla Spagna, al pari della nazione basca.
Il movimento indipendentista che la Catalogna esprime è un movimento democratico repubblicano contrapposto alla monarchia di Madrid, ha una radice profonda nella storia di Spagna, si intreccia con la grande rivoluzione spagnola del 1936, con l'opposizione democratica alla dittatura franchista, e oggi con tutte le principali battaglie di opposizione alle politiche dominanti. Si pensi all'enorme manifestazione di massa a Barcellona per i diritti dei migranti contro le politiche xenofobe, la più grande manifestazione sul tema in Europa.

La Lega di Salvini, Maroni e Zaia si colloca dalla parte opposta della barricata. È la rappresentanza di un settore centrale di piccola e media borghesia rapace del Nord d'Italia che, in blocco col grande capitale industriale e bancario, domina storicamente sul Meridione e sulla classe operaia. La trovata della inesistente Padania è la maschera farlocca di questa rapina.
In realtà la rivendicazione autonomista consiste nella pretesa del blocco dominante lombardo-veneto di accaparrarsi una buona fetta degli attuali residui fiscali (54 miliardi la Lombardia, 9 miliardi il Veneto) sottraendoli alle regioni più povere. Sono queste le risorse su cui Maroni e Zaia vorrebbero allungare le mani. Per favorire i cosiddetti cittadini lombardo-veneti, come recita la propaganda referendaria? No, per difendere gli interessi dei poteri forti del territorio: ridurre ulteriormente le tasse al proprio padronato, continuare a ingrassare le cliniche private, allargare i trasferimenti pubblici alle imprese locali, incrementare i propri pacchetti azionari nelle banche territoriali (truffaldine), ampliare il volume degli appalti per le grandi operazioni speculative, nutrire più in generale le proprie clientele. Il tutto continuando a colpire i servizi pubblici locali (si pensi ai tagli regionali sui trasporti) e a incrementare le imposte locali indirette.

Chi pagherebbe concretamente il conto di questa operazione “autonomista”? La classe lavoratrice, inclusi naturalmente i lavoratori lombardi e veneti. Attraverso nuovi carichi fiscali sui salari, nuovo taglio centrale dei trasferimenti ai comuni (compresi quelli lombardo-veneti), nuovi colpi a istruzione pubblica e sanità, difesa ancor più rigida della legge Fornero sulle pensioni... È questa la grande truffa del federalismo padano, già pagata dalla classe operaia negli anni 2000, e che oggi le viene rivenduta come nuova.


LA LEGA ARCHITRAVE DEL CAPITALISMO DEL NORD

Non solo. I referendum rivendicano maggiori poteri per le giunte regionali in fatto di politiche d'ordine. Cosa significa concretamente? Significa poter gestire con mano (ancor più) libera le politiche discriminatorie verso i migranti in fatto di rastrellamenti, segregazioni, respingimenti, per dirottare contro di loro la rabbia sociale. Significa poter approntare corpi regionali d'intervento per rendere immediatamente esecutivi sfratti e sgomberi di stabili occupati, a tutto vantaggio degli speculatori immobiliari e del valore di mercato delle loro proprietà. Significa garantire la... “sicurezza”: quella di chi ha tutto a spese di chi non ha nulla. Quando Salvini a Pontida ha rivendicato “mano libera per la polizia” ha alluso a questo.

Altro che forza di opposizione al sistema! La Lega è un architrave del sistema dominante della cosiddetta seconda Repubblica. È ininterrottamente, da un quarto di secolo ormai, il principale partito di governo delle due regioni del Nord che fanno da cuore pulsante del capitalismo italiano. È la forza politica egemone di un blocco sociale reazionario che subordina settori consistenti di proletariato (in particolare industriale) agli interessi dei suoi sfruttatori. I referendum di Zaia e Maroni vogliono rafforzare ricchezza e potere di questo blocco dominante, alimentando anche per via referendaria la ventata reazionaria più generale. Per di più con una sfrontata ipocrisia: la stessa Lega Nord che rispolvera la Padania contro “il ladrocinio” del Sud, nel Sud sventola oggi la bandiera nazionalista (e se serve persino neoborbonica) contro “i politici del Nord”. Il cinismo acchiappavoti di Matteo Salvini non conosce davvero alcun limite.


