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Crisi borghese e veleni reazionari

 


Presidenzialismo e proporzionale avanzano sulle macerie della crisi dei partiti e degli schieramenti dopo la corsa per il Quirinale

30 Gennaio 2022

La riassegnazione a Mattarella della presidenza della Repubblica per un nuovo settennato è la cartina al tornasole della crisi politica della borghesia italiana.
Manca un punto di gravitazione del sistema politico. Tutti i partiti borghesi, con l'eccezione di Fratelli d'Italia, attraversano in forme diverse una crisi dei propri equilibri interni. Tutti le loro alleanze conoscono una disarticolazione più o meno profonda. In questo quadro l'ambizione di Draghi di traslocare al Quirinale per coronare la propria carriera si è subito scontrata con l'impossibilità di negoziare un nuovo Presidente del Consiglio e di garantire la continuità della legislatura, mentre ogni soluzione alternativa a Draghi come capo della Stato si è impigliata nella tela di ragno di contraddizioni irrisolte in tutti gli schieramenti politici. La rielezione di Mattarella è la risultante di questa paralisi politica e istituzionale.

Formalmente tutto rimane com'è, con Draghi premier e Mattarella Presidente, in reciproco sodalizio. Ma la realtà è diversa. Il fallimento politico delle segreterie di partito è manifesto. La soluzione Mattarella è stata imposta di fatto dalla pressione a valanga di una base parlamentare diffidente che le ha di fatto sconfessate pur di mettere in sicurezza la continuità del Parlamento, e dunque del proprio scranno. All'interno di ogni partito della maggioranza si aprono ora processi politici nuovi o autentiche rese dei conti. Il M5S è l'epicentro del terremoto, con possibili effetti di scissione e/o dissoluzione.

Anche la leadership di Salvini nella Lega conosce un obiettivo indebolimento, dopo la gestione catastrofica del romanzo Quirinale, con dieci nomi bruciati in due giorni, la rottura combinata con FdI e con FI, una coalizione dissolta, un futuro incerto. Di fronte a Salvini c'è ora un bivio strategico: o la ricomposizione con Giorgia Meloni all'insegna di un rilancio sovranista, ma col rischio concreto di lasciarle lo scettro; o la ricomposizione con Forza Italia all'insegna di un ingresso nel PPE, caro a Giorgetti, ma col rischio di entrarvi dalla porta di servizio, con la coda fra le gambe. Di certo l'idea di poter conciliare la guida della coalizione e la maggioranza di governo attorno a Draghi è definitivamente naufragata. E quale che sarà la via prescelta dalla Lega, comporterà un prezzo alto per il suo segretario; o di ruolo, o di voti, o di entrambi.

Neppure il PD può cantar vittoria. La catastrofe di Salvini non risolve nessuno dei vecchi problemi e ne apre di nuovi. Il “campo largo” di centrosinistra caro a Letta è oggi un campo di rovine, con la manifesta inaffidabilità di Conte, la guerra aperta da Luigi Di Maio per il controllo del movimento, il confinamento patetico di Beppe Grillo tra scandali giudiziari e carte bollate. Far leva sulla presunta rendita di posizione di un gioco bipolare – nuovo centrosinistra contro vecchio centrodestra – non è più possibile ormai di fronte allo sfarinamento politico di entrambi i poli. Insistere su questo schema significherebbe solamente favorire la ricomposizione della destra e suicidarsi. Ma abbandonare questo schema non è indolore per Letta. Significa esporsi alla rivalsa interna di chi da tempo l'aveva contestato, a partire dalla maggioranza dei gruppi parlamentari ex renziani del PD, quelli che non a caso dall'inizio hanno tifato prima Casini e poi Mattarella, in entrambi i casi in tandem con Renzi.

È possibile che il marasma politico e istituzionale in cui versa la borghesia apra la strada a una revisione del sistema elettorale in senso proporzionale. Spingono in questa direzione i vari frammenti del M5S, e diverse correnti del PD (ex renziani, Orlando, Franceschini). Ma soprattutto la galassia centrista, diversamente articolata (da Forza Italia, al centro cattolico, a Italia Viva) che non a caso ha sino all'ultimo giocato la carta della presidenza Casini, nella convinzione potesse rappresentare una sponda utile per il nuovo polo centrista. L'idea è quella di un definitivo seppellimento del bipolarismo, del conseguente taglio delle ali estreme, della ricomposizione di un centro politico parlamentare della borghesia italiana capace di porsi come ritrovato baricentro di ogni soluzione di governo. È questa l'area politica che non a caso ha maggiormente insistito per una continuità di Draghi come Presidente del Consiglio anche nella prossima legislatura. Va da sé che Meloni è avversa a questo disegno, perché le preclude lo sbocco di governo. Cosa faranno ora il PD e la Lega? Letta sembra aprire alla proporzionale, Salvini per ora non si pronuncia. È chiaro che per ognuno dei due si tratta di una scelta strategica.

Ma lo sfarinamento dei poli non porta solo a una possibile riforma proporzionale del sistema politico. Porta con sé anche un rilancio del presidenzialismo, ossia di un'elezione diretta del capo dello Stato, con conseguente trasferimento nelle sue mani di nuovi poteri. Questa idea reazionaria, vecchio cavallo di battaglia della destra, è ora sdoganata da un vasto ambiente borghese liberalprogressista, laico o cattolico. I quotidiani del gruppo GEDI (La Repubblica) e di Banca Intesa (Corriere della Sera) stanno legittimando apertamente il semipresidenzialismo alla francese come possibile soluzione della crisi politica. Nel momento in cui il vecchio bipolarismo è crollato, nel momento in cui diventa possibile o addirittura auspicabile il ritorno alla proporzionale (in funzione della continuità di Draghi), è necessario un elemento di riequilibrio dei poteri verso l'alto, che possa fornire al governo un ancoraggio forte a garanzia della stabilità politica. La stessa idea può trovare nuovi consensi in ampi settori popolari. “Basta coi giochi di palazzo dei politici, il Presidente scegliamolo noi” è un sentimento più diffuso di ieri, dopo la spettacolarizzazione mediatica delle giornate quirinalizie. È il vecchio fascino del bonapartismo come risposta alla crisi del parlamentarismo. Tutta la seconda Repubblica ha concimato questo humus. La sua crisi ne distilla i veleni.

Di fronte a queste possibili dinamiche e prospettive, vediamo prosperare a sinistra la vecchia retorica democratico-borghese, l'esaltazione della “Costituzione nata dalla Resistenza”, l'apologia della saggezza dei famosi padri costituenti. Ex ministri di governi liberali, come il compagno Paolo Ferrero (1), spiccano in questo coro. Noi rifiutiamo questa retorica. Naturalmente difendiamo ogni diritto democratico contro ogni sua revisione reazionaria. Siamo per il principio proporzionale integrale in fatto di leggi elettorali. Siamo contro ogni slittamento verso l'alto dei poteri dello Stato. Ma non per questo facciamo i custodi della Costituzione borghese. Non dimentichiamo che i padri costituenti erano De Gasperi e Togliatti, che la loro Costituzione nacque nel segno della collaborazione tra le classi contro le potenzialità rivoluzionarie della Resistenza partigiana, che l'obiettivo era quello di subordinare la classe operaia alla ricostruzione del capitalismo e del suo Stato. Non ci identifichiamo, insomma, con le istituzioni della democrazia borghese e con il loro Parlamento. Che non è e non può essere in regime capitalista il tempio della sovranità popolare, ma uno strumento di governo dei capitalisti, com'è stato ininterrottamente nella Prima e nella seconda Repubblica. Non a caso Lenin definiva la democrazia borghese, anche la Repubblica più democratica, «un paradiso per i ricchi, un inganno per i poveri e gli sfruttati».

L'identificazione nel Parlamento borghese e nelle regole istituzionali della democrazia borghese non solo non ha nulla a che vedere con i comunisti, ma porta acqua al mulino della reazione e alla sua demagogia, di chi fa leva sugli aspetti parassitari del parlamentarismo borghese (stipendi d'oro, vitalizi, corruzione, irrevocabilità del mandato, mercanteggiamento di favori e prebende...) per proporre nel nome del "Popolo" soluzioni reazionarie. Soluzioni che fingendo di dare maggior potere al popolo contro i politici, in realtà rafforzano i poteri dello Stato, ed in particolare del suo braccio esecutivo (governo, apparati repressivi), contro i lavoratori e la popolazione povera. A vantaggio dei politici peggiori.

È dalle lotte del lavoro e dei giovani che occorre battersi per un'altra democrazia. Quella che espropriando i capitalisti dia ai lavoratori e alla maggioranza della società la vera sovranità vera, cioè il potere di decidere democraticamente attraverso strutture organizzate dei lavoratori stessi le scelte e il futuro della società. La battaglia per un altro Stato, per un altro potere, non è solo l'indicazione della sola vera alternativa. È anche l'unica via per disarmare gli argomenti reazionari senza fare i reggicoda dei liberali.




(1) http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=49321

Partito Comunista dei Lavoratori

No alla guerra!

 


Non un uomo, non un soldo per la guerra in Ucraina! Il nemico è in casa nostra

25 Gennaio 2022

English translation

Rullano i tamburi di guerra sul fronte ucraino.
È probabile che tutto resti nei confini di una guerra fredda di tipo diplomatico. Ma è possibile che la tensione sfoci in un confronto diretto tra Russia e Ucraina, e per questa via tra la Russia e il campo della NATO.

Siamo incondizionatamente contro la guerra.
Le ragioni dei lavoratori non hanno nulla a che spartire con gli interessi imperialistici su nessuno dei due versanti. Né con gli interessi dell'imperialismo russo, che ha schiacciato la rivolta operaia in Kazakistan, e che lavora a difendere ed espandere la propria area d'influenza cercando di capitalizzare debolezze e contraddizioni degli imperialismi occidentali (nei Balcani, in Libia, in Africa, in Siria, in America Latina). Né tantomeno con l'imperialismo di casa nostra, americano ed europeo, interessato unicamente ad espandere il proprio blocco militare ed economico in Europa ai danni dell'imperialismo russo, anche in funzione del contrasto strategico con l'imperialismo cinese su scala mondiale.

