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Donne, vita, libertà


Un vento di rivolta delle donne attraversa le città iraniane

25 Settembre 2022

“Donne, vita, libertà” è la parola d'ordine che percorre in questi giorni decine di città iraniane contro il regime teocratico. La scintilla della ribellione è stata l'omicidio di Mahsa Amini da parte della polizia religiosa del regime, un corpo repressivo preposto alla vigilanza della legge islamica, particolarmente accanito contro le donne.

Il velo islamico in Iran non solo è un obbligo di legge, ma deve essere indossato in modo tale da coprire interamente i capelli. Mahsa Amini ha pagato con la vita a 22 anni la ciocca di capelli che fuoriusciva dal velo. Trascinata su un cellulare della polizia, è stata bastonata selvaggiamente al capo, sino a causare prima l'emorragia celebrale e poi la morte dopo tre giorni di agonia. Il padre non ha ottenuto il diritto di vedere il corpo della figlia, né peraltro è stata condotta alcuna autopsia sul cadavere.

Il velo islamico è uno strumento di oppressione, ma anche un simbolo della dittatura dei mullah. Una dittatura odiosa particolarmente misogina. Ad esempio le donne non hanno neppure il diritto di bagnarsi in costume sul Mar Caspio, laddove gli uomini possono esibire il torso nudo. L'indottrinamento islamico procede sin dalla tenera età attraverso specifiche scuole coraniche rivolte in primo luogo alle donne. “Una donna che porta il velo è come una perla nella sua conchiglia” recita la dottrina di regime. Come dire che il velo avrebbe la funzione di proteggere la femminilità, altrimenti violata dallo sguardo altrui. Ogni religione è al fondo misogina. Ma quando si trasforma nel fondamento del potere politico assume caratteri particolarmente ipocriti e odiosi.

La ribellione in atto nelle città vede protagoniste assolute della piazza proprio le donne, le donne della giovane generazione. Chiedono la punizione degli assassini di Masha e lo scioglimento della polizia religiosa. Chiedono soprattutto la caduta del regime.
Non si tratta della prima ribellione che attraversa l'Iran dei mullah. Nel 2009 un movimento di massa ( la cosiddetta “onda verde”) guidato da forze liberali rivendicò la democratizzazione del regime. Dieci anni dopo, nel 2019, si levò una mobilitazione popolare contro l'aumento della benzina e il carovita. In entrambi i casi il regime teocratico scagliò contro i manifestanti i propri apparati di sicurezza, a partire dai cosiddetti Guardiani della rivoluzione, facendo centinaia di morti. Il fatto nuovo della ribellione attuale è che non chiede riforme, né è incanalata dall'ala borghese liberale della politica iraniana. È una rivolta che cozza frontalmente col regime in quanto tale, sfida proiettili, lacrimogeni, arresti, in qualche caso assalta le stazioni di polizia e prende il controllo di cittadine o quartieri, come a Oshnavieh, città di confine a prevalenza curda, da due giorni controllata dai rivoltosi.

La Guida suprema Ali Khamenei, massima autorità religiosa, e il governo conservatore di Raisi, hanno denunciato i manifestanti come agenti degli USA e della UE, secondo il registro propagandistico abituale, rivendicando un trattamento senza pietà dei manifestanti da parte dei corpi speciali, e mobilitando la propria base militante attraverso le moschee, con tanto di centinaia di donne coperte dal velo e vestite di nero che gridavano “morte all'America”.

Nessuna meraviglia. Ogni regime reazionario di massa, a maggior ragione se teocratico, ricorre alla mobilitazione attiva delle proprie forze contro “il nemico”, identificando con quest'ultimo ogni ribellione al proprio dominio.
Inutile aggiungere che diverse forze e correnti campiste in Occidente, anche di "estrema sinistra", credono alle favole della teocrazia iraniana vedendo ovunque le marionette USA e negando ogni autenticità alle rivolte di massa. Sino magari ad attribuire al velo islamico un'espressione di emancipazione e libertà. Perché pure questo si è dovuto ascoltare.

Ma la ribellione delle donne iraniane non c'entra nulla con gli imperialismi d'Occidente, e con le loro possibili speculazioni. È semplicemente una ribellione per la libertà e contro l'oppressione. Sta alla classe operaia iraniana, anch'essa duramente repressa dal regime, prendere la testa della ribellione, allargare la sua base di massa, indirizzarla verso il rovesciamento del regime in direzione di un governo operaio e popolare. Sta al movimento operaio d'Occidente fornire la propria solidarietà alla rivolta delle donne iraniane.

Partito Comunista dei Lavoratori

 

Sul movimento di massa in Iran

 «Mullah capitalisti, ridateci i nostri soldi!»
 Un importante movimento di giovani e di donne si è levato in Iran. È la più importante esperienza di mobilitazione dopo la cosiddetta “onda verde” del 2009. 

Il movimento è nato nella città di Mashhad, per protestare contro l'aumento del 40% del prezzo delle uova. È possibile che questa prima protesta sia stata in qualche modo incentivata dalle autorità religiose locali, vicini alle posizioni reazionarie più integraliste della Guida Suprema Khamenei, e per questo critiche verso il Presidente “moderato” Rouhani. Ma è certo che la dinamica della mobilitazione è andata ben al di là delle sue basi iniziali. 


