La riforma del fisco del governo Draghi, inserita nella legge di Bilancio 2022 (Legge 30 dicembre n. 234) e approvata dal Parlamento in seguito al trentacinquesimo voto di fiducia posto dal governo, segnerà pesantemente l'anno prossimo venturo e quelli successivi.
Da un punto di vista generale possiamo affermare la piena continuità con i decreti varati in estate: lo Stato, con una manovra di oltre 36 miliardi di euro, si fa carico dei costi delle imprese con generose iniezioni di denaro tra cui 2 miliardi per contenere i costi sull'aumento dell'energia, 4.1 miliardi per l'internazionalizzazione delle imprese con progetti di sviluppo e per l'acquisto di mezzi di produzione (alias beni strumentali); accanto a ciò la revisione degli scaglioni IRPEF e l'abolizione dell'IRAP (la tassa regionale che finanzia il Servizio sanitario nazionale) per i lavoratori autonomi, le imprese individuali e i professionisti/artisti non associati, che non godono di regimi forfetari e di vantaggio.
Per quanto concerne la revisione degli scaglioni IRPEF, secondo la visione degli economisti liberali la riduzione del cuneo fiscale dovrebbe avere come conseguenza l'avvicinamento del netto delle retribuzioni al lordo. Ma a spese ovviamente della collettività e del peggioramento del sistema pubblico, in primis sanità, scuola e pensioni.
Il lieve innalzamento della no tax area per i pensionati (che passa da 8000 a 8500 euro), e l'abbassamento delle aliquote per le fasce intermedie dovrebbe in teoria segnare una boccata di ossigeno per i lavoratori e i pensionati, secondo le fonti mainstream. In realtà con la riduzione da cinque a quattro aliquote, l’intervento favorisce i redditi tra 40 mila e 50 mila euro (risparmieranno fino a un massimo di 945 euro), mentre il lavoratore/la lavoratrice dipendente medio/a con un imponibile di 21 mila euro avrà un risparmio IRPEF di circa 180 euro (vedi prima tabella in fondo a questa pagina). Bisogna aggiungere che il bonus Renzi-Gualtieri di 100 euro rimarrà erogato ai redditi fino ai 15 mila, non più fino ai 28 mila, e che il taglio dello 0,8% dei contributi INPS per i redditi fino a 35 mila euro (l’85% dei contribuenti) è prevista come misura una tantum solo per il 2022.
Inoltre, se analizziamo i dati sui redditi ci accorgiamo che i contribuenti IRPEF sono rappresentati al 43% circa dai redditi fino ai 15mila euro che manterranno lo stesso regime di tassazione al 23%.
D’altra parte, lo stesso Ufficio parlamentare di Bilancio chiarisce che il 20% delle famiglie più povere, che si trovano nella fascia dell’incapienza fiscale, è di fatto privo di qualsiasi beneficio apportato da questa manovra. Su un totale di 41.525.892 contribuenti, 22.461.167 sono redditi da lavoro dipendente e 14.482.963 rappresentano la quota dei pensionati. In totale 36.944.130, cioè l'88,9%!
Ovviamente nessuna modifica per i redditi superiori ai 75.000 euro e nemmeno per l’IRES, l’imposta pagata da società di ogni tipo, che rimane stabile al 24%.
Valga solo la pena ricordare gli oltre cento miliardi annui di evasione sottratti al bilancio pubblico e la scarsità dei controlli su di essa (in particolare i controlli sul calcolo delle componenti positive di reddito: ammortamenti, plusvalenze, etc.).
In realtà sappiamo anche benissimo come quel piccolo margine di sostentamento andrà a coprire l'aumento delle bollette. Da gennaio, infatti, al netto dell’intervento del governo, per le famiglie in media l’aumento della bolletta dell’elettricità sarà del 55% e quella del gas del 41%.