Da internazionalisti ci battiamo innanzitutto contro l'imperialismo di casa nostra, che è sempre il nemico principale. In piena pandemia crescono i bilanci militari dell'imperialismo USA e degli imperialismi europei. Si ammassano truppe sul fronte ucraino. Si intende negare alle popolazioni del Donbass ogni diritto di autodeterminazione, per tutelare il diritto dell'Ucraina ad entrare un domani nella NATO. Si mira ad espandere i confini della NATO nella stessa Europa, come già è accaduto negli ultimi trent'anni, facendo carta straccia di ogni promessa precedente e impegno diplomatico. Gli imperialismi “democratici” conoscono solo il linguaggio della forza, al pari degli imperialismi rivali.

Gli operai americani ed europei non hanno alcuna ragione di “morire per il Donbass”, di continuare a comprimere le spese sanitarie per ingrassare i bilanci militari. Né hanno interesse a minacciare o sostenere sanzioni economiche del proprio imperialismo contro l'imperialismo russo. Le bandiere della “democrazia” e della “libertà” sono solo vessilli ipocriti per quelle grandi potenze, USA in testa, che le hanno regolarmente calpestate in tutta la loro storia pur di sottomettere al proprio giogo altri popoli e nazioni oppresse.

Parallelamente gli operai russi non hanno alcun interesse a sacrificare ulteriormente il proprio tenore di vita, a partire dalle pensioni, per sostenere le ambizioni strategiche di Putin, la repressione dei loro fratelli di classe kazaki, le spedizioni russe in Centro Africa.

I lavoratori e le lavoratrici hanno una sola patria, quella della propria classe. Hanno una sola bandiera da difendere, quella del socialismo. Contro ogni imperialismo, a partire dal proprio.

No alla NATO, no alla guerra!

Partito Comunista dei Lavoratori

Ucciso dal capitalismo. Ucciso come lavoratore, come studente, come giovane

 


Lorenzo Parelli è morto a 18 anni durante l'alternanza scuola-lavoro

22 Gennaio 2022

I soliti protocolli di cordoglio formale per la vittima, per la famiglia, non cambiano la responsabilità della dominazione capitalistica sul lavoro e del sistema scolastico al servizio delle imprese

È caduto sul lavoro uno studente-lavoratore di 18 anni. Si chiamava Lorenzo Parelli, risiedeva nel Comune di Castions di Strada (ex provincia di Udine). Era studente dell’istituto paritario salesiano Bearzi di Udine (cioè una scuola privata e confessionale sostenuta con risorse pubbliche) e svolgeva l’alternanza scuola-lavoro presso lo stabilimento di Lauzacco (Comune di Pavia di Udine) della Burimec Srl, azienda che produce materiali e attrezzature per la siderurgia e avente il sito produttivo principale a Buttrio, nel cuore del distretto della sedia di Manzano. Ovvero: quel micidiale sistema di esternalizzazione produttiva veicolo di un dumping di diritti e di livelli retributivi della manodopera al fine del taglio dei costi di produzione.
La partitocrazia del governo capitalistico non ha perso tempo nel suo piagnisteo routinario a prendere le difese del sistema dell’alternanza-lavoro. Il presidente della Regione Fedriga e l’assessore al Lavoro Rosolen hanno subito detto che bisogna stare zitti: “l’incommensurabile dolore sofferto dalla famiglia impone a tutti un rispettoso silenzio”. Dal canto suo la componente PD del governo Draghi, per bocca della consigliera regionale Da Giau, ci ha messo in guardia dal “lanciare accuse frettolose”. Il fronte unico della borghesia si è dunque compattato subito, a difesa di questo strumento di utilizzo del lavoro.


PRECEDENTI IN FRIULI VENEZIA GIULIA E ALCUNI TRASCORSI GIUDIZIARI LEGATI ALLA BURIMEC

C’erano già stati precedenti anche in Friuli Venezia-Giulia di infortuni accaduti a studenti in alternanza sul posto di lavoro. Quanto accaduto alla Burimec non è stato un episodio imprevedibile. Tanto più che si inserisce nella mattanza generale di forza-lavoro che è sotto gli occhi di tutti.
La Procura di Udine indaga per omicidio colposo l’amministratore delegato Pietro Schneider, come legale rappresentante della proprietà. Lo Schneider nel settembre 2018 era stato condannato a nove mesi di reclusione (condanna sospesa con la condizionale) per “induzione indebita a dare o promettere utilità”, una formulazione che la GUP del Tribunale di Venezia aveva coniato per descrivere altrimenti la natura concussiva di un rapporto tra lo Schneider e due ufficiali della Guardia di Finanza (uno venne prosciolto l’altro condannato a quattro anni) al fine di ottenere uno sconto su sanzioni dell’Agenzia delle Entrate alla vigilia di un controllo fiscale alla Burimec.


QUELLA FORZA-LAVORO FORNITA DAI PCTO

Lorenzo Parelli faceva parte di quello speciale contingente della forza-lavoro messo a disposizione della proprietà d’impresa, praticamente a costo zero, in forza ad un programma denominato solennemente (con la tipica ipocrisia della mentalità ampollosa di classe borghese quando si tratta di parlare della “formazione” della forza-lavoro) “Percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” (PCTO), o secondo la vecchia dicitura, alternanza scuola-lavoro. Un percorso obbligato introdotto della legge 107 del 2015 detta della “Buona Scuola”.
Che significa alternanza-scuola lavoro? Buona parte del popolo dei salariati adulti non lo sa. A meno che non ne facciano esperienza sul posto di lavoro, essi tendono a confonderlo con dei tirocini finalizzati all’assunzione. L’analfabetismo politico indotto dal conformismo della compatibilità governista, alla ricerca del “menopeggismo” per le classi popolari (governi e amministrazioni della mediatica categoria di “centrosinistra” e concertazione e collateralismo del sindacato “pragmatico”), ha prodotto nei decenni nelle masse lavoratrici un immaginario generale distorto rispetto la realtà del lavoro odierna. Parliamo soprattutto dell’identificazione dei propri interessi di esistenza sociale con gli interessi di classe dei propri sfruttatori, la classe capitalista: se vanno bene i profitti, domani o dopodomani, ci saranno dei benefici anche per la classe lavoratrice, magari per le generazioni più giovani. Rivolgersi elettoralmente verso i partiti borghesi più reazionari come Lega e FdI costituisce l’effetto, e non la causa, di questa dissoluzione della propria identità di classe. La borghesia resta la classe dirigente dell’economia e dello Stato per “legge di natura”, l’unica “naturalmente” ammessa a dirigere lo sviluppo sociale. Fuori da questo ordine c’è solo irrazionalità. Su questo si misura la vera radice della crisi del progetto socialista tra le masse lavoratrici.


“UN LAVORO PURCHÉ SIA”

Ma la perdita della coscienza di classe, tra le sue conseguenze nefaste, ne ha generata una in particolare. Quella che ha rilanciato la meritocrazia sulla base di chi accetta lo sfruttamento. È il tipico paradigma dello sfruttamento padronale: un lavoro purché sia!
La devastazione sociale di questa scomposizione identitaria è tuttora sottovalutata anche dalle sinistre politiche e sindacali classiste. Essa porta all’autolesionista accettazione, benché di fatto sia una scomposizione della soggettività collettiva e quindi individuale del prestatore di lavoro, che la classe operaia non può sbagliare. Altre categorie professionali, come magistrati, medici, manager d’impresa o statali, hanno il diritto allo sbaglio, la classe operaia no. Si provi ad osservare quando succede un incidente in una fabbrica o in un cantiere, anche mortale, quanto sia diffuso tra i lavoratori, assieme allo sgomento e alla rabbia, quel pensiero traducibile con le frasi “ma se stava più attento”, “doveva prendere più precauzioni” e via dicendo. La parte datoriale viene schermata. La responsabilità delle burocrazie complici dei sindacati di massa (dirigenti della CGIL in particolare, in quanto storicamente identificata nell’immaginario collettivo come il sindacato più forte e più a sinistra) è enorme.
Ma che dire quando la vittima dell’organizzazione capitalistica del lavoro è uno studente medio? Che esperienza poteva avere? Su quale perizia, in merito a precauzioni, poteva contare? Da quale esperienza professionale personale poteva attingere?
“Un lavoro purché sia” significa aver tradotto legalmente la meritocrazia dello sfruttamento nella quale rientra, per gli studenti, la previsione della forzosa partecipazione ai programmi dell’alternanza scuola-lavoro. Di più. La direzione aziendale può, di fatto, deputare lo studente-lavoratore a mansioni anche ben al di là del contenuto del programma formativo. Chi controlla? Come detto all’inizio, si tratta di un contingente messo gratuitamente a disposizione della proprietà d’impresa, con tanto di contributi pubblici (in larga parte pagati dagli stessi salariati attraverso il prelievo fiscale), la quale può impiegarlo, di fatto, alle proprie esigenze organizzative e produttive. Ad affiancare le file di questo contingente arriveranno coloro che percepiscono il reddito di cittadinanza, in forza alla restrizioni introdotte ai requisiti di accesso, e i migranti richiedenti asilo. Proprio il Rdc non a caso è oggetto di strali meritocratici: nonostante tutti i suoi limiti, indirettamente ha rappresentato, in parte, un’opzione non al lavoro, ma al lavoro ipersfruttato, nero o legale.
L’impiego di questo contingente di lavoratori extra contratto va a scapito delle capacità negoziali, e quindi delle condizioni di lavoro, di occupazione, e dell’agibilità giuridica, degli stessi salariati “ordinari”, cioè contrattualizzati.
Le caratteristiche storicamente esistenti della ripartizione per contingenti della merce forza-lavoro, ovvero ripartizione per gruppi di condizioni retributive e giuridiche, rimane sempre la bussola di orientamento per misurare i rapporti di forza nella relazione capitale-lavoro.


