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La nostra Africa

 


La vera natura del Piano Mattei

31 Gennaio 2024

Il governo Meloni sventola il Piano Mattei. Le opposizioni borghesi liberali (PD, M5S, Azione) criticano l'insufficienza dei mezzi e le modalità operative, ma condividono i suoi obiettivi. In definitiva tutti i partiti borghesi e l'intera stampa padronale salutano la proiezione in Africa come occasione storica dell'Italia. Vediamo allora di cosa si tratta.

L'Africa è oggi un terreno strategico della competizione sfrenata fra i poli imperialisti, vecchi e nuovi. Non è un caso. La sua popolazione ha un tasso di crescita senza paragoni al mondo. L'età media è bassissima. La riserva di manodopera a basso costo è potenzialmente immensa. Le materie prime di cui l'Africa dispone, sia nel campo delle energie fossili che in quello delle nuove materie prime (litio e cobalto in primis), rappresentano una ricchezza sterminata. La superficie di terra non coltivata – 40% – non ha pari in altri continenti. La corsa all'Africa ha qui le sue prime ragioni materiali.

Seguono le ragioni politiche e strategiche. Le vecchie potenze imperialiste di tradizione coloniale, a partire dalla Francia, hanno subito lo sfaldamento della propria area di influenza e controllo. Le nuove potenze imperialiste, Cina e Russia, nel corso dell'ultimo decennio hanno allargato a dismisura la propria presenza nel continente: la Cina investendo prevalentemente in infrastrutture (Nuova Via della Seta), la Russia offrendo protezioni militari e diplomatiche (Burkina Faso, Mali, Repubblica Centrafricana, Niger). Gli Stati Uniti e l'Unione Europea cercano ora uno spazio di recupero.

L'Italia si candida a paese pivot dell'impresa. L'imperialismo italiano gioca una partita multipla: si offre agli USA come alleato affidabile, senza le posture grandeur dell'imperialismo francese; cerca di rimpiazzare la Francia nell'Africa subsahariana capitalizzando in proprio il suo declino; si presenta in sede UE come naturale apripista di un rilancio europeo in Africa, e come crocevia strategico in fatto di rifornimenti energetici (Italia come hub del gas nel Mediterraneo). Il Piano Mattei è la leva centrale dell'operazione. Il protagonismo dell'Italia nella missione navale nel Mar Rosso, il nuovo investimento nel militarismo italiano annunciato dal ministro Crosetto rientrano in questa politica estera.

Il Piano Mattei è fortemente centralizzato nella sua struttura di comando. La presidenza del Consiglio dei Ministri capeggia la sua cabina di regia. Il PD contesta questa modalità di gestione perché taglia fuori strutture e ambienti dell'alta burocrazia statale, nel campo della cooperazione e degli affari esteri, con cui il PD ha tradizionalmente buone entrature. Ma non è questo che interessa a noi. A noi interessa il contenuto della missione. Un contenuto classicamente imperialista.

All'incontro con venticinque capi di stato africani sedevano non a caso i gioielli di famiglia del capitalismo italiano. ENI, ENEL, Fincantieri, Leonardo, SNAM, Terna, ACEA, Salini Impregilo. ENI svolge il ruolo centrale. Si tratta della principale azienda straniera operante nel continente africano. Il suo obiettivo è estendere il controllo su giacimenti di gas e petrolio, dall'Algeria al Mozambico all'Angola, o strappando nuove concessioni da gestire in proprio o attraverso accordi di cartello con aziende locali (come la Sonatrach algerina). L'essenziale è evitare che se ne approprino concorrenti.

Tra marzo 2022 e maggio 2023 ENI ha realizzato in Africa ben undici intese strategiche (Benin, Egitto, Repubblica Democratica del Congo, Mozambico, due intese rispettivamente in Libia, Algeria, Angola). L'azienda sbandiera la propria disponibilità a lasciare al mercato domestico il 90% del gas che produce in Africa e nel mondo, secondo le parole di Descalzi. Balle. Sono le promesse che ENI sventola da decenni, puntualmente smentite dalla stessa composizione della bilancia commerciale italiana e dall'immiserimento progressivo dei paesi ospitanti. Peraltro nel caso neppure consultati, come ha dichiarato, a denti stretti, il presidente dell'Unione Africana Moussa Faki. La coltivazione estensiva di biocarburanti è un altro aspetto della missione ENI. La ottiene o strappando la concessione di terre incolte, sottratte così alla produzione agricola, o attraverso l'esproprio indotto di contadini e terre ad altro adibite. Nell'un caso come nell'altro una spoliazione di ricchezza in un continente già segnato dalla fame.