LA COMPLICITÀ DI PD E M5S. L'EVANESCENZA DELLE SINISTRE

Significativa è la collocazione verso i referendum delle diverse forze politiche.

Il PD nazionale tace, mentre decine di sindaci PD (Sala in testa) si schierano a favore dei referendum, e il presidente della regione Emilia Romagna (fedelissimo di Renzi) si posiziona in termini concorrenziali con un proprio progetto autonomistico.
Il M5S cavalca i referendum dentro la linea di competizione con la Lega, con la speranza di irrobustire le proprie radici nel Nord.
Le sinistre riformiste, polemiche coi referendum ma impacciate dalla propria cultura aclassista, sostengono per lo più una posizione astensionista, che però copre le più diverse politiche: o il disimpegno (“Il referendum è inutile e costoso, abbiamo altre cose a cui pensare”), o fumosi progetti alternativi (“Siamo per un vero federalismo democratico...”), oppure addirittura suggestioni nazionaliste di stampo sciovinista (“Le regioni del Nord vogliono andare con la Germania, contro la Germania difendiamo l'Italia”). Ci sono offerte, insomma, per tutti i palati, tranne che posizioni di classe.


CONTRO I REFERENDUM LEGHISTI, DALLA PARTE DEI LAVORATORI


È invece essenziale che contro il contenuto reazionario dei referendum lombardo-veneti si esprima una chiara opposizione del movimento operaio, con forme di mobilitazione attiva di tutta la sinistra politica, sindacale, associativa, di movimento. Con assemblee nei luoghi di lavoro, manifestazioni pubbliche, una campagna attiva controcorrente che chiarisca innanzitutto il punto essenziale: i referendum di Lombardia e Veneto sono contro l'intera classe operaia italiana e la popolazione povera. Mirano ad approfondire le divisioni tra gli sfruttati a esclusivo beneficio degli sfruttatori. Per questo vedono la larga convergenza, formale o informale, delle tre destre che oggi si contendono il governo del capitalismo italiano: salvinismo, grillismo, renzismo.

Contro le tre destre, anche sul terreno referendario, è necessario costruire il fronte unico della classe lavoratrice a partire dalla sua avanguardia e dalle sue organizzazioni. Per il rilancio di una vera opposizione di massa. Per un programma di lotta generale che unifichi i lavoratori del Nord e del Sud, privati e pubblici, italiani e immigrati, e attorno ad essi il blocco sociale di tutti gli oppressi, a partire dalla larga maggioranza dei giovani e delle donne.

Diciassette milioni di lavoratori salariati sono in Italia una forza enorme, la direzione naturale di una possibile maggioranza alternativa della società. Questa forza deve solo prender coscienza di sé, unire le proprie fila, organizzarsi. Le direzioni sindacali e politiche della sinistra, che hanno tradito la rappresentanza di questa classe, hanno perciò stesso consentito che essa divenisse terreno di pascolo per avventurieri e demagoghi di tutte le risme. Costruire un'altra direzione della classe lavoratrice è allora parte inseparabile, tanto più oggi, della battaglia contro la reazione.

Partito Comunista dei Lavoratori

«No pasaran!»

Per una egemonia di classe anticapitalistica nel movimento indipendentista di massa in Catalogna

 Il governo spagnolo del PP di Rajoy procede manu militari contro il diritto di autodeterminazione della Catalogna: incarcerazione di funzionari, sequestro poliziesco delle schede elettorali, minaccia di procedimento giudiziario sino all'arresto di «chiunque si renda complice di un referendum illegale». Una campagna repressiva frontale che giunge a ventilare l'applicazione dell'articolo 115 della Costituzione spagnola che prevede la possibile destituzione amministrativa di governi locali e regionali per mano del governo centrale. Questa campagna vede allineata la grande borghesia di Spagna, la monarchia, l'intero apparato repressivo dello Stato, l'alta magistratura, e tutti i tradizionali partiti di governo dell'imperialismo spagnolo. A partire dal PSOE, solidale col PP, e dalla grande stampa cosiddetta democratica e progressista, come El Pais che da settimane incalza Rajoy da destra, chiedendogli di passare a vie di fatto e di imporre il rispetto della legge.