RIPRENDERE LA CONTESTAZIONE ALLA SCUOLA SOTTOMESSA AL CAPITALISMO.
SE MUORE O SI INFORTUNA UNO STUDENTE IN ALTERNANZA LA RESPONSABILITÀ È ANCHE DELLA DIRIGENZA SCOLASTICA


La scuola, e l’università, non sono più borghesi. Anzi, semmai, l’istruzione terziaria permette la fuoriuscita dalla sussunzione al regime di classe, dalla stessa reale contraddizione di classe. Un percorso risolutivo di emancipazione individuale. Anche negli ambienti “alternativi” questo sembra essere, oggi, il registro cognitivo maggioritario dell’immaginario delle relazioni sociali. La contestazione alla scuola e all’università sottoposte agli interessi di classe borghese è sparita, almeno nella sua manifestazione diffusa. Tra i riscontri di questo fenomeno regressivo possiamo inserire il paradosso degli scioperi del Fridays For Future organizzati localmente spesso fuori dalle ore di lezione, con la benedizione dei dirigenti scolastici. E’ il riflesso nell’ambiente scolastico del patto interclassista dell’unità nazionale dietro l’”Azienda Italia”, cioè il profitto del capitale.
Da questa visione deriva che l’apparato dirigente scolastico, dal ministero all’apparato locale, non è più (o non è sempre) la controparte. In realtà è proprio questo apparato che garantisce il ruolo gregario del sistema scolastico rispetto l’impresa capitalistica e i suoi mercati. È questo apparato che costituisce lo strumento esecutivo che fa diventare il sistema scolastico un centro d’impiego per manodopera di un segmento del mercato del lavoro senza garanzie di tutela e possibilità di protagonismo. Basti l’esempio di quanto successo nell’aprile 2018 all’ITIS di Carpi (Modena), dove uno studente-lavoratore fu colpito dalla repressione del dirigente scolastico con un 6 in condotta per aver espresso sulla propria pagina Facebook delle critiche rispetto la propria esperienza di alternanza scuola-lavoro. L’apparato dirigente scolastico in questi casi diventa un caporalato legittimato. Per cui, se lo studente-lavoratore si infortuna o addirittura perde la vita, i responsabili scolastici dei progetti dell’alternanza devono essere messi sul banco degli imputati assieme ai proprietari dell’azienda. Devono subire la stessa persecuzione penale.


GLI STUDENTI IN ALTERNANZA SONO STUDENTI LAVORATORI, VANNO SINDACALIZZATI E CONTRATTUALIZZATI

Da marxisti promuoviamo la fusione tra scuola-scienza-lavoro. Ma sappiamo che tale fusione, nella sua applicazione positiva, può avvenire solo grazie ad un autentico governo dei lavoratori costituente un ordinamento socialista. In regime capitalistico questo può diventare solo occasione di sfruttamento e di dumping delle condizioni di lavoro. Ecco perché, come Partito Comunista dei Lavoratori, ne rivendichiamo l’abolizione. Se una partecipazione attiva all’organizzazione del lavoro dell’impresa può tornare utile allo studente, in regime attuale entro termini ben definiti, ebbene questi deve essere inquadrato come un lavoratore, contrattualizzato, con un mansionamento limitato al contenuto del progetto di formazione, e con piena agibilità sindacale, anche nell’elezione di propri rappresentanti. È la via per ricomporre il tessuto sociale della classe lavoratrice, i suoi comparti, i reparti più arretrati con quelli più avanzati e più forti sul piano organizzativo e negoziale.


LA NECESSITÀ DELL'OPPOSIZIONE AL SISTEMA

In questi decenni di conformismo governista, dove essere un partito di massa significa candidarsi per fare meglio di altri gli interessi della classe capitalista, per essere più bravo di altri a garantire l’”unità nazionale”, cioè la “pace sociale”, dove tutti parlano di governo e di amministrazione, anche alcuni di quelli identificati come “sinistra radicale” che inseguono compatibilità con la politica dominante chiamandole “realismo”, è scomparsa a livello di massa la cultura politica dell’opposizione sistemica. L’opposizione totale, generale, a tutti i livelli, ai processi direzionali politici ed economici. L’opposizione fondata sulla lotta di classe. L’opposizione incompatibile con il governo dei rapporti capitalistici, sul piano nazionale come su quello locale.
La costruzione di questa opposizione politica, degli strumenti che questa intende mettere in campo e sviluppare nel vivo della contraddizione capitale-lavoro, non è la preoccupazione dei più, nemmeno tra quelli che pure rifiutano strumenti come l’alternanza scuola-lavoro e l’ambiente istituzionale che li genera. Infatti, molti di loro pensano che governando quell’ambiente lo si può cambiare, con un sistema di alleanze progressive. Dimenticano che se non c’è più una sinistra di classe, di opposizione di massa, lo si deve proprio a quelle impostazioni conciliazioniste e corresponsabili della governabilità capitalistica.
Il discorso da fare invece è proprio l’opposto. Ricomporre il movimento operaio, costruire il blocco popolare anticapitalistico attorno ad esso, inserire, dentro ogni lotta e resistenza alle politiche dominanti, la prospettiva del governo dei lavoratori fondato sulle loro organizzazioni. L’unica prospettiva di governo che deve interessare le masse subalterne al capitale. Costruire il partito di classe, anticapitalista e rivoluzionario, vuol dire dotarsi dello strumento programmatico che fornisce unità e correlazione agli interventi politici dispiegati in tutti i fronti di lotta, per lavorare verso questa prospettiva. E’ il percorso di lavoro politico che si è dato il Partito Comunista dei Lavoratori.

Partito Comunista dei Lavoratori - Friuli-Venezia Giulia

L'operazione truffa di Rizzo e Giannini


 L'appello “Ora l'unità. Per il partito comunista in Italia” è una truffa. Lo è sia dal punto di vista dell'evocazione unitaria che dei contenuti di merito. Infatti non è né unitario né comunista.


Innanzitutto non è unitario, se non nella finzione retorica. Da un lato liscia il pelo alla domanda di un'indistinta unità comunista di tanti compagni e compagne indirizzandola verso i partiti comunisti italiani, i loro gruppi dirigenti, i loro segretari. Come dire “noi siamo per l'unificazione di tutti, chi non ci sta ne risponda”. Dall'altro lato lo stesso appello afferma giustamente che l'unificazione «può verosimilmente avvenire solo sulla base prioritaria ed essenziale di una forte affinità ideologica e politico-teorica tra le parti». Un concetto ribadito in modo insistente nella lettera aperta di accompagnamento dell'appello, e nell'immediato commento di plauso di Marco Rizzo.
Bene. Noi siamo d'accordo con questo concetto. Una unificazione senza una base programmatica comune sarebbe un pasticcio senza futuro. È fallita con Rifondazione nonostante disponesse di un bacino di massa, a maggior ragione fallirebbe come operazione a freddo tra piccoli partiti. Ma se gli stessi primi firmatari dell'appello pongono come condizione dell'unificazione la «forte affinità ideologica e politico-teorica» sono loro stessi a confessare che l'unificazione generale evocata dall'appello con toni retorici, solenni e struggenti, è solo una finzione penosa. L'unificazione proposta è, legittimamente, quella tra chi condivide le posizioni di Marco Rizzo e Fosco Giannini. Un'unificazione in casa propria. Auguri, ma cosa c'entrano gli altri?

Ma soprattutto le posizioni di merito di Marco Rizzo e Fosco Giannini, poste a condizione dell'unità dei comunisti, non hanno nulla a che vedere col comunismo.
La sostanza dell'appello è la seguente: siccome il mondo cammina verso la guerra, occorre stringersi attorno alla Cina di Xi Jinping quale «cardine del fronte antimperialista in progress», e attorno alla Russia di Putin «avversario politicamente indomabile» dell'imperialismo. Bisogna che si «osteggi ogni equidistanza tra l'imperialismo USA e dei suoi alleati e la Repubblica Popolare Cinese». Va rivendicata l'uscita dell'Italia dalla NATO, dalla Unione Europea, dall'euro, per recuperare la sovranità nazionale dell'Italia, oggi svenduta a Bruxelles e ridotta a un paese Quisling.

È una legittima posizione sciovinista. Quella contro cui nacque la Terza Internazionale comunista.

1) Se il mondo cammina verso una possibile guerra occorre contrapporsi a tutti gli imperialismi nel nome della fraternizzazione internazionale degli operai. “Il nemico è in casa nostra” è la parola d'ordine essenziale. In casa nostra il nemico è innanzitutto l'imperialismo USA, gli imperialismi europei, e l'imperialismo italiano. Imperialismi dei quali vanno denunciati e sbugiardati gli interessi economici, militari, diplomatici, fautori di guerra, a partire dalla NATO. Ma la contrapposizione al nemico di casa nostra va fatta dall'angolo di visuale della nostra classe e di una prospettiva di rivoluzione, non dal versante degli imperialismi rivali e dei loro interessi.
La Cina è oggi una potenza imperialista che saccheggia buona parte dell'Africa, usa l'arma del debito come strumento di dominio su altre nazioni, contende palmo a palmo all'imperialismo d'occidente il controllo delle zone di influenza, esercita sfruttamento sui salariati di casa propria cui nega spesso i diritti sindacali più elementari. Lo stesso vale, in forma diversa e più limitata, per la Russia. Perché allora i lavoratori italiani, europei, americani, che giustamente vanno chiamati a denunciare i propri governi e i propri sfruttatori, dovrebbero sostenere l'imperialismo cinese? E perché dovremmo chiamare gli operai cinesi e russi a solidarizzare coi propri governi e i propri imperialismi nella spartizione delle zone di influenza?
L'appello di Rizzo e Giannini oltretutto non solo sostiene l'imperialismo cinese ma addirittura lo presenta come “cardine del fronte antimperialista”. Quindi, se le parole hanno un senso, come guida e faro del proletariato mondiale. È una posizione delirante, in ogni caso antiproletaria e anticomunista.

2) L'Italia non è affatto un “paese Quisling”, cioè una colonia o semicolonia degli USA e di Bruxelles. È un paese imperialista, seconda potenza industriale d'Europa, in concorrenza con l'imperialismo tedesco per l'egemonia nei Balcani, impegnato a contendere alla Francia l'egemonia in Nord Africa, interessato a pattuire con la Francia una penetrazione economica in Africa. Certo, dobbiamo rivendicare la rottura dell'Italia con la NATO e con l'Unione Europea imperialistica, ma dal versante degli interessi della nostra classe, in solidarietà con i lavoratori tedeschi, francesi, americani, per una comune prospettiva internazionale anticapitalista e socialista. Viceversa, contrastare la NATO e la UE nel nome della sovranità mutilata dell'Italia, cioè dell'imperialismo italiano, significa lisciare il pelo alle destre reazionarie e alla loro retorica nazionalista. “Via dalla NATO, dalla UE, dall'euro” senza altre specificazioni è oggi formalmente uno slogan anche di Forza Nuova e CasaPound. È un fatto. Non diciamo ovviamente che “allora Rizzo è fascista”. Diciamo che le sue posizioni lisciano il pelo alla destra, la quale spesso ricambia con toni affettuosi. È la filosofia del rossobrunismo, cara a Diego Fusaro, quella del superamento del vecchio confine tra destra e sinistra, quella che contrappone i diritti sociali ai diritti civili... Appunto le posizioni di Rizzo. Cosa c'entrano i comunisti con tutto questo?