Infine, per effettuare un veloce pinkwashing (1), “il governo dei migliori” ha pensato anche alle donne: benefici contributivi a favore del datore di lavoro (cit. art 36) alle imprese che assumeranno donne, l’istituzione del Fondo Impresa Donna, che prevede contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per favorire l’imprenditoria femminile, la continuità di Opzione donna per il 2022 per il pensionamento e - udite, udite - la diminuzione dell'aliquota IVA dal 22% al 10% sui prodotti per l’igiene femminile non compostabili.
L’ASSEGNO UNICO UNIVERSALE PER I FIGLI: L'ARCHITRAVE DELLA POLITICA FAMILISTA DEL GOVERNO DRAGHI
Associata a iniziative che si ispirano al principio dell’empowerment femminile, caposaldo del femminismo borghese, il governo procede con il Family Act, mettendo a punto l’Assegno unico universale per i figli (AUUF), una misura a contrasto della denatalità, che in un’ottica femminista classista non può che suscitare diverse contrarietà. Si tratta di un sostegno ai nuclei familiari con figli* a carico (dal 7° mese di gravidanza fino al 21° anno di età (a meno che non abbiano una occupazione), senza limiti in caso di disabilità, che andrà a sostituire tutte le misure di sostegno previste fino a oggi (compresi gli assegni e le detrazioni fiscali per i figli, che saranno erogati fino a febbraio).
Viene erogato direttamente dall’INPS e attribuito sulla base della condizione economica del nucleo familiare (ISEE), da un minimo di 50 euro a un massimo di 175 euro per figli* minorenni e da un minimo di 25 euro a un massimo di 85 euro per figli* maggiorenni. Sono previste maggiorazioni per ciascun* figli* successiv* al second* (vedi seconda tabella in fondo a questa pagina). Una misura esplicita che premia le famiglie prolifiche, il tutto retto sul lavoro riproduttivo delle donne. Con la differenza che le famiglie agiate potranno, pure con il sostegno economico del governo, sfruttare il lavoro delle donne proletarie per l’incombenza dei lavori domestici e di cura.
È stata largamente applaudita l’universalità della misura, perché lo avranno a disposizione anche gli incapienti (cioè chi ha redditi inferiori a 8 mila euro e che quindi non gode di detrazioni fiscali), gli/le/l* inoccupat* e chi lavora con contratti precari. Però lo potranno ricevere proprio tutte le famiglie, pure dove ci sono redditi alti e grossi patrimoni, tanto che, anche non presentando l’ISEE, comunque si avrà il minimo previsto!
È stato però anche calcolato che per i lavoratori e le lavoratrici dipendenti meno abbienti il nuovo sistema potrebbe essere penalizzante e che circa il 10% delle famiglie ci andrà a perdere (mentre per circa il 18% non cambierà praticamente niente), essendo l’importo dell’assegno unico inferiore a quello dell’assegno al nucleo familiare e alle detrazioni fiscali. Questo una volta che verrà meno la clausola di salvaguardia (andrà a scalare fino a sparire nel 2025) che integrerà la differenza.
Anche chi percepisce il reddito di cittadinanza (già abbondantemente considerat* dalle misure governative un soggetto da punire) è trattato in modo iniquo, in quanto l’importo dell’assegno verrà decurtato dal sostegno. Un intervento che si aggiunge, tra l’altro, ad altre criticità e condizionalità peggiorative presenti nel reddito di cittadinanza: oltre alle previste 16 ore settimanali di lavoro gratuito (spacciate come “progetti utili per la comunità”), la riduzione del reddito di 5 euro al mese a partire dal rifiuto di una offerta di lavoro (che può prevedere una distanza anche di 80 Km!) e la revoca totale del reddito al secondo rifiuto di una offerta di lavoro che non prevede nessun limite di distanza e il vincolo ignobile di dieci anni di residenza per cittadin* extracomunitari*. A quest* ultim*, invece, per potere accedere all’Assegno unico sarà chiesto il permesso unico di lavoro o di ricerca di 6 mesi. Alla faccia dell’universalità, che toglie proprio a chi ha più bisogno!