Intanto le sinistre riformiste spagnole (Izquierda Unida e Podemos), prima contrarie al referendum catalano e ora solidali con la risposta di massa alla repressione, si aggrappano alla vana speranza di un "referendum concordato" tra Catalogna e Madrid. Nei fatti Pablo Iglesias cerca di salvare la propria prospettiva di governo dell'imperialismo spagnolo a braccetto col PSOE (col dissenso maggioritario di Podemos Catalano).

Qual è la natura sociale e politica dello scontro in atto in Spagna? La confusione regna sovrana nella stessa sinistra italiana, con Il Manifesto che scomunica le “due parti”, ed altri che giungono ad assimilare il referendum indipendentista catalano ai referendum reazionario di Maroni e Zaia per la maggiore autonomia della... Padania. Nulla di più falso e ridicolo.


LA NATURA DEL NAZIONALISMO CATALANO


Certo, nel movimento nazionalista catalano, come in ogni movimento nazionalista, sono coinvolti anche interessi borghesi. La Catalogna di oggi è una regione assai sviluppata dal punto di vista capitalistico (20% del PIL statale), ed è parte dell'imperialismo spagnolo. Un settore di questa borghesia vuole l'indipendenza per incassare a proprio vantaggio il residuo fiscale di 9 miliardi oggi versato a Madrid. Il principale partito di governo della Catalogna (Convergencia Democratica) è espressione di questi interessi. Al tempo stesso la borghesia catalana è divisa. La grande impresa catalana, che dirige la Confindustria regionale, è apertamente schierata al fianco di Madrid, contro l'indipendentismo, perché i suoi interessi sono strettamente intrecciati col mercato finanziario nazionale ed europeo.

A fronte di queste contraddizioni borghesi esiste un movimento popolare indipendentista con una larga base di massa e una robusta radice nella storia spagnola. A differenza della patacca padana, la Catalogna è una nazionalità reale, con una lingua e una cultura propria, al pari della nazione basca e della nazionalità galiziana. Se oggi non si può parlare della Catalogna come nazione socialmente oppressa, si può certo riconoscere l'oppressione politica che essa subisce da parte dello Stato spagnolo e del centralismo castigliano; una oppressione che nel corso della lunga dittatura franchista era giunta a punire con la galera l'uso stesso della lingua catalana persino in privato. Il movimento nazionalista catalano ha dunque assunto storicamente una valenza democratica e progressiva in contrapposizione a Madrid. Oggi rappresenta un movimento di massa repubblicano contro la monarchia di Spagna. Il sentimento collettivo che l'accompagna, la sua cultura di riferimento, il suo immaginario politico è di natura democratica. La più grande manifestazione di massa in Europa a difesa dei diritti dei migranti e per la loro accoglienza si è svolta non a caso alcuni mesi or sono proprio a Barcellona: la base di massa dell'indipendentismo catalano è largamente sovrapposta alla base di massa di quella manifestazione. Si tratta dunque di un fenomeno non solo diverso ma del tutto opposto al leghismo referendario del Nord Italia. Tanto più in queste ore, la drammatica stretta repressiva di Madrid, la sua volgarità poliziesca, i suoi metodi franchisti, esaltano il carattere democratico della mobilitazione in Catalogna.

Come marxisti rivoluzionari siamo dunque tanto più oggi per la difesa del diritto di autodeterminazione della Catalogna, che è il suo diritto alla separazione, contro la repressione del governo centrale. “No pasaran!” gridano per le strade di Barcellona decine di migliaia di manifestanti. Facciamo nostra questa parola d'ordine.


PER UNA EGEMONIA DI CLASSE ALTERNATIVA NELLA MOBILITAZIONE INDIPENDENTISTA

Al tempo stesso non siamo nazionalisti, neppure all'interno di una nazione oppressa. Difendiamo il diritto di autodeterminazione, sosteniamo oggi la rivendicazione dell'indipendenza catalana per il suo carattere progressivo, ma riconduciamo strettamente questa rivendicazione alla prospettiva classista e socialista, contro ogni forma di subordinazione del proletariato catalano alla borghesia catalana. Rivendichiamo una Catalogna socialista nella prospettiva degli Stati uniti socialisti d'Europa.