Colpisce che in un appello che si offre come fondamento dell'unità comunista non vi sia alcun cenno alla prospettiva socialista, né ad un programma d'azione anticapitalista, né a un bilancio dei decenni passati.
Le uniche misure della borghesia italiana che vengono denunciate sono quelle prese dai governi degli ultimi anni, dall'articolo 18 in su. Nulla invece sulle responsabilità determinanti dei governi di centrosinistra che Marco Rizzo e Fosco Giannini hanno appoggiato. Quei governi che hanno realizzato il lavoro interinale, il record delle privatizzazioni in Europa, il bombardamento su Belgrado, la detassazione dei profitti di industrie e banche, il finanziamento delle missioni militari in Afghanistan. Su tutto questo un pietoso silenzio, e non è un caso. L'unificazione attorno a Rizzo e Giannini non può che rimuovere pudicamente le responsabilità di entrambi. Anche in fatto di sostegno alla NATO.

In conclusione. L'unità dei comunisti è buona e giusta, ma può avere un futuro solo se avviene in un partito comunista, quindi attorno ai principi del marxismo rivoluzionario: l'indipendenza di classe da ogni governo borghese e da ogni imperialismo; una prospettiva socialista internazionale; la riconduzione degli obiettivi immediati di lotta ad una prospettiva di rivoluzione. Erano i fondamenti su cui venne fondato il Partito Comunista d'Italia nel 1921, il partito diretto da Bordiga, Gramsci, Tresso. Il partito distrutto politicamente dal PCI per mano di Stalin,Togliatti, Secchia.
Il PCL è interessato a ricostruire il PCd'I, Marco Rizzo a riesumare il PCI. Non può esserci confusione tra due prospettive tra loro incompatibili. Da un lato i comunisti, dall'altro gli stalinisti.

Partito Comunista dei Lavoratori

Quel pasticciaccio brutto di Paolo Maddalena


 La candidatura di un antiabortista a Presidente della Repubblica da parte di Rizzo e PRC

«Quella [la candidatura] di Paolo Maddalena è un’ottima proposta che come Rifondazione Comunista non possiamo che apprezzare non solo perché tra proponenti ci sono anche parlamentari che ci rappresentano e collaborano con noi. Maddalena è un giurista che da anni condivide con noi la critica del neoliberismo [...] È un giurista democratico che crede fermamente nei principi costituzionali [...] Un candidato che [...] risponde al principale requisito per un Presidente della Repubblica: essere il garante della Costituzione.». È la pubblica dichiarazione di Maurizio Acerbo che campeggia sul sito del Partito della Rifondazione Comunista.

Disgraziatamente Paolo Maddalena, ex membro della Corte Costituzionale, a lungo consulente della DC all'epoca della Prima Repubblica, è un fervente cattolico antiabortista, nemico della legge 194 che accusa di aver «provocato milioni di morti innocenti». Siccome la Costituzione tutela la vita, si tratta di una legge anticostituzionale che va cancellata (post Facebook di Paolo Maddalena, 22 maggio 2018). Questa posizione reazionaria non appartiene solamente alla biografia della persona, ma anche al suo orientamento attuale. Com'è possibile che partiti della sinistra di classe possano presentare come “candidato dell'alternativa” (testuale) un ex magistrato antiabortista?

Di certo non si può sostenere che il tema dell'aborto sia materia secondaria, visto che riguarda direttamente metà del genere umano e un diritto democratico universale, oltretutto oggetto oggi di scontro e mobilitazioni di massa del movimento delle donne in ogni angolo del pianeta. Il fatto che sia stata eletta alla Presidenza del Parlamento europeo una dichiarata antiabortista (la maltese Roberta Metsola), votata anche dal centrosinistra, è la riprova della sua attualità. Né si può sostenere che il tema non riguardi la materia istituzionale, visto che rientra più che mai nel rapporto tra Stato e Chiesa, per di più in Italia, per di più in un contesto politico di conflitto aperto riproposto dal tema dell'eutanasia. Ribadiamo dunque la domanda: come è possibile che Rifondazione Comunista e Potere al Popolo possano aver anche solo pensato di candidare un simile personaggio alla Presidenza della Repubblica?

Capiamo l'entusiasmo con cui il PC di Marco Rizzo sostiene la candidatura di Maddalena. Per un partito stalinista tendenzialmente misogino, che contrappone i diritti sociali ai diritti civili, la candidatura di un antiabortista, nemico dichiarato dei matrimoni gay, è persino naturale. Ma cosa c'entrano con tutto questo PRC e PaP, da sempre presenti nei diversi movimenti di emancipazione e liberazione?

Abbiamo letto che ieri sera PaP ha ritirato il proprio sostegno a Maddalena, dopo l'esplosione dello scandalo sui social. Potremmo dire: meglio tardi che mai. Anche se il ripetersi di pentimenti tardivi (dopo quello sul candidato D'Orsi pro PD a Torino) qualche interrogativo dovrebbe porlo sulla chiarezza della linea.

E tuttavia sarebbe troppo semplice liquidare la questione come un errore. Non solo perché la candidatura resta in piedi col pieno sostegno del PC e del PRC. Ma anche perché la candidatura di Maddalena è in ultima analisi il riflesso condizionato di un orientamento politico culturale aclassista presente da tempo nella galassia post-Rifondazione. È l'eterna ricerca di candidati civici, al di sopra dei partiti e della classi, nel nome della Costituzione (borghese) di De Gasperi e Togliatti come “Costituzione di tutti”. È la ricerca che ha selezionato Ingroia e Di Pietro, poi Barbara Spinelli, e oggi De Magistris, recentemente proposto dal PRC come candidato dell'alternativa per le prossime elezioni politiche. Persone certo diverse tra loro in fatto di biografie personali, ma tutte attinte da un vivaio populista di sinistra. Che può anche mimare, all'occasione, una retorica sociale antiliberista, spesso peraltro declinata in chiave sovranista e patriottica (“difesa della sovranità dell'Italia dalla finanza tedesca e dalla burocrazia di Bruxelles”, ecc. ecc.), come spesso fa anche la cultura reazionaria. Ma assumere queste pose come prova di affidabilità, anche solo democratica, significa prendere lucciole per lanterne e andare inevitabilmente a schiantarsi.

E infatti. Ogni volta i candidati civici prescelti cui viene affidato (sempre solennemente) il futuro della sinistra, si rivelano bidoni autocentrati, unicamente vincolati al mandato del proprio ego e delle proprie ambizioni. Ogni volta segue l'immancabile autocritica, più o meno impacciata, di chi li ha proposti. Ma ogni volta si ricomincia da capo come se nulla fosse accaduto. L'infortunio di Maddalena antiabortista non è minore dell'infortunio di Ingroia e Di Pietro questurini, contrari persino all'indagine sulla polizia del G8 di Genova. Quando si cercano candidati al di sopra delle classi, “amici del popolo” (e dello Stato), è un esito fatale. Non un'eccezione ma la norma, aggravata dalla coazione a ripetere.

Come Partito Comunista dei Lavoratori ritroviamo in tutto questo una ragione in più per confermare la nostra politica classista, proprio per questo coerente anche sul terreno democratico. Una sinistra che non ritrovi coerentemente il proprio campo di classe difficilmente avrà un futuro diverso dal suo presente.

Partito Comunista dei Lavoratori

La responsabilità di quattromila morti

 


La scelta di non fare la zona rossa in Val Seriana. La nostra denuncia confermata dall'indagine

Quattromila morti che si sarebbero potuti evitare, se solo si fosse recintata la Val Seriana come zona rossa. È l'esito dell'indagine che la Procura di Bergamo ha affidato al dottor Crisanti per avere da lui una risposta strettamente epidemiologica. Cinque i quesiti che la Procura ha posto a Crisanti. Il quinto era il più spinoso: esistevano le condizioni sanitarie di necessità accertata per realizzare la zona rossa in Val Seriana, e come possono essere quantificate le conseguenze per non averla fatta? Crisanti ha dovuto studiare per rispondere dodicimila pagine di dati clinici. Ora ha risposto: “Sì, c'erano le condizioni di necessità per fare come a Codogno una zona rossa. Non averla fatta ha comportato almeno quattromila vittime” aggiuntive.

Crisanti si è limitato, com'è giusto, a una risposta strettamente clinica. È quello che gli è stato richiesto. Ma la risposta clinica investe obiettivamente le responsabilità politiche. Il governo italiano, il Presidente del Consiglio Conte e il ministro della Salute Speranza sono coloro che decisero di non varare la zona rossa in Val Seriana, assieme al presidente della regione Lombardia Attilio Fontana. Decisero di non vararla non sulla base di considerazioni sanitarie, ma perché hanno scelto di allinearsi alla richiesta dei vertici di Confindustria regionali (Bonomi e Bonometti) di non bloccare la produzione per non danneggiare l'economia. Erano i giorni in cui la Confindustria di Bergamo gridava al mondo “Bergamo is running”, la produzione corre e deve correre, per rassicurare i propri clienti e soprattutto il proprio portafoglio. Il governo ha scelto Confindustria invece che la vita. Quattromila morti è il prezzo della scelta.

Ora i responsabili debbono pagare. Tutti. Il nostro partito fu il primo a denunciare anche in sede giudiziaria presso la Procura di Bergamo le responsabilità criminali di quella scelta. Ora chiediamo giustizia assieme ai parenti delle vittime, senza guardare in faccia nessuno. Altro che i cortei no vax che, con 140.000 morti di Covid accusano il governo di anteporre la salute pubblica al “diritto individuale di non vaccinarsi”. Occorrerebbe una grande manifestazione di massa per accusare i ministri di ieri e di oggi, e insieme i vertici padronali, di aver subordinato la salute al profitto. Anche al prezzo di un massacro.

È il capitale la vera grande associazione a delinquere. È il profitto ad essere criminogeno. È la sua dittatura che va spazzata via, per costruire un'altra società, governata dai lavoratori e dalle lavoratrici.