Un’altra criticità del nuovo assegno unico consiste nella possibilità che venga richiesto in pari misura da entrambi i soggetti che esercitano la “responsabilità genitoriale”, a prescindere dal reddito. Dal momento che all’interno del nucleo familiare le donne sono generalmente quelle che guadagnano di meno, soprattutto perché si ritrovano sulle spalle il peso del lavoro di cura che le costringe molto spesso a lasciare il lavoro o ad accettare il part time, è chiaro che in una situazione di separazione, con tutte le complicazioni che comporta, ne usciranno svantaggiate.
Ma, indubbiamente, associato al tema del welfare, non possiamo dimenticare la questione centrale del salario e del lavoro, fattori imprescindibili per ogni spinta verso l’autonomia ed emancipazione femminile.
I dati dell’occupazione, di quella femminile in particolare, sono preoccupanti: nell’ultimo anno (consideriamo, secondo la rilevazione ISTAT (2), il dato da novembre 2020 a novembre 2021) sono aumentati 490 mila occupat* dipendenti (senza recuperare quelli persi dall’inizio della pandemia), ma ben 448 mila sono a termine! Il divario di genere è immediatamente tangibile, con un tasso di occupazione femminile del 49,9% contro un 68% di quella maschile.
Un'occupazione che sconta un enorme divario retributivo complessivo, dovuto soprattutto alla discontinuità lavorativa, alle minori ore lavorate (per svolgere lavoro domestico e di cura) e ai part time involontari.
PENSIONI: DALLA PADELLA ALLA BRACE
Una riflessione a parte è necessaria per le pensioni, con il ritorno a pieno regime alla Legge Fornero.
Nel corso degli ultimi trent'anni, la tendenza affermatasi nel sistema previdenziale riguarda l'innalzamento dell'età pensionabile con elementi di flessibilità in uscita (che comportano sempre penalizzazioni); l'innalzamento dei requisiti minimi in termini di anzianità contributiva e l’annullamento progressivo della componente retributiva, la conseguente rivalutazione delle pensioni sganciata dai salari reali e ancorata all'andamento dell'inflazione; la creazione di sistemi di previdenza complementari affiancati a quello pubblico.
Soprattutto il passaggio dal regime retributivo a quello contributivo ha determinato un drastico abbassamento delle rate pensionistiche percepite, pur essendo il nostro, un sistema ancora basato sul principio della ripartizione, secondo il quale le pensioni sono finanziate dai contributi versati da* lavorat* attiv*
In breve, la novità principali sulla riforma delle pensioni prevista dal governo Draghi: per il 2022 si passa da quota 100 del governo Lega-M5S (62 anni di età + 38 anni di anzianità contributiva), a quota 102 (64 + 38), ci sarà il rinnovo di Opzione donna e la proroga dell’APE Sociale (introdotta dalla legge di Bilancio nel 2017).
Questo anno transitorio dovrebbe giungere al 2023 con l'obiettivo da parte del governo di un ricalcolo interamente contributivo dell'assegno pensionistico, anche per coloro che avrebbero potuto beneficiare di un trattamento misto in base a quanto previsto dalla normativa precedente.
PINKWASHING SUI PROBLEMI DEL LAVORO E "OPZIONE DONNA". IL FEMMINISMO BORGHESE SI ACCONTENTA DEI TAMPAX
Nel 2022 per le donne l'uscita anticipata (rispetto alle attuali norme) con Opzione donna non arriverà a 60 anni, come era stato previsto. In breve: l'uscita anticipata sarà a 58 anni per il settore pubblico e a 59 anni per le lavoratrici autonome, con almeno 35 anni di versamenti entro il 2021 (ma senza il riconoscimento di periodi di malattia e disoccupazione). Rimarrà comunque la penalizzazione dovuta all’applicazione della finestra mobile, per cui tra la maturazione del diritto e l’accesso alla pensione passeranno 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 per le autonome.