È questa una linea profondamente diversa da quella sostenuta dalla CUP catalana (in Italia, riferimento della Rete dei Comunisti). Questa organizzazione maoista di tipo centrista ha realizzato un blocco politico con la borghesia nazionalista di Catalogna, ed è infatti parte della maggioranza di governo regionale diretta da Convergencia. Non solo vota le leggi di bilancio del governo catalano, incluse le misure di austerità (come faceva Rifondazione Comunista nella maggioranza del primo governo Prodi), ma si subordina alla direzione borghese della battaglia indipendentista. Nei fatti realizza un fronte popolare con la borghesia catalana, sotto l'egemonia di quest'ultima. Il suo obiettivo è una Repubblica di Catalogna democratica a braccetto con i partiti borghesi entro cui difendere e far avanzare i diritti sociali. L'ennesima riproposizione di una soluzione riformista, rispettosa del capitalismo, e peraltro del tutto improbabile tanto in Catalogna quanto in Spagna. L'ennesima “tappa democratica” che nel nome della transizione al socialismo subordina la classe al capitale.

È una linea subalterna molto rischiosa per le stesse ragioni dell'indipendenza catalana. Fino a quando la borghesia catalana reggerà l'urto della repressione di Madrid? La base di massa popolare del movimento probabilmente si allargherà nella lotta contro la repressione del governo centrale e della monarchia. È la dinamica di queste ore. Ma fino a quando i partiti borghesi catalani, i loro dirigenti e alti funzionari, reggeranno la minaccia della galera, il sequestro dei patrimoni, le inchieste giudiziarie di massa, il congelamento dei conti bancari? La polizia catalana dei Mossos era stata presentata dai dirigenti borghesi indipendentisti, e dalla CUP a loro rimorchio, come scudo protettivo della Catalogna, eppure sta oggi partecipando alla repressione della Guardia Civil, o non la contrasta. È possibile che la pressione di massa produca fratture (salutari) tra i Mossos, ma affidare le sorti di una battaglia democratica alle forze di polizia di uno Stato borghese, fosse pure catalano, è un potenziale suicidio. Come oltretutto dimostra l'intera storia di Spagna.

Il compito dei marxisti rivoluzionari in Catalogna è esattamente opposto. È quello di battersi per una egemonia di classe anticapitalistica sul movimento di massa, in contrapposizione a Madrid e in alternativa alle forze borghesi catalane.

La parola d'ordine del momento deve essere più che mai quello della autorganizzazione di massa indipendente dei lavoratori e dei giovani catalani, in alleanza coi lavoratori di tutta la Spagna, e in comune contrapposizione al governo di Madrid. Una autorganizzazione di massa che leghi la rivendicazione democratica dell'autodeterminazione a un proprio programma indipendente di aperta rottura con la borghesia: abolizione del debito verso le banche, nazionalizzazione delle banche, esproprio delle grandi imprese sotto controllo operaio, cancellazione del precariato, ripartizione del lavoro con la riduzione progressiva dell'orario a parità di paga. È la prospettiva di una Repubblica dei lavoratori della Catalogna, basata sulla loro organizzazione e la loro forza.

In queste ultime ore, mentre le burocrazie sindacali spagnole chiedono la “pacificazione” tra Spagna e Catalogna, cioè nei fatti la resa del movimento catalano, i portuali di Barcellona e Terragona, con i relativi sindacati locali, si sono rifiutati di ormeggiare le navi di rinforzo per la Guardia Civil inviate da Madrid e dichiarano pubblica disobbedienza a oltranza. In questo piccolo episodio vive l'autonomia di classe del proletariato catalanoe la sua possibile egemonia alternativa nel movimento indipendentista. In tutta la Spagna, e in tutta Europa, va sostenuta in ogni forma possibile la battaglia dei lavoratori catalani.

Il proletariato catalano è stato storicamente l'avanguardia del proletariato spagnolo. Ricondurlo all'altezza della sua migliore tradizione e' oggi il compito dei marxisti rivoluzionari.