Partito Comunista dei Lavoratori

Riflessioni di classe e di genere sulla legge di bilancio

 


UNA MANOVRA FISCALE CONTRO LE CLASSI SUBALTERNE


La riforma del fisco del governo Draghi, inserita nella legge di Bilancio 2022 (Legge 30 dicembre n. 234) e approvata dal Parlamento in seguito al trentacinquesimo voto di fiducia posto dal governo, segnerà pesantemente l'anno prossimo venturo e quelli successivi.
Da un punto di vista generale possiamo affermare la piena continuità con i decreti varati in estate: lo Stato, con una manovra di oltre 36 miliardi di euro, si fa carico dei costi delle imprese con generose iniezioni di denaro tra cui 2 miliardi per contenere i costi sull'aumento dell'energia, 4.1 miliardi per l'internazionalizzazione delle imprese con progetti di sviluppo e per l'acquisto di mezzi di produzione (alias beni strumentali); accanto a ciò la revisione degli scaglioni IRPEF e l'abolizione dell'IRAP (la tassa regionale che finanzia il Servizio  sanitario nazionale) per i lavoratori autonomi, le imprese individuali e i professionisti/artisti non associati, che non godono di  regimi forfetari e di vantaggio.
Per quanto concerne la revisione degli scaglioni IRPEF, secondo la visione degli economisti liberali la riduzione del cuneo fiscale dovrebbe avere come conseguenza l'avvicinamento del netto delle retribuzioni al lordo. Ma a spese ovviamente della collettività e del peggioramento del sistema pubblico, in primis sanità, scuola e pensioni.
Il lieve innalzamento della no tax area per i pensionati (che passa da 8000 a 8500 euro), e l'abbassamento delle aliquote per le fasce intermedie dovrebbe in teoria segnare una boccata di ossigeno per i lavoratori e i pensionati, secondo le fonti mainstream. In realtà con la riduzione da cinque a quattro aliquote, l’intervento favorisce i redditi tra 40 mila e 50 mila euro (risparmieranno fino a un massimo di 945 euro), mentre il lavoratore/la lavoratrice dipendente medio/a con un imponibile di 21 mila euro avrà un risparmio IRPEF di circa 180 euro (vedi prima tabella in fondo a questa pagina). Bisogna aggiungere che il bonus Renzi-Gualtieri di 100 euro rimarrà erogato ai redditi fino ai 15 mila, non più fino ai 28 mila, e che il taglio dello 0,8% dei contributi INPS per i redditi fino a 35 mila euro (l’85% dei contribuenti) è prevista come misura una tantum solo per il 2022.

Inoltre, se analizziamo i dati sui redditi ci accorgiamo che i contribuenti IRPEF sono rappresentati al 43% circa dai redditi fino ai 15mila euro che manterranno lo stesso regime di tassazione al 23%.
D’altra parte, lo stesso Ufficio parlamentare di Bilancio chiarisce che il 20% delle famiglie più povere, che si trovano nella fascia dell’incapienza fiscale, è di fatto privo di qualsiasi beneficio apportato da questa manovra. Su un totale di 41.525.892 contribuenti, 22.461.167 sono redditi da lavoro dipendente e 14.482.963 rappresentano la quota dei pensionati. In totale 36.944.130, cioè l'88,9%!
Ovviamente nessuna modifica per i redditi superiori ai 75.000 euro e nemmeno per l’IRES, l’imposta pagata da società di ogni tipo, che rimane stabile al 24%.
Valga solo la pena ricordare gli oltre cento miliardi annui di evasione sottratti al bilancio pubblico e la scarsità dei controlli su di essa (in particolare i controlli sul calcolo delle componenti positive di reddito: ammortamenti, plusvalenze, etc.).

In realtà sappiamo anche benissimo come quel piccolo margine di sostentamento andrà a coprire l'aumento delle bollette. Da gennaio, infatti, al netto dell’intervento del governo, per le famiglie in media l’aumento della bolletta dell’elettricità sarà del 55% e quella del gas del 41%.

Infine, per effettuare un veloce pinkwashing (1), “il governo dei migliori” ha pensato anche alle donne: benefici contributivi a favore del datore di lavoro (cit. art 36) alle imprese che assumeranno donne, l’istituzione del Fondo Impresa Donna, che prevede contributi a fondo perduto e finanziamenti agevolati per favorire l’imprenditoria femminile, la continuità di Opzione donna per il 2022 per il pensionamento e - udite, udite - la diminuzione dell'aliquota IVA dal 22% al 10% sui prodotti per l’igiene femminile non compostabili.


L’ASSEGNO UNICO UNIVERSALE PER I FIGLI: L'ARCHITRAVE DELLA POLITICA FAMILISTA DEL GOVERNO DRAGHI

Associata a iniziative che si ispirano al principio dell’empowerment femminile, caposaldo del femminismo borghese, il governo procede con il Family Act, mettendo a punto l’Assegno unico universale per i figli (AUUF), una misura a contrasto della denatalità, che in un’ottica femminista classista non può che suscitare diverse contrarietà. Si tratta di un sostegno ai nuclei familiari con figli* a carico (dal 7° mese di gravidanza fino al 21° anno di età (a meno che non abbiano una occupazione), senza limiti in caso di disabilità, che andrà a sostituire tutte le misure di sostegno previste fino a oggi (compresi gli assegni e le detrazioni fiscali per i figli, che saranno erogati fino a febbraio). 

Viene erogato direttamente dall’INPS e attribuito sulla base della condizione economica del nucleo familiare (ISEE), da un minimo di 50 euro a un massimo di 175 euro per figli* minorenni e da un minimo di 25 euro a un massimo di 85 euro per figli* maggiorenni. Sono previste maggiorazioni per ciascun* figli* successiv* al second* (vedi seconda tabella in fondo a questa pagina). Una misura esplicita che premia le famiglie prolifiche, il tutto retto sul lavoro riproduttivo delle donne. Con la differenza che le famiglie agiate potranno, pure con il sostegno economico del governo, sfruttare il lavoro delle donne proletarie per l’incombenza dei lavori domestici e di cura.

È stata largamente applaudita l’universalità della misura, perché lo avranno a disposizione anche gli incapienti (cioè chi ha redditi inferiori a 8 mila euro e che quindi non gode di detrazioni fiscali), gli/le/l* inoccupat* e chi lavora con contratti precari. Però lo potranno ricevere proprio tutte le famiglie, pure dove ci sono redditi alti e grossi patrimoni, tanto che, anche non presentando l’ISEE, comunque si avrà il minimo previsto! 

È stato però anche calcolato che per i lavoratori e le lavoratrici dipendenti meno abbienti il nuovo sistema potrebbe essere penalizzante e che circa il 10% delle famiglie ci andrà a perdere (mentre per circa il 18% non cambierà praticamente niente), essendo l’importo dell’assegno unico inferiore a quello dell’assegno al nucleo familiare e alle detrazioni fiscali. Questo una volta che verrà meno la clausola di salvaguardia (andrà a scalare fino a sparire nel 2025) che integrerà la differenza.

Anche chi percepisce il reddito di cittadinanza (già abbondantemente considerat* dalle misure governative un soggetto da punire) è trattato in modo iniquo, in quanto l’importo dell’assegno verrà decurtato dal sostegno. Un intervento che si aggiunge, tra l’altro, ad altre criticità e condizionalità peggiorative presenti nel reddito di cittadinanza: oltre alle previste 16 ore settimanali di lavoro gratuito (spacciate come “progetti utili per la comunità”), la riduzione del reddito di 5 euro al mese a partire dal rifiuto  di una offerta di lavoro (che può prevedere una distanza anche di 80 Km!) e la revoca totale del reddito al secondo rifiuto di una offerta di lavoro che non prevede nessun limite di distanza e il vincolo ignobile di  dieci anni di residenza per cittadin* extracomunitari*. A quest* ultim*, invece, per potere accedere all’Assegno unico sarà chiesto il permesso unico di lavoro o di ricerca di 6 mesi. Alla faccia dell’universalità, che toglie proprio a chi ha più bisogno! 

Un’altra criticità del nuovo assegno unico consiste nella possibilità che venga richiesto in pari misura da entrambi i soggetti che esercitano la “responsabilità genitoriale”, a prescindere dal reddito. Dal momento che all’interno del nucleo familiare le donne sono generalmente quelle che guadagnano di meno, soprattutto perché si ritrovano sulle spalle il peso del lavoro di cura che le costringe molto spesso a lasciare il lavoro o ad accettare il part time, è chiaro che in una situazione di separazione, con tutte le complicazioni che comporta, ne usciranno svantaggiate.

Ma, indubbiamente, associato al tema del welfare, non possiamo dimenticare la questione centrale del salario e del lavoro, fattori imprescindibili per ogni spinta verso l’autonomia ed emancipazione femminile.

I dati dell’occupazione, di quella femminile in particolare, sono preoccupanti: nell’ultimo anno (consideriamo, secondo la rilevazione ISTAT (2), il dato da novembre 2020 a novembre 2021) sono aumentati 490 mila occupat* dipendenti (senza recuperare quelli persi dall’inizio della pandemia), ma ben 448 mila sono a termine! Il divario di genere è immediatamente tangibile, con un tasso di occupazione femminile del 49,9% contro un 68% di quella maschile.

Un'occupazione che sconta un enorme divario retributivo complessivo, dovuto soprattutto alla discontinuità lavorativa, alle minori ore lavorate (per svolgere lavoro domestico e di cura) e ai part time involontari.


PENSIONI: DALLA PADELLA ALLA BRACE

Una riflessione a parte è necessaria per le pensioni, con il ritorno a pieno regime alla Legge Fornero.

Nel corso degli ultimi trent'anni, la tendenza affermatasi nel sistema previdenziale riguarda l'innalzamento dell'età pensionabile con elementi di flessibilità in uscita (che comportano sempre penalizzazioni); l'innalzamento dei requisiti minimi in termini di anzianità contributiva e l’annullamento progressivo della componente retributiva, la conseguente rivalutazione delle pensioni sganciata dai salari reali e ancorata all'andamento dell'inflazione; la creazione di sistemi di previdenza complementari affiancati a quello pubblico.
Soprattutto il passaggio dal regime retributivo a quello contributivo ha determinato un drastico abbassamento delle rate pensionistiche percepite, pur essendo il nostro, un sistema ancora basato sul principio della ripartizione, secondo il quale le pensioni sono finanziate dai contributi versati da* lavorat* attiv* 
In breve, la novità principali sulla riforma delle pensioni prevista dal governo Draghi: per il 2022 si passa da quota 100 del governo Lega-M5S (62 anni di età + 38 anni di anzianità contributiva), a quota 102 (64 + 38), ci sarà il rinnovo di Opzione donna e la proroga dell’APE Sociale (introdotta dalla legge di Bilancio nel 2017).
Questo anno transitorio dovrebbe giungere al 2023 con l'obiettivo da parte del governo di un ricalcolo interamente contributivo dell'assegno pensionistico, anche per coloro che avrebbero potuto beneficiare di un trattamento misto in base a quanto previsto dalla normativa precedente.