LA DINAMICA DEL MOVIMENTO 

Il movimento si è propagato in molte città e realtà di provincia. La sua dimensione di massa è complessivamente minore (ad oggi) di quella del 2009, ma la sua estensione geografica sul territorio nazionale è più ampia. Soprattutto, le sue rivendicazioni appaiono più radicali. Nel 2009 il movimento era nato in opposizione alla rielezione del presidente reazionario Ahmadinejad, nel nome di rivendicazioni democratiche limitate che non mettevano in discussione il regime religioso dei mullah. Il movimento aveva una natura progressiva, ma la sua direzione politica (Moussavi, consigliere del presidente “riformista” Kathami) era in qualche modo interna al regime. Oggi il quadro è diverso.

Il movimento attuale ha innanzitutto un contenuto sociale più esplicito, di contrapposizione al carovita e alle politiche economiche del governo (aumento di prezzo dei beni alimentari, taglio dei sussidi sociali, speculazioni bancarie a danno di piccoli risparmiatori caduti in rovina, aumento della disoccupazione giovanile al 30%). È la reazione sociale al mancato rispetto delle promesse annunciate a seguito degli accordi con la presidenza Obama. “Avevate promesso benessere e prosperità, ma dopo due anni abbiamo raccolto solo miseria”: questo il senso comune della protesta. Per questa stessa ragione il movimento ha assunto una dinamica di contrapposizione non solo a Rouhani, ma al regime teocratico reazionario. Il clero sciita non è solo l'architrave del regime confessionale integralista che domina l'Iran da quasi quarant'anni, responsabile della repressione sistematica e brutale delle organizzazioni del movimento operaio e di tutte le più elementari rivendicazioni democratiche dei giovani e delle donne. È anche strettamente compenetrato con la classe capitalistica iraniana. L'alto clero, i vertici militari, i comandi degli apparati repressivi, controllano interi comparti dell'economia nel campo della produzione e della finanza. Era dunque inevitabile che un movimento di contestazione delle ingiustizie sociali entrasse in collisione col cuore profondo del regime. “Mullah capitalisti, restituiteci i nostri soldi”, lo slogan che è rimbalzato in molte manifestazioni, è la documentazione plastica di questa connessione, assieme alla distruzione di manifesti e immagini della guida spirituale Khamenei.

Per le stesse ragioni, anche la politica estera dell'Iran è divenuta bersaglio delle proteste. L'Iran è una potenza capitalistica regionale del Medio Oriente, in lotta da sempre con l'Arabia Saudita. Le risorse risparmiate dal taglio (parziale) delle sanzioni sono state investite da Teheran nel consolidamento ed estensione dell'area di influenza regionale sciita (sostegno ad Assad in Siria, a Hezbollah in Libano...), con un indubbio successo sul fronte siriano grazie all'appoggio determinante dell'imperialismo russo. Ma le glorie militari sui campi di guerra non hanno comportato solamente migliaia di caduti, hanno trascinato con sé aumento delle tasse, carovita, inasprimento dello sfruttamento sul fronte interno, nel nome del superiore interesse della nazione. Anche per questo la contestazione sociale è rapidamente divenuta contestazione politica: “Pensate a noi, non ad Assad”, gridano migliaia di manifestanti.


GLI IMPERIALISMI DIVISI

In questo quadro è naturale che l'imperialismo USA, lo Stato sionista d'Israele, il regime reazionario saudita, cerchino di strumentalizzare la mobilitazione sociale e politica contro il regime iraniano in funzione dei propri interessi strategici in Medio Oriente e su scala globale. È sempre accaduto in tutta la storia del mondo che lotte progressive, e persino rivoluzioni, all'interno di un determinato paese, vengano “usate” (e talvolta appoggiate) da potenze straniere conservatrici e reazionarie. Ci si potrebbe meravigliare del contrario? Così è naturale che il reazionario Trump provi a strumentalizzare la protesta in Iran in funzione della svolta della propria politica estera in Medio Oriente e della polemica interna contro Obama; come è naturale che il governo sionista d'Israele voglia utilizzare gli avvenimenti iraniani per consolidare l'asse col nuovo corso di Washington e col regime saudita.

Ma chi vede ciò che avviene in Iran come esecuzione del “piano” di Trump e dei suoi agenti segreti ha la stessa visione della storia delle polizie di tutto il mondo, inclusa naturalmente quella iraniana: la ribellione è sempre figlia del “complotto straniero contro i superiori interessi della patria”, che guarda caso coincidono con quelli della classe che detiene il potere. È l'argomento che sospinge ovunque, in ogni epoca, la repressione di ogni rivolta interna. L'Iran non fa certo eccezione.

Peraltro gli amanti dell'interrogativo dietrologico “a chi giova?”, pronti a vedere in ogni rivolta la mano straniera dell'imperialismo, dovrebbero evitare di guardare solo all'imperialismo USA. Gli imperialismi europei (Italia inclusa) non si allineano affatto a Donald Trump sulla vicenda iraniana. Anzi. Vogliono inserirsi nella contraddizione apertasi tra Iran e Trump per sostenere i propri interessi