Marco Ferrando

 

12 settembre 2017, la protesta contro Macron invade le città francesi

«S'unir pour ne plus subir»

19 Settembre 2017
 
 Prima giornata di sciopero nazionale al rientro in Francia contro la ulteriore distruzione del Codice del lavoro, voluta dal governo Macron con la Loi Travail XXL.
All'appello della CGT hanno risposto diversi sindacati, ovvero Solidaires, la FSU, SNES-FSU (insegnanti educazione settore pubblico), UNEF, alcune unioni dipartimentali di Force Ouvrière (la cui direzione ha scelto di non aderire), il Front Social, oltre a molteplici organizzazioni politiche, tra cui l'NPA.
Quattrocentomila e più fra lavoratori, liceali, universitari, donne, giovani dei quartieri popolari, precari e disoccupati sono scesi in piazza per denunciare apertamente l'offensiva reazionaria in atto: un pacchetto di otto ordinanze che si aggiungono agli attacchi massivi cominciati nel 2016 sotto Hollande con la Loi El Khomri (Loi Travail), prima riforma del lavoro sulla scia del Jobs act e, prima ancora, della riforma Rajoy in Spagna nel 2012.

Contro la cancellazione dei diritti sociali fondamentali acquisiti nel corso degli ultimi cinquant'anni, tantissime città sono state occupate dalla classe operaia francese, con numeri simili a quelli del 9 marzo del 2016, quando nella la prima giornata di mobilitazione nazionale contro la Loi El Khomri quattrocentocinquantamila persone davano l'inizio ad un movimento durato mesi, prova del rilancio della forza della lotta di classe.
Un movimento che ha avuto il merito di raggruppare e fare convergere vari spezzoni di classe con un unico obiettivo: rigettare l'offensiva padronale governativa.

Di queste otto ordinanze Macron, guidato dalla centrale padronale MEDEF, ha fatto il punto cardine della sua campagna elettorale presidenziale, e che ora, dopo il risultato delle legislative con il quale ha guadagnato la maggioranza quasi assoluta in parlamento, intende imporre, visto lo scarso consenso con il quale ha ottenuto questi risultati (circa il 70% dei lavoratori non lo ha votato).

Sullo sfondo: l'indebolimento dei sindacati (sempre più potere alla contrattazione aziendale; referendum padronale e dei sindacati gialli); l'austerity nell'educazione (taglio di 331 milioni dal budget dell'insegnamento superiore, introduzione della selezione all'università per un'istruzione elitaria e modellata sugli interessi degli imprese, soppressione di intere filiere, taglio dei sussidi per gli alloggi - ottantasettemila gli studenti che non trovano posto in facoltà, i "sans-fac"); la riforma della maturità (non più un titolo d'accesso diretto all'università, per l'aumento delle disparità educative e di budget tra scuole borghesi e scuole dei quartieri popolari); la riforma e il taglio dei sussidi sociali e delle pensioni (ne faranno le spese, ad esempio, i ferrovieri); lo svilimento dei contratti a tempo indeterminato con conseguente deregolamentazione dei contratti a termine (CDI per la durata di un progetto) e corrispondente soppressione dei contratti di inserzione sociale nel mercato del lavoro e nell'associativo (i "contrats aidés", contro i giovani e le fasce deboli in cerca di lavoro); la soppressione delle rappresentanze sindacali nei luoghi di lavoro; le ulteriori facilitazioni per i licenziamenti nelle imprese (forte riduzione e definizione delle indennità in caso di licenziamento illegittimo e senza giusta causa).
Per non citare il taglio di posti nel settore pubblico (120.000 posti entro fine quinquennato, 1.600 entro il 2018) e il blocco dei salari per tantissime categorie, fino all'introduzione dello stato d'emergenza nel diritto comune.

Lavoratori ricattabili, ipersfruttati e precari, giovani dei quartieri popolari e studenti privati di risorse, settori di classe più che mai a rischio. Per questo è urgente unirsi per contrattaccare, per rilanciare lo sciopero in vista ed oltre il giorno di approvazione del pacchetto di ordinanze, il 22 settembre. Per questo motivo il 21 settembre è stato convocato un altro sciopero nazionale. Tale urgenza è più che sentita nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università; non a caso la CGT Nord avvierà uno sciopero a oltranza a partire dal 21 settembre, a partire dai portuali di Le Havre, seguiti dalla logistica e trasporti, categorie in cui le federazioni di CGT e FO bloccheranno tutto dal 25 settembre.