PINKWASHING SUI PROBLEMI DEL LAVORO E "OPZIONE DONNA". IL FEMMINISMO BORGHESE SI ACCONTENTA DEI TAMPAX

Nel 2022 per le donne l'uscita anticipata (rispetto alle attuali norme) con Opzione donna non arriverà a 60 anni, come era stato previsto. In breve: l'uscita anticipata sarà a 58 anni per il settore pubblico e a 59 anni per le lavoratrici autonome, con almeno 35 anni di versamenti entro il 2021 (ma senza il riconoscimento di periodi di malattia e disoccupazione). Rimarrà comunque la penalizzazione dovuta all’applicazione della finestra mobile, per cui tra la maturazione del diritto e l’accesso alla pensione passeranno 12 mesi per le lavoratrici dipendenti e 18 per le autonome.
Non dimentichiamoci però che Opzione donna fu introdotta dalla riforma Maroni (legge 243/2004), insieme al famoso bonus e al rafforzamento della previdenza complementare. Chi dovesse scegliere questa eventualità accetterebbe il ricalcolo della pensione interamente basato su sistema contributivo, anche per coloro che potrebbero beneficiare del sistema misto con il ritorno alla legge Fornero.

Sappiamo che nel 2019 le richieste per l’Opzione donna accolte dall'INPS sono state 21.090 e nel 2020 14.510. Le lavoratrici che decideranno per Opzione donna, per effetto del passaggio al sistema di calcolo totalmente contributivo, subiranno mediamente una decurtazione sull'assegno pensionistico intorno al 25/30 %, con delle variabili a seconda dell'età della lavoratrice, delle caratteristiche di carriera, della retribuzione e infine dell'anzianità contributiva maturata alla data di un'eventuale decisione all'accesso. 
Opzione donna è una formula di pensione anticipata (quella che ha sostituito con la riforma Fornero la pensione di anzianità) che, secondo tutti i governi che l’hanno propagandata, dovrebbe consentire l'uscita dal mondo del lavoro in maniera agevolata rispetto all'ordinaria pensione di vecchiaia.
È bene invece sottolineare come molte lavoratrici siano giustamente in dubbio sul decidersi, proprio per le ragioni che abbiamo spiegato (calcolo dell’assegno interamente con il sistema contributivo con il conseguente taglio dell’importo). Il taglio del 25/30% in euro è una somma alta (facendo un esempio su una lavoratrice non turnista del settore infermieristico con 30 anni di lavoro ed uno stipendio di 1650 euro, il taglio sarebbe di circa 450 euro).
La quota di pensione senza Opzione donna avrebbe il calcolo con sistema misto (retributivo e contributivo). Ovviamente, semplificando: più tardi si esercita l'Opzione donna minore sarà l'impatto sull’importo dell’assegno pensionistico, mentre maggiori sono i contributi versati e la carriera lavorativa antecedenti al 1996 maggiore sarà il taglio, che potrà superare il 30%. Cioè meno anni cadono nel calcolo retributivo, minore sarà l'impatto economico.
È così che la disparità di genere comporta per le donne non solo in età lavorativa il divario salariale, ma legato a questo, un accesso alla pensione con forti elementi di penalizzazione. 
E un peso del lavoro di cura che in età avanzata tende tutt’altro che ad alleggerirsi. 

Dobbiamo lottare per non essere costrette, per accedere alla pensione, a cadere nella trappola delle misure di governi che tutelano da sempre i padroni e i pochi ricchi a danno dei moltissimi proletari e dei soggetti più poveri. In un sistema in cui a rimetterci, sia lavorativamente che - in genere - socialmente, sono sempre lavorat* dipendenti, pensionat* e classi popolari.
Ci raccontano che l'INPS è in crisi. Vero è piuttosto che la cassa integrazione Covid, nel periodo pandemico, è stata sostenuta dalla fiscalità generale, gravando anche sulle casse dell’INPS, il tutto per agevolare il padronato, garantendone la continuità dei profitti. 
Di cosa stiamo parlando? Di un sistema che incarna gli interessi del capitale, che utilizza i media e l'informazione nel celare le verità ed esaltare argomenti falsi e tendenziosi che allontanano dai veri problemi di chi non gode di privilegi sociali e vive di lavoro salariato. 
Ma soprattutto, invece di stimolare ipocritamente lo scontro generazionale, mascherando le misure contro chi oggi è arrivato all’età della pensione come un beneficio per i giovani, bisogna intervenire sui salari e sulla condizione lavorativa generale, dando lavoro redistribuendolo tra tutt*, con la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario. Con una attenzione particolare proprio per chi, come le donne e giovani, lavora in condizioni di precarietà e discontinuità, che vanno cancellate definitivamente.


LE NOSTRE RIVENDICAZIONI

È importante stabilire di cosa ci sia bisogno, dal nostro punto di vista, quello di classe, per emancipare le donne e la famiglia stessa e per dare centralità alla crescita delle nuove generazioni. Una delle priorità è lo sgravamento dai costi e dalla fatica del lavoro di cura, che rimane sempre sulle spalle delle donne e delle famiglie delle classi subalterne. Servono, nella prospettiva della socializzazione del lavoro di cura, servizi pubblici gratuiti, con la nazionalizzazione  dei servizi necessari alla cura di anziani e bambini; una scuola laica, pubblica, organizzata democraticamente e collettivamente, su cui investire grandi risorse (tutto il contrario di quanto fatto dal governo con la legge di Bilancio, in una fase in cui la scuola sta subendo pesantemente i colpi della pandemia); case e piani di edilizia popolare, con l’esproprio del patrimonio delle grandi immobiliari e l’utilizzo di tutte le case sfitte.

Queste rivendicazioni devono essere un bagaglio nelle nostre lotte quotidiane, nella prospettiva di realizzare, con l'abbattimento della società capitalistica etero-cis-patriarcale, il nostro obiettivo, quello di una società che si faccia carico dell’educazione e del mantenimento delle nuove generazioni, facendo venire meno il modello di famiglia come nucleo economico piuttosto che come unione di affetti e solidarietà.

Oltre a tutto quello che apre la prospettiva verso la socializzazione del lavoro di cura dobbiamo rivendicare, insieme alla già citata riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario (30 ore pagate 40) per redistribuire il lavoro tra tutt*, un salario minimo intercategoriale fissato per legge di 1500 euro, un salario garantito a* disoccupat* e a chi e in cerca di lavoro, il ripristino dell’art. 18 (e la cancellazione del Jobs Act), l’eliminazione di tutte le forme di lavoro precario (tipologie contrattuali, appalti, ecc.), il blocco permanente dei licenziamenti (l’ultimo sblocco coinvolge il settore del terziario, ad alta presenza di manodopera femminile!), l’esproprio e la nazionalizzazione senza indennizzo e sotto controllo operaio di tutte le aziende che licenziano, delocalizzano ed inquinano.

Ma anche una patrimoniale del 10% sul 10% più ricco, per recuperare le risorse da chi ha già abbondantemente rapinato e un sistema di tassazione fortemente progressivo.
E una riforma delle pensioni che faccia a pezzi tutte le controriforme pensionistiche, per ritornare al sistema retributivo (con 60 anni per la pensione di vecchiaia e 35 anni per la pensione di anzianità), dopo una vita lavorativa in cui a tutt* sia garantito un lavoro completo di tutele in ogni settore.

Come Partito Comunista dei Lavoratori pensiamo fermamente che si debba tornare a riempire le piazze, lanciando una vertenza e mobilitazione generale, costruendo nell’impegno quotidiano l’unità delle lotte, trasformando la comprensibile delusione di molti lavoratori e lavoratrici in forza e voglia di riscatto. Bisogna cambiare il corso della storia con una svolta radicale e rivoluzionaria. Dobbiamo difendere tutti i diritti e conquistarne di nuovi. Contro ogni oppressione di genere, del cis-etero-patriarcato figlio del capitale, e contro ogni repressione sociale - a cominciare da quella che insieme alle discriminazioni dilaga nei luoghi di lavoro.  
Per un futuro in cui ciascun* potrà realizzarsi e autodeterminarsi, all’interno di una società che si farà carico collettivamente di tutti i bisogni, liberando il tempo e la vita delle donne e de* singol* dal giogo della fatica del lavoro riproduttivo e di cura, e abbattendo gli ostacoli al compimento di una umanità che viva relazioni interpersonali libere e svincolate dallo sfruttamento e dalla dipendenza.





(1) Il pinkwashing è una strategia di marketing che utilizza l’immaginario e i simboli dell’emancipazione femminile, anche schierandosi apparentemente per alcune cause, al fine di vendere un prodotto. In senso traslato si intende qualsiasi atteggiamento mistificatorio e iniziativa dell’ideologia borghese e del potere statale che si dichiari a favore dell’emancipazione delle donne, perseguendo al contrario l’obiettivo del controllo sociale.

(2) https://www.istat.it/it/files//2022/01/CS_Occupati-e-disoccupati_NOVEMBRE_2021.pdf

Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione donne e altre oppressioni di genere
primaimmagine

Gli effetti della riforma Irpef 2022 (immagine dal Fatto Quotidiano)

seconda immagine

Gli importi dell’assegno unico (immagine dal Sole 24 Ore)



La nuova emergenza sanitaria e le mezze misure del governo

 


La società borghese, vera alleata della pandemia

10 Gennaio 2022

Senza eliminare il parassitismo del capitale non è possibile eliminare la pandemia

Abbiamo ampiamente analizzato in questi due anni la parabola della pandemia mondiale, le responsabilità del capitale nel suo innesco, nella sua propagazione, nell'incapacità di contrastarla con mezzi proporzionali alla sua gravità. Parallelamente ci siamo assunti la responsabilità di combattere apertamente le ideologie dei no vax e no green pass, in tutte le loro diverse declinazioni, da un punto di vista classista. La nuova moltiplicazione del contagio Omicron e le ultime misure varate dal governo confermano le nostre posizioni su entrambi i versanti.

Partiamo dal principio di realtà.