È la stessa logica predatoria che presiede l'azione del capitalismo italiano in altri settori. Operano in Africa 1600 imprese italiane, in segmenti che vanno dai prodotti chimici ai macchinari alle infrastrutture. Nel campo delle infrastrutture domina il gruppo Salini Impregilo, impegnato in particolare nel settore idroelettrico. Le sue dighe in Etiopia sono oggetto di contestazione da parte di contadini poveri, privati per questa via dell'accesso all'acqua per le proprie colture. Ed è solo un esempio tra i tanti.

Il debito è una leva centrale del Piano Mattei.
La questione del debito estero africano sta letteralmente esplodendo. Il debito estero continentale ammonta oggi a 655 miliardi di dollari (282 verso investitori privati, 223 verso organizzazioni multinazionali, 149 accordi bilaterali). Rappresenta un terzo del debito pubblico complessivo (1800 miliardi di dollari). È cresciuto di quasi il 200% tra il 2010 e il 2020. La recente impennata dei prezzi dei beni alimentari, che i paesi africani sono costretti a importare a causa del saccheggio cui sono sottoposti, ha ulteriormente pesato sulla loro bilancia dei pagamenti, e dunque sul debito estero. L'innalzamento generale dei tassi d'interesse ha fatto il resto. Ghana, Zambia, Etiopia hanno dichiarato il default. Kenya e Senegal seguono a ruota. Il solo pagamento degli interessi sul debito estero sta prosciugando le riserve valutarie del grosso dei paesi africani, a scapito di sanità, istruzione, servizi sociali, già disastrati.

Il Piano Mattei partecipa a questa rapina. I cinque miliardi stanziati – presi peraltro dal Fondo per il Clima e da quello di Cooperazione – si risolvono prevalentemente in prestiti. Cassa Depositi e Prestiti, SACE, SIMEST, sono tutte coinvolte nell'operazione, e per questo erano presenti all'incontro di Roma. L'Italia fa leva sulla disperazione finanziaria dei clienti africani per ottenere in cambio di prestiti importanti concessioni in fatto di giacimenti, terre, materie prime.
Il debito estero è insomma il nodo scorsoio dell'operazione.

Non c'è solo un utile economico. Il blocco delle migrazioni dall'Africa è l'altro obiettivo del Piano Mattei, a uso e consumo delle esigenze elettorali del governo, e di Fratelli d'Italia in particolare.
La retorica di Giorgia Meloni secondo cui lo sviluppo e prosperità garantiti all'Africa dal Piano provvederebbero a disincentivare le partenze appartiene al genere letterario dell'imperialismo umanitario, che ha alle spalle più di un secolo di storia. Storia di crimini e di sangue. La verità è esattamente opposta. La continuità della rapina dell'Africa, cui il Piano Mattei per la sua parte concorre, è una garanzia della continuità delle migrazioni. Proprio per questo il governo interviene sui paesi africani chiedendo loro, in cambio di prestiti, di bloccare militarmente i flussi con misure d'ordine e di polizia, e di predisporre sul proprio territorio i centri di detenzione dei migranti. È la logica dell'accordo Italia-Tunisia, e dell'accordo con la Turchia sul versante Haftar in Libia. È la logica dell'intesa fra Italia e Albania, oggi esportata in Africa.

Questo nuovo protagonismo italiano in politica estera non appartiene solo alla destra. Ha il sostegno di ambienti liberali e dei poteri decisivi dell'establishment. Il Corriere della Sera, La Stampa, e la rivista Limes in particolare, sono da tempo impegnati nel sollecitare una politica estera italiana all'altezza delle nuove sfide. Tutta la loro argomentazione si basa sul fatto che la politica mondiale ha ormai rotto gli argini delle vecchie diplomazie del dopoguerra, e che l'Italia deve riscoprire il proprio “interesse nazionale” dotandosi degli strumenti adatti, naturalmente entro il quadro della concertazione europea. La campagna favorevole alla nuova corsa agli armamenti dei paesi UE da parte di tutta la borghesia italiana muove da qui. Il piano Mattei è parte di un riposizionamento generale dell'imperialismo di casa nostra.

Solo una sinistra anticapitalista e rivoluzionaria può sviluppare nel movimento operaio l'opposizione all'imperialismo tricolore.

Partito Comunista dei Lavoratori

La squallida campagna sulla Sea Watch

Sulla vicenda di 42 migranti sequestrati in mare per quindici giorni dal ministro degli Interni che ne vieta lo sbarco si sta consumando una squallida campagna di opinione.
Il ministro Matteo Salvini grida alla violazione della Legge e del Diritto e invoca l'arresto per l'equipaggio della Sea Watch. Il liberale Corriere della Sera, che pur non è di impostazione governativa, preferisce associarsi alla denuncia di una «manifesta illegalità». Persino il direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio, a lungo venerato dalla sinistra riformista, ha riscoperto per l'occasione la propria vocazione giustizialista e manettara, elencando le violazioni di legge da parte della nave, e fornendo al ministro degli Interni un'insospettabile copertura. Per questo campionario di borghesi reazionari o “democratici” la legge diventa il totem cui subordinare ogni principio di giustizia e umanità.