Ci sono quindi forze che, dalla fine del movimento del 2016, hanno preso atto della situazione e della necessità di fare convergere le lotte. Settori che hanno organizzato una risposta unitaria contro una delle più feroci controriforme liberali degli ultimi tempi, come il "Front Social", che ha dato vita ad un polo operaio che riunisce militanti sindacali, politici, giovani lavoratori precari; come il CLAP - Collettivo Riders Autorganizzati Parigini; lavoratori in Deliveroo; insegnanti e studenti dei licei delle periferie organizzati in "Touche Pas Ma ZEP"; universitari e operai, ecologisti e collettivi femministi come il Collectif Femministe Révolutionnaire.
Lo scopo del coordinamento, dislocato in comitati locali, è quello di dare voce e unire i conflitti e le mobilitazioni che ogni giorno animano il paese, per respingere non solo questa riforma del lavoro filopadronale, ma tutto il suo mondo: dallo stato di emergenza, alla violenza della polizia, tutto ciò che vuole ridurre la classe operaia al silenzio, nel quadro del disegno di liberalizzazione estrema del mercato del lavoro, contro le conquiste e i diritti sociali in Francia, come nel resto d'Europa.

Il ruolo dei marxisti rivoluzionari in questo polo combattivo è stato ed è fondamentale nella costruzione e nel rilancio di una lotta a 360 gradi, non solo per il ritiro di queste manovre antisociali, ma anche nella prospettiva di un vero sciopero generale e dell'autorganizzazione generale dei lavoratori e degli studenti. Per rovesciare un sistema che getta nella miseria la nostra classe, ribadendo il ruolo del partito rivoluzionario in questo processo.
Marta Positò

Santiago Maldonado: una desaparición scuote l'Argentina

È passato più di un mese da quando Santiago Maldonado, attivista che lottava in difesa del popolo Mapuche, è scomparso dopo la repressione della gendarmeria ad una manifestazione per la libertà del leader della popolazione indigena, Facundo Jones Huala.

IL CONTESTO

Come si diceva poc'anzi, la scomparsa di Santiago è avvenuta in un contesto di lotta del popolo Mapuche. Questa è solo una delle tante popolazioni indigene, che si vede usurpata del diritto di vivere nella propria terra da chi vuole difendere l'interesse privato delle grandi imprese capitaliste; in questo caso particolare il popolo Mapuche occupa illegalmente delle terre della impresa italiana Benetton – una dimostrazione in più che l'Italia è un paese imperialista e che è oggettivamente reazionaria la campagna nazionalista contro l'imperialismo europeo o tedesco (in contrapposizione a quello, ritenuto inesistente, dell'Italia) condotta dallo stalinismo, dal sovranismo e da altre aree della sinistra (Rizzo, Rete dei Comunisti, Cremaschi...).
In difesa degli interessi imperialistici di Benetton il governo ha ordinato la repressione brutale di questo popolo, come implicitamente ammette la stessa ministra degli interni Bullrich («Si occupano terre in zone petrolifere o gassifere impedendo costantemente il normale sfruttamento dei pozzi. Questi reati di usurpazione, turbamento del possesso e d'estorsione influiscono su un servizio strategico per le risorse dello Stato»).


IL CASO

Nel corso di questo mese il governo e lo Stato hanno cambiato più volte posizione, come conseguenza dell'esplosione dello scandalo politico e delle sue pressioni sulle autorità. In un primo momento si provò a dimostrare (ridicolmente) che non c'era stata nessuna scomparsa, ma che si trattasse semplicemente di un viaggio senza preavviso di Santiago verso il Brasile; poi che Santiago avesse partecipato ad un assalto contro la polizia armato di coltello, insieme ad altri militanti Mapuche, e fosse stato ferito da un poliziotto nel tentativo di difendersi; ora, di fronte all'evidenza di testimonianze e video comprovanti, sono stati indagati sette poliziotti per la scomparsa di Santiago.
Anche per quest'ultima però si tratta di una manovra occultatrice perché scarica su sette poliziotti le responsabilità di uno Stato. Innanzittutto perché è impossibile che sette poliziotti soli ed isolati abbiano potuto nascondere un crimine, e il corpo di Santiago, per un mese ed oltre; ma anche perché il giorno della repressione del popolo Mapuche e della scomparsa di Santiago il Capo di Gabinetto del Ministero della Sicurezza (Interni), Pablo Noceti, era presente in Chubut (provincia dove sono presenti le terre in questione) dicendo che i militanti Mapuche erano da considerarsi «come membri di un'organizzazione terroristica e che tutti sarebbero stati arrestati, senza un ordine del tribunale».