Le varianti si moltiplicano perché il tasso di vaccinazione sul piano mondiale è spaventosamente diseguale. È vero, i paesi poveri non sono sempre e necessariamente quelli più colpiti dal contagio e dalla sua letalità, nonostante il loro tasso di vaccinazione sia molto basso, talora inesistente. Incidono infatti anche il fattore demografico e climatico, come la possibile barriera di altre vaccinazioni pregresse. È in parte il caso dell'Africa, ad esempio. Tuttavia è nei paesi a bassa o inesistente vaccinazione che il virus circola liberamente senza incontrare ostacoli, moltiplicando per questa via le proprie mutazioni. L'India e il Sudafrica, non a caso, sono stati la culla di Delta e di Omicron. L'indifferenza no vax per la vaccinazione mondiale “perché tanto il vaccino non serve, come dimostra l'Africa” è dunque al tempo stesso cinica e stupida. Non solo perché nei paesi poveri ci si contagia e si muore eccome, spesso in misura inversamente proporzionale al tasso di vaccinazione (come ha dimostrato l'esperienza di buona parte dell'America Latina o quella dell'Est Europa), spesso con numeri sottostimati, perché mancano sistemi sanitari e di rilevazione. Ma anche perché in ogni caso la loro bassa vaccinazione è un fattore di moltiplicazione delle varianti, con un inevitabile impatto mondiale anche all'interno delle metropoli imperialiste. L'angolo di sguardo sovranista in materia sanitaria è dunque non solo reazionario ma orbo. Non solo assolve il proprio imperialismo ma è anche nemico della propria salute.

L'impatto di Omicron non si misura in base alla pericolosità individuale ma alla sua ricaduta sanitaria generale. Se anche Omicron è meno pericoloso per l'individuo (perché colpisce più i bronchi che i polmoni), il suo tasso di contagiosità è talmente più elevato rispetto a Delta che la risultante in termini assoluti in fatto di ricoveri e decessi può essere superiore. Soprattutto se la crescita del contagio mantiene l'attuale dinamica esponenziale.
La crescita di ricoveri e terapie intensive negli ospedali diventa infatti non solo un fattore di crescita dei decessi per Covid, ma un fattore di riduzione verticale degli altri trattamenti sanitari, anche gravi (cancro, ictus, infarto...), che possono colpire ogni fascia di età.
L'idea per cui Omicron è meno pericoloso “per me” quindi chissenefrega del vaccino è dunque demenziale anche... “per me”, oltre ad essere odiosa verso il resto della società. Nella stessa categoria rientra l'argomento secondo cui “il Covid minaccia i non vaccinati, se la vedano loro”. Che il Covid minacci soprattutto i non vaccinati non ci piove. Basta vedere il tasso dei non vaccinati su ricoveri, terapie intensive e decessi, in rapporto alla loro percentuale complessiva nella popolazione. Solo la stupidità accecata dal pregiudizio o dall'ignoranza può non cogliere questa assoluta evidenza. E tuttavia l'argomento di Marco Travaglio secondo cui il suicidio è una scelta democratica e chissenefrega è anch'esso cieco. L'aumento dei ricoveri e delle terapie intensive, fosse pure dei non vaccinati, colpisce infatti milioni di vaccinati che non possono accedere a un pronto soccorso intasato, trovare un letto in ospedale, ottenere una visita oncologica... Ancora una volta il piccolo-borghese, anche di salsa giustizialista, rimuove con l'interesse sociale anche il proprio interesse. Il “suicidio” del non vaccinato riguarda anche lui, a dispetto del suo cinismo.

È vero invece che se sono i non vaccinati, in larghissima misura, a occupare gli ospedali, e lo sono, la massima estensione della vaccinazione di massa è una necessità e un'urgenza sociale.
Questa evidenza logica è contestata a volte da una argomentazione che vorrebbe apparire “di sinistra”. Non parliamo ovviamente dell'argomento ridicolo “siete servi delle multinazionali del farmaco”. Perché sino al loro auspicabile esproprio – che siamo i soli a rivendicare, peraltro – i farmaci sono tutti prodotti da loro (più precisamente dai loro operai). Così come i cappotti sono prodotti dall'industria tessile, senza che nessuna persona che li indossa in pieno inverno possa essere accusato per questo di servilismo verso i capitalisti.
Ci riferiamo invece ad un altro argomento, apparentemente più serio: “Invece di fissarvi sulla vaccinazione, occupatevi dello sfascio della sanità, dei tagli cui è stata sottoposta, della mancanza di personale, o del fatto che i tamponi sono oggetto di speculazione, ecc. ecc.”. È un'argomentazione illogica. Noi ci siamo occupati pressoché tutti i giorni della denuncia dello sfascio della sanità pubblica. Anche quando a tagliarla erano i governi di centrosinistra col sostegno della sinistra cosiddetta radicale, tra cui anche qualche nostro critico. Ma perché mettere in concorrenza tra loro, o addirittura in contrapposizione, due esigenze del tutto complementari? L'argomentazione semmai va esattamente capovolta. Proprio la necessità e l'urgenza della massima estensione della vaccinazione di massa mette a nudo lo sfascio della sanità pubblica, la sua incapacità di affrontarla con le risorse e i tempi dovuti, l'ipocrisia del governo Draghi (e non solo). In altri termini, proprio la campagna per un serio obbligo vaccinale consente di attaccare la gestione capitalistica della pandemia. Lo dimostra la cronaca degli ultimi giorni.

Il Consiglio dei Ministri giorni fa ha varato l'obbligo vaccinale per gli over cinquanta con la multa di 100 euro per gli inadempienti, contestualmente alla riapertura delle scuole di oggi 10 gennaio, e prima alla riduzione delle quarantene. Tutta l'ipocrisia del governo si specchia nel complesso di queste misure.

Innanzitutto: perché l'obbligo solo per gli over 50? Non abbiamo alcuna riserva sull'obbligo vaccinale. Un anno fa lo rivendicammo per gli operatori della sanità (in pieno accordo con la posizione pubblica di Gino Strada) e per il personale della scuola. Di fronte al salto obiettivo della variante Omicron l'abbiamo rivendicato ora per tutta la popolazione. E troviamo davvero singolare che un vasto ambiente a sinistra che per un anno ha contestato il green pass con l'argomento “vogliamo l'obbligo, abbiate il coraggio dell'obbligo, ecc.” ora davanti all'introduzione dell'obbligo gridi alla violazione della libertà, come se oltretutto non vi fossero già vaccini obbligatori, con tanto di sanzioni. È il caso dunque di dire che l'ipocrisia è ben distribuita anche negli ambienti meno sospetti.
Semmai il punto è opposto: perché l'obbligo solo per gli over 50? È vero che gli over 50 non vaccinati sono i più esposti al rischio ricovero, ma il rischio non è solo loro. I ricoveri dei giovani aumentano, anche quelli pediatrici. Proprio tra i giovani e i giovanissimi si concentra una parte importante di non vaccinati, che restano un problema serio anche per chi non si può vaccinare. L'obbligo vaccinale va dunque esteso all'insieme della popolazione nell'interesse della salute di tutti. Non solo ai 2,2 milioni di non vaccinati over 50, ma anche agli altri quattro milioni che sinora hanno scelto di non vaccinarsi.

L'incentivo alla vaccinazione dev'essere reale. La multa una tantum di 100 euro per gli over 50 che non si vaccinano (ingiusta perché eguale per tutti indipendentemente dal reddito) è ridicola. Tanto più per persone che hanno speso ben di più per i tamponi. Il governo ha accolto semplicemente una proposta-farsa di Salvini per ottenere il suo via libera al decreto. Ma l'obiettivo di Salvini non è spingere alla vaccinazione bensì prendere i voti dei non vaccinati. I 100 euro sono dunque la monetizzazione della rinuncia a un obbligo vaccinale serio, che richiede multe proporzionali al reddito e il lockdown per i non vaccinati. Un lockdown necessario perché non solo spingerebbe realmente alla vaccinazione ma ridurrebbe la circolazione e dunque la diffusione del contagio. Il borghese piccolo piccolo protesterà per la (sua) “libertà violata”, l'operaio che vuole la protezione vaccinale per la società e innanzitutto per la propria classe saluterebbe questa misura come efficace e seria. Con buona pace di Salvini e Meloni.

Ma c'è di più. L'obbligo vaccinale del governo, già insufficiente perché limitato a una sola fascia di età, rischia di risolversi in una misura di carta. L'enorme ritardo sulla terza dose lo dimostra. Oggi infatti il problema non è solo la quota del 10% di non vaccinati, che indubbiamente è centrale. È anche quello del 42% di bivaccinati che è in coda chilometrica, a volte da mesi, per fare la terza dose, che è realmente risolutiva contro il rischio della patologia grave. Si tratta di un ritardo inaccettabile e non casuale.
La ragione vera è che sono stati tagliati un terzo degli hub vaccinali l'estate scorsa nella previsione irresponsabile di un'estinzione della pandemia. Le ragioni di cassa hanno prevalso sulla salute pubblica. Sono le stesse ragioni di cassa che nei due anni della pandemia hanno evitato assunzioni nel personale sanitario se non nella forma del lavoro interinale usa e getta. Per cui oggi semplicemente mancano i vaccinatori. Come mancano più in generale almeno 10.000 medici e 20.000 infermieri, secondo stime molto prudenziali.
La Legge di Bilancio appena approvata ha addirittura mantenuto, in piena pandemia, il tetto di spesa per le assunzioni! L'effetto domino è drammatico. La medicina territoriale (servizi territoriali e domiciliari) resta vacante. I tracciatori sono stati ridotti di 4.000 unità. I pronto soccorso ritornano ad essere il collo d'imbuto di mille richieste di assistenza e di aiuto, con le inevitabili code delle autoambulanze, e oltretutto luogo di contagio. Il poco personale sanitario, di nuovo colpito dal contagio, anche se protetto dalla vaccinazione, si carica sulle spalle turni di lavoro massacranti, sotto una pressione emotiva logorante.

La verità è che sono passati due anni, ma in sanità è tutto come prima, con l'eccezione del vaccino. Oggi la stessa malasanità riesce a minare alla radice persino il programma di vaccinazione del governo. Se quasi la metà dei bivaccinati fatica a ottenere la sospirata terza dose, per la mancanza di personale e strutture, immaginiamo cosa significa aggiungere anche solo il carico – insufficiente – di 2.200.000 prime vaccinazioni.