Una vergogna, se solo si parte da dati di fatto incontestabili. I 42 migranti salvati dalla Sea Watch sono fuggiti dalla tortura delle galere libiche, le stesse galere di fatto finanziate dai governi italiani, prima da Minniti poi da Salvini. Nessuno può smentire questa verità. Il governo al-Sarraj, protetto dall'Italia, amministra una parte dei centri di detenzione libici, le milizie private ne gestiscono un'altra parte. La Guardia Costiera libica è legata alle milizie e cogestisce i suoi affari. Le milizie si fanno pagare dalle famiglie dei migranti esibendo i segni delle torture loro inflitte come arma di ricatto. Dopo il pagamento, i migranti partono e la guardia costiera, in cambio di mazzette, punta a riprenderli e a riportarli in galera, dove ricomincia il giro infernale. Altro giro, altre torture, altri soldi. Per tre, quattro, cinque volte. Alcuni migranti della Sea Watch erano partiti più e più volte ripresi dalle stesse canaglie. I “trafficanti di esseri umani” che Salvini denuncia sono gli stessi che lui finanzia ed equipaggia, con tanto di motovedette.

“La Sea Watch ha violato la legge!”. Vero. Ha violato un Decreto sicurezza bis che punta a intimidire e proibire ogni salvataggio in mare che sia sottratto alla Guardia Costiera Libica. Un Decreto sicurezza bis che assegna di fatto al governo libico e ai trafficanti con cui collabora il potere della vita e della morte su decine di migliaia di migranti. Basta che non arrivino sulle nostre coste e Salvini possa lucrare sulla “fine dei flussi”. Ma la riduzione degli arrivi è solo l'altra faccia dell'aumento dei torturati. E dalla tortura si cerca sempre di fuggire, come a volte riescono a fare quelli che scampano alla guardia costiera e ai suoi ripescaggi. La Sea Watch ha semplicemente salvato alcuni di questi. Ha potuto farlo solo addentrandosi nella zona di spettanza libica e solo violando la legge Salvini. Per questo la capitana e il suo equipaggio vanno difesi dalle grinfie del ministro dell'Interno, dei suoi prefetti, di eventuali magistrati compiacenti. E i migranti della nave vanno sbarcati e assistiti, tutti e subito.

Ma in questa vicenda c'è anche altro. L'Unione Europea ha dimostrato una volta di più il proprio volto. Ogni governo gioca a scaricare sui propri alleati il fardello degli immigrati per non perdere consenso interno, restare in sella e poter continuare a rapinare i propri salariati. Lo spettro degli immigrati è infatti agitato non solo dalla canea reazionaria di Salvini e dei suoi amici di cordata, ma anche dai campioni liberali ed europeisti, Macron in testa. Gli accordi di Dublino da tutti firmati, Italia inclusa, non è scandaloso solo perché “grava l'Italia dell'onere dell'accoglienza”, ma perché nega diritti e libertà di migrare in Europa a chi fugge da guerre, fame, torture. Peraltro la stessa Unione Europea che rifiuta la ripartizione dei rifugiati e canali umanitari legali per l'immigrazione, copre il governo italiano e la sua Legge: la sentenza della Corte dei Diritti dell'Uomo di Strasburgo che ha respinto il ricorso della Sea Watch ha solo onorato il principio di complicità con Salvini, in una logica di collaborazione tra briganti. I...“diritti dell'Uomo” se ne faranno una ragione.

La vicenda della Sea Watch è solo la punta dell'iceberg.
Sono il capitalismo e l'imperialismo i veri responsabili delle migrazioni. Sono le politiche di guerra delle “democrazie”. Le desertificazioni prodotte da saccheggi ambientali e cambi climatici. La rapina – quella sì assolutamente “legale” – che Stati Uniti, Cina, Francia, Italia, Germania, Gran Bretagna, Russia stanno promuovendo in tutto il continente africano, sgomitando tra loro, per procurarsi litio e cobalto, le materie prime indispensabili per le batterie elettriche e le tecnologie informatiche, il nuovo affare del secolo. Molti milioni di africani stanno migrando all'interno dell'Africa stessa, di paese in paese, costretti dalla privazione delle terre e dalla fame. Chi arriva nelle galere libiche, e spera di arrivare in Europa, è solo una goccia nel mare di questa enorme migrazione.

Per questo la risposta alla tragedia dell'immigrazione non può fermarsi alla rivendicazione dell'accoglienza. Accoglienza e apertura dei porti dev'essere sostenuta senza riserve e ambiguità, a maggior ragione senza ammiccamenti obliqui e mascherati al sovranismo reazionario. Ma la battaglia democratica va ricondotta ad una prospettiva anticapitalista e antimperialista, una prospettiva di liberazione senza frontiere, l'unica che possa recidere il male alla radice.

Partito Comunista dei Lavoratori