LE CONSEGUENZE POLITICHE

In questo quadro si aprono due prospettive politiche nel prossimo futuro: o la protesta popolare continua massivamente – nel corso di questo mese ci sono state già due giornate di mobilitazione nazionale che hanno visto più di mezzo milione di persone in strada – e come conseguenza di questo, si potrebbe avere una crisi di governo con la cacciata della ministra Bullrich; oppure il governo Macri farà quadrato in difesa della ministra e nel corso del tempo le manifestazioni subiranno un indebolimento.
Le ultime vicende portano a pensare con una maggiore probabilità alla prima ipotesi: è possibile che l'indagine sui sette poliziotti, e quindi le prime fratture all'interno dell'omertà statale, radicalizzino le masse e le spingano a lottare per ulteriori passi avanti nella condanna dei responsabili di questo crimine.
Sarà responsabilità del Partido Obrero e del Frente de Izquierda y de los Trabajadores chiamare alla mobilitazione le masse per la cacciata della ministra Bullrich e dimostrare la responsabilità di uno Stato, e non solo dell' attuale governo (basti pensare che i governi kirchneristi sono stati responsabili della desaparición di Jorge Julio Lopez e Luciano Arruga).

Michele Amura, da Buenos Aires

Il disastro perfetto di Livorno

La tragedia che si è verificata a Livorno nella notte tra il 9 e il 10 settembre non è stata provocata da un evento eccezionale ma da un insieme di cause che si sono sommate negli anni

 

 Le otto vittime e i danni causati dal disastro di Livorno non sono stati provocati da un evento eccezionale, bensì da anni e anni di scelte politiche ed economiche che hanno cambiato il volto di questa città.
Tutto lo sviluppo urbano è avvenuto in nome del profitto.
Dal dopoguerra ad oggi un ambiente fragile non è stato assolutamente difeso e controllato in funzione della vita dei suoi cittadini ma in funzione dello sviluppo capitalistico, sfruttando al massimo il territorio senza difendere assolutamente le sue fragilità. Per la sua delicatezza, il territorio di Livorno era stato considerato negli anni passati come un sito di interesse nazionale (SIN) e quindi soggetto a tutti gli interventi e bonifiche del caso, ma è avvenuto esattamente il contrario. Speculazioni edilizie, cementificazioni irrazionali e impianti industriali pericolosi realizzati a contatto con aree residenziali si sono succeduti a ritmo impressionante. Era un bomba ad orologeria, ed è scoppiata dopo un'estate siccitosa che sarebbe potuta servire per pulire gli argini e gli alvei dei torrenti, per la manutenzione dei tombini e o delle strade, magari dando lavoro in una città con un altissimo indice di disoccupazione.
La tragedia ha fatto il suo corso proprio dove maggiori erano le fragilità della città. Nell'area del nuovo grande centro commerciale del Parco del Levante e la relativa colata di cemento, i bacini scolmatori del Rio Maggiore realizzati da amministrazione e privati non sono serviti a nulla. Più a monte l'area estesa per ettari e inutilizzata della discarica del Limoncino (bloccata da un'inchiesta della magistratura) ma resa impermeabile dai teloni di plastica ha amplificato la rapida discesa delle acque verso il torrente tra le colline disboscate di recente. A valle lo stesso Rio era "tombato" da decenni.
Che dire poi del petrolchimico di Stagno, sommerso dalle acque del torrente Ugione mai messo in sicurezza contro simili eventi, che ha riversato nel terreno una quantità incalcolabile di idrocarburi? Il Rio Ardenza aveva gli argini, fino al giorno della tragedia, completamente abbandonati alla vegetazione spontanea e ai rifiuti. Intere aree della città, come quella degli orti urbani, sono tuttora preda della speculazione, con la complicità delle amministrazioni che si sono succedute, nessuna esclusa (PCI, PD, M5S).
Ma anche i governi nazionali hanno enormi responsabilità. Quando parlano di sicurezza delle città non parlano certo di salute, ambiente e territorio ma, di decoro urbano e immigrazione. Preoccupati di nascondere il volto del disagio e dell'emarginazione in nome di una borghesia sempre più brutale.
Invece del decreto Minniti serve una lotta anticapitalista all'interno di una vertenza generale, contro la barbarie del capitalismo causa principale delle tragedie come quella di Livorno. I lavoratori, i disoccupati, i giovani e gli immigrati, insieme in questi giorni dopo la tragedia, hanno dato la risposta migliore unendosi in squadre di solidarietà.
Se il clima e l'ambiente stanno mutando a causa del capitalismo, la risposta è una sola e passa attraverso il cambiamento dello stato attuale delle cose verso il socialismo. La difesa del territorio, dell'ambiente e della salute sono punti cardine per una vertenza generale.