Non dimentichiamoci però che Opzione donna fu introdotta dalla riforma Maroni (legge 243/2004), insieme al famoso bonus e al rafforzamento della previdenza complementare. Chi dovesse scegliere questa eventualità accetterebbe il ricalcolo della pensione interamente basato su sistema contributivo, anche per coloro che potrebbero beneficiare del sistema misto con il ritorno alla legge Fornero.
Sappiamo che nel 2019 le richieste per l’Opzione donna accolte dall'INPS sono state 21.090 e nel 2020 14.510. Le lavoratrici che decideranno per Opzione donna, per effetto del passaggio al sistema di calcolo totalmente contributivo, subiranno mediamente una decurtazione sull'assegno pensionistico intorno al 25/30 %, con delle variabili a seconda dell'età della lavoratrice, delle caratteristiche di carriera, della retribuzione e infine dell'anzianità contributiva maturata alla data di un'eventuale decisione all'accesso.
Opzione donna è una formula di pensione anticipata (quella che ha sostituito con la riforma Fornero la pensione di anzianità) che, secondo tutti i governi che l’hanno propagandata, dovrebbe consentire l'uscita dal mondo del lavoro in maniera agevolata rispetto all'ordinaria pensione di vecchiaia.
È bene invece sottolineare come molte lavoratrici siano giustamente in dubbio sul decidersi, proprio per le ragioni che abbiamo spiegato (calcolo dell’assegno interamente con il sistema contributivo con il conseguente taglio dell’importo). Il taglio del 25/30% in euro è una somma alta (facendo un esempio su una lavoratrice non turnista del settore infermieristico con 30 anni di lavoro ed uno stipendio di 1650 euro, il taglio sarebbe di circa 450 euro).
La quota di pensione senza Opzione donna avrebbe il calcolo con sistema misto (retributivo e contributivo). Ovviamente, semplificando: più tardi si esercita l'Opzione donna minore sarà l'impatto sull’importo dell’assegno pensionistico, mentre maggiori sono i contributi versati e la carriera lavorativa antecedenti al 1996 maggiore sarà il taglio, che potrà superare il 30%. Cioè meno anni cadono nel calcolo retributivo, minore sarà l'impatto economico.
È così che la disparità di genere comporta per le donne non solo in età lavorativa il divario salariale, ma legato a questo, un accesso alla pensione con forti elementi di penalizzazione.
E un peso del lavoro di cura che in età avanzata tende tutt’altro che ad alleggerirsi.
Dobbiamo lottare per non essere costrette, per accedere alla pensione, a cadere nella trappola delle misure di governi che tutelano da sempre i padroni e i pochi ricchi a danno dei moltissimi proletari e dei soggetti più poveri. In un sistema in cui a rimetterci, sia lavorativamente che - in genere - socialmente, sono sempre lavorat* dipendenti, pensionat* e classi popolari.
Ci raccontano che l'INPS è in crisi. Vero è piuttosto che la cassa integrazione Covid, nel periodo pandemico, è stata sostenuta dalla fiscalità generale, gravando anche sulle casse dell’INPS, il tutto per agevolare il padronato, garantendone la continuità dei profitti.
Di cosa stiamo parlando? Di un sistema che incarna gli interessi del capitale, che utilizza i media e l'informazione nel celare le verità ed esaltare argomenti falsi e tendenziosi che allontanano dai veri problemi di chi non gode di privilegi sociali e vive di lavoro salariato.
Ma soprattutto, invece di stimolare ipocritamente lo scontro generazionale, mascherando le misure contro chi oggi è arrivato all’età della pensione come un beneficio per i giovani, bisogna intervenire sui salari e sulla condizione lavorativa generale, dando lavoro redistribuendolo tra tutt*, con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Con una attenzione particolare proprio per chi, come le donne e giovani, lavora in condizioni di precarietà e discontinuità, che vanno cancellate definitivamente.