Non è tutto. La riapertura delle scuole, di fronte all'escalation della pandemia, è irresponsabile. Tanto più a fronte dell'attuale condizione della scuola. Come in sanità, anche nella scuola tutto è rimasto nella sostanza come due anni fa. Peggio. Sono state dismesse o ridimensionate persino le poche misure emergenziali abbozzate. Il distanziamento è diventato facoltativo. Classi con ventisette alunni sono considerate “non affollate”. Non un'aula in più è stata predisposta, oltre quelle improvvisate nell'estate del 2020. Il personale aggiuntivo è stato tagliato. Gli istituti faticano a trovare persino i supplenti dei docenti sospesi in quanto non vaccinati, ai quali ora si aggiungeranno inevitabilmente i nuovi contagiati Omicron. Lo screening promesso dal generale Figliuolo è inesistente. Le ASL non sono in grado di dare risposte in tempi accettabili già fin da fine novembre, prima dell'esplosione Omicron, figuriamoci adesso.
Quanto alle mascherine FFP2 sono (forse) in arrivo solo per “docenti a contatto con studenti” che per qualche ragione sono esentati dal portarla. Il resto è affidato alla cosiddetta autosorveglianza, la nuova formula geniale del governo per coprire l'assenza di misure certe ed esigibili.
Insomma, un disastro. In realtà in queste condizioni la cosiddetta “apertura delle scuole in sicurezza” di cui parla il ministro Bianchi è solo una penosa battuta propagandistica. Nei fatti la riapertura della scuola rischia di essere, nelle attuali condizioni, da un lato ingestibile e dall'altro un nuovo volano del contagio.

Occorre allora una misura opposta. La riapertura della scuola va rinviata di almeno venti giorni. Una misura di lockdown che va aggiunta al necessario lockdown per i non vaccinati, anche al fine di dare un colpo al ritmo attuale di propagazione del contagio. Misure di lockdown che vanno accompagnate dal “congedo DAD” retribuito al 100% per almeno uno dei due genitori. Nei venti giorni occorre predisporre tutte le misure di emergenza necessarie. Innanzitutto organizzare lo screening, andare avanti nella vaccinazione degli studenti, reperire mascherine gratuite FFP2 per tutti, insegnanti, personale ATA, studenti... Mascherine FFP2 che debbono anche essere disponibili gratuitamente per tutti i lavoratori e le lavoratrici a carico dei propri datori di lavoro.

Più in generale, va stroncata la speculazione affaristica che sta prosperando nella pandemia. I tamponi debbono essere gratuiti. La loro produzione va incrementata e posta sotto controllo pubblico. Va fatta un'assunzione immediata di personale, a tempo indeterminato, per provvedere all'esecuzione pratica dei test, al lavoro di laboratorio e delle ASL. Le scuole debbono essere anche hub vaccinali. Va assunta a tempo indeterminato una nuova leva di personale sanitario da impiegare nella vaccinazione, nei pronto soccorso, nella medicina territoriale, nell'assistenza domiciliare...

Ma anche solo per predisporre queste misure di emergenza è necessario imporre una patrimoniale sulle grandi ricchezze, cancellare il debito pubblico verso le banche, abbattere le spese militari. In altri termini, mettere in discussione il funzionamento complessivo della società e la logica capitalista.
Il caos che imperversa ad ogni livello nella gestione della pandemia dipende in ultima analisi dal fatto che siamo sotto la dittatura del profitto. I governi borghesi affrontano la pandemia solo entro i limiti angusti compatibili con la ripresa capitalista, una ripresa ingrassata con risorse pubbliche gigantesche riversate nel portafoglio dei capitalisti, e sottratte alla sanità, all'istruzione, ai servizi.
Per capire la mostruosità dell'attuale organizzazione dell'economia internazionale è sufficiente un dato: nei due anni tragici della pandemia, che viaggia ormai verso i sei milioni di morti (per parlare solo di quelli registrati), le Borse mondiali hanno celebrato il record del dopoguerra. Migliaia di miliardi pompati dalle banche centrali e dai bilanci statali si sono riversati nell'acquisto delle azioni, che hanno visto così lievitare i propri valori e i relativi dividendi a livelli mai visti.

La catastrofe dell'umanità da un lato, il più grande successo del capitale finanziario dall'altro. Senza liquidare il parassitismo del capitale non è possibile venire a capo di nulla, men che meno della pandemia. Per questo la migliore terapia contro il Covid è un governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

Partito Comunista dei Lavoratori

Giù le mani del capitale e della finanza dal lavoro e dalla montagna!


 Il copione che abbiamo visto recitato dal padronato alla Saga Coffee di Gaggio Montano si è ripetuto in questi giorni a Marradi, piccolo centro montano, sede dello stabilimento produttivo dell’Ortofrutticola del Mugello, in provincia di Firenze

Marradi è la patria del Marron Buono (marchio IGP), eccellenza del territorio punteggiato dai castagneti. Anche in questo caso, come a Gaggio Montano, la fabbrica è in attivo, quindi non si può parlare di alcuna “crisi” che giustifichi il licenziamento dei lavoratori, anzi, delle lavoratrici, perché come alla Saga Coffee, a perdere il lavoro sarebbero principalmente donne, spesso impiegate nello stabilimento da tanti anni, in gran parte stagionali, che lavorano dieci mesi all’anno nel ciclo produttivo dello stabilimento.

Come a Gaggio, la chiusura dell’ dell’Ortofrutticola del Mugello di Marradi significherebbe un colpo mortale all’economia del territorio, che vede svolgersi qui l’intera catena di produzione dei marron glacé, dalla coltivazione alla raccolta alla vendita. Quella che si fa a Marradi è una vera e propria produzione di eccellenza, unica in Italia, una lavorazione lenta, messa a punto con attenzione. Il capitale spesso straparla di km 0 e produzioni locali e poi le chiude laddove funzionano, per la sola ragione di incrementare ulteriormente i profitti.

E come alla GKN e a Gaggio, anche a Marradi di «capitale» si deve parlare, dato che l’Ortofrutticola del Mugello, nata come azienda pubblica, è passata prima in mani private e ora è controllata da un fondo finanziario, la Investindustrial, guidato dal manager Andrea Bonomi, oggi principale azionista di società come B&B Italia, Flos, Aston Martin, Sergio Rossi, PortAventura, Artsana e Valtur. Fondo finanziario che, come da copione, al primo tavolo convocato in Regione non si è fatto vedere. E non si è mai fatto vedere da quando ha acquisito lo stabilimento.

Non sorprende quindi che anche questa comunità, come quella di Gaggio Montano, abbia reagito con forza, stringendosi intorno alle lavoratrici e ai lavoratori, in un presidio h24 in condizioni durissime, comprendendo una verità molto semplice: se muore la fabbrica muore il territorio, il lavoro è ben più di uno scambio tempo-salario, è dignità, è collettività: anche il fruttivendolo, il macellaio, il coltivatore diretto subirebbero un danno irreparabile se la fabbrica dovesse chiudere.

I perversi meccanismi del capitale, forse per alcuni meno visibili in un grande tessuto urbano o internazionale, rivelano tutta la loro distruttività se osservati attraverso la lente di ingrandimento di queste piccole e caparbie comunità montane.

La fabbrica è in attivo, addirittura il fatturato nell’anno di crisi 2021 ha toccato il 6%, un risultato mai raggiunto. Ora non basta più neppure che una fabbrica produca profitti per sentirsi al sicuro. Ai fondi finanziari viene consentito di speculare non solo sul lavoro, ma direttamente sulle persone, distruggendo intere famiglie, intere filiere produttive, interi paesi.

In una crisi pandemica in cui chi ha perso il lavoro è per il 98% donna, i licenziamenti di Gaggio Montano e di Marradi aggiungono un’ulteriore beffa alla crudeltà: queste donne avranno una difficoltà doppia a trovare un nuovo posto di lavoro, molte di loro lavorano nella fabbrica da quando erano ragazzine, e ora hanno figli e genitori anziani a carico.

I balbettii delle autorità non devono trarre in inganno, al di là delle meschine diatribe politiche di bottega, il potere borghese non ostacolerà il capitale finanziario e anche a livello nazionale non è possibile farsi illusioni: non sarà questo governo di banchieri e finanzieri a fermare i licenziamenti (lo ha già dimostrato con la legge farsa “contro” le delocalizzazioni). Sarà solo tramite la lotta che le lavoratrici di Marradi potranno difendere il posto di lavoro. Durare un minuto in più dei padroni diventa più difficile quando il padrone è un fondo finanziario apparentemente senza volto, disumano, completamente disinteressato alla logica della produzione di un bene, ma solo alla monetizzazione di persone, territori, scorte, macchinari. Ma è necessario.

Davanti a un padronato che non si nasconde più neppure dietro la foglia di fico dell’essere “imprenditori” ma solo “proprietari”, ­­occorrono forme di lotta decise e radicali, come quelle messe in atto dai lavoratori di tante realtà che stanno attraversando la stessa situazione: blocco della fabbrica, presidio permanente, occupazione.

GKN, Whirlpool, Saga Coffee, Speedline e adesso Ortofrutticola del Mugello… Si tratta di decine e centinaia di vertenze operaie che attraversano il balletto di tavoli e tavolini istituzionali, accordi e compratori fantasma, speranze e amare disillusioni, una strategia di sfinimento volta a piegarle una ad una, impedendo che queste lotte si riconoscano sorelle e si uniscano in una vertenza generalizzata contro i licenziamenti e contro una narrazione falsa della crisi pandemica, che è stata un’ulteriore occasione di profitto per i soliti noti.

È il momento di unire queste lotte in una vertenza generale a tutela del lavoro e della sua dignità, occupare le aziende che licenziano o delocalizzano, rivendicare il loro esproprio sotto controllo operaio, di costruire una cassa nazionale di resistenza.

Il PCL Romagna ha portato la propria solidarietà alle operaie e agli operai di Marradi sabato 8 gennaio, con la nostra adesione a tutte le iniziative di lotta che le operaie intenderanno portare avanti. Ma la solidarietà per quanto ci riguarda non può limitarsi alle parole vuote, alle sfilate delle autorità o alla sola solidarietà civile. Serve sostenere la lotta delle operaie: noi che lavoriamo in tanti altri posti di lavoro, insieme alle lavoratrici di Marradi, di Gaggio, e di ogni altra vertenza. L’unificazione delle lotte in una vertenza generale contro i licenziamenti è per noi ormai non più rinviabile.


Invitiamo chi può a sostenere le lavoratrici e i lavoratori dell’Ortofrutticola del Mugello tramite la cassa di resistenza, in loco, o con un versamento.

IBAN: IT45P0200837941000401384771

Causale: PRESIDIO ORTOFRUTTICOLA

Partito Comunista dei Lavoratori - sezione Romagna