I lavoratori sapranno farli propri.

Ruggero Rognoni - PCL Livorno

Per un fronte unico di classe contro gli sgomberi e la repressione

L'avversario di classe colpisce unito, mentre chi subisce la repressione affronta i colpi in ordine sparso. Continueremo a batterci in tutte le sedi possibili per un fronte unico delle organizzazioni della sinistra contro la repressione e la negazione dell'agibilità politica e sociale

 Gli sgomberi di due centri sociali in pieno agosto, preceduti dallo sgombero di un centinaio di famiglie dai palazzi di via Gandusio di proprietà ACER in luglio, dimostrano, qualora ce ne fosse ancora bisogno, che magistratura, Prefettura, Questura e giunta Merola marciano di comune accordo per il "rispetto della legalità", la "loro" legalità, quella chiesta da padroni, palazzinari e speculatori vari, che preferiscono lasciare andare in malora il patrimonio edilizio sfitto piuttosto che utilizzarlo per fini sociali.

Gli sgomberi di famiglie occupanti, infatti, quali che siano le ragioni accampate dal sindaco, non sfociano poi in ristrutturazioni di edifici da adibire ad alloggi a canone convenzionato: quasi tutti gli sgomberi ordinati dalla magistratura ed effettuate con la consueta solerzia dagli apparati repressivi dello Stato rimangono a marcire per anni, prima che qualcuno ricordi che esistano. Migliaia sono le famiglie senza un tetto dignitoso e migliaia sono gli alloggi sfitti, a partire da quelli di proprietà ACER, continuando con quelli delle banche e delle società immobiliari, per finire con quelli della curia, che, nonostante oggi cerchi di rifarsi una verginità, in un passato non lontano ha richiesto lo sgombero di famiglie occupanti dagli appartamenti di sua proprietà.

Esistono inoltre aree dismesse dal demanio militare o ex fabbriche che potrebbero essere riconvertite ad uso pubblico dal sindaco, se non fosse, come gli altri che l'hanno preceduto, prono agli interessi dei costruttori, compresi quelli aderenti alla Lega delle Cooperative. Merola si è interessato più che altro a regalare a Farinetti, che ringrazia, ottantamila metri quadrati del Centro agroalimentare, che serviranno a F.I.Co.,la Disneyland del cibo, in cambio di 800 posti di lavoro sottopagati.

In questo contesto si inseriscono gli sgomberi di Làbas e Crash, nonostante i media preferiscano passare sotto silenzio che i centri sociali colpiti siano stati due, non uno soltanto, cercando di isolare i "cattivi" (con i quali non c'è alcuna possibilità di dialogo) dai "buoni", che godono di appoggi politici anche in consiglio comunale.

La risposta avrebbe potuto e dovuto essere unitaria, se si fosse cercato di costruire un fronte più largo possibile di forze politiche e sindacali facenti comunque riferimento al movimento operaio, che ponesse sul piatto la contestazione di una politica sull'uso letteralmente scandaloso del patrimonio edilizio. Invece si è preferito da parte di Làbas andare ad una trattativa con il sindaco sul luogo alternativo e sui tempi di ristrutturazione della ex Staveco, facendo leva sul valore sociale e sulle attività di animazione e culturali che si svolgevano nel centro sociale, perdendo così ancora una volta l'occasione per allargare il discorso sulle politiche antipopolari del PD e del governo, di cui la giunta Merola è sostenitrice. Addirittura Làbas e Crash non hanno neanche concordato una risposta comune contro gli sgomberi!

Il Partito Comunista dei Lavoratori è un piccolo partito che non si rassegna a constatare che l'avversario di classe colpisce unito, mentre chi subisce la repressione affronta i colpi in ordine sparso.
Contribuiremo a batterci in tutte le sedi possibili per un fronte unico delle organizzazioni della sinistra contro la repressione e la negazione dell'agibilità politica e sociale.

Partito Comunista dei Lavoratori - sezione di Bologna