LE NOSTRE RIVENDICAZIONI
È importante stabilire di cosa ci sia bisogno, dal nostro punto di vista, quello di classe, per emancipare le donne e la famiglia stessa e per dare centralità alla crescita delle nuove generazioni. Una delle priorità è lo sgravamento dai costi e dalla fatica del lavoro di cura, che rimane sempre sulle spalle delle donne e delle famiglie delle classi subalterne. Servono, nella prospettiva della socializzazione del lavoro di cura, servizi pubblici gratuiti, con la nazionalizzazione dei servizi necessari alla cura di anziani e bambini; una scuola laica, pubblica, organizzata democraticamente e collettivamente, su cui investire grandi risorse (tutto il contrario di quanto fatto dal governo con la legge di Bilancio, in una fase in cui la scuola sta subendo pesantemente i colpi della pandemia); case e piani di edilizia popolare, con l’esproprio del patrimonio delle grandi immobiliari e l’utilizzo di tutte le case sfitte.
Queste rivendicazioni devono essere un bagaglio nelle nostre lotte quotidiane, nella prospettiva di realizzare, con l'abbattimento della società capitalistica etero-cis-patriarcale, il nostro obiettivo, quello di una società che si faccia carico dell’educazione e del mantenimento delle nuove generazioni, facendo venire meno il modello di famiglia come nucleo economico piuttosto che come unione di affetti e solidarietà.
Oltre a tutto quello che apre la prospettiva verso la socializzazione del lavoro di cura dobbiamo rivendicare, insieme alla già citata riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (30 ore pagate 40) per redistribuire il lavoro tra tutt*, un salario minimo intercategoriale fissato per legge di 1500 euro, un salario garantito a* disoccupat* e a chi e in cerca di lavoro, il ripristino dell’art. 18 (e la cancellazione del Jobs Act), l’eliminazione di tutte le forme di lavoro precario (tipologie contrattuali, appalti, ecc.), il blocco permanente dei licenziamenti (l’ultimo sblocco coinvolge il settore del terziario, ad alta presenza di manodopera femminile!), l’esproprio e la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio di tutte le aziende che licenziano, delocalizzano ed inquinano.
Ma anche una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, per recuperare le risorse da chi ha già abbondantemente rapinato e un sistema di tassazione fortemente progressivo.
E una riforma delle pensioni che faccia a pezzi tutte le controriforme pensionistiche, per ritornare al sistema retributivo (con 60 anni per la pensione di vecchiaia e 35 anni per la pensione di anzianità), dopo una vita lavorativa in cui a tutt* sia garantito un lavoro completo di tutele in ogni settore.
Come Partito Comunista dei Lavoratori pensiamo fermamente che si debba tornare a riempire le piazze, lanciando una vertenza e mobilitazione generale, costruendo nell’impegno quotidiano l’unità delle lotte, trasformando la comprensibile delusione di molti lavoratori e lavoratrici in forza e voglia di riscatto. Bisogna cambiare il corso della storia con una svolta radicale e rivoluzionaria. Dobbiamo difendere tutti i diritti e conquistarne di nuovi. Contro ogni oppressione di genere, del cis-etero-patriarcato figlio del capitale, e contro ogni repressione sociale - a cominciare da quella che insieme alle discriminazioni dilaga nei luoghi di lavoro.
Per un futuro in cui ciascun* potrà realizzarsi e autodeterminarsi, all’interno di una società che si farà carico collettivamente di tutti i bisogni, liberando il tempo e la vita delle donne e de* singol* dal giogo della fatica del lavoro riproduttivo e di cura, e abbattendo gli ostacoli al compimento di una umanità che viva relazioni interpersonali libere e svincolate dallo sfruttamento e dalla dipendenza.
(1) Il pinkwashing è una strategia di marketing che utilizza l’immaginario e i simboli dell’emancipazione femminile, anche schierandosi apparentemente per alcune cause, al fine di vendere un prodotto. In senso traslato si intende qualsiasi atteggiamento mistificatorio e iniziativa dell’ideologia borghese e del potere statale che si dichiari a favore dell’emancipazione delle donne, perseguendo al contrario l’obiettivo del controllo sociale.
(2) https://www.istat.it/it/files//2022/01/CS_Occupati-e-disoccupati_NOVEMBRE_2021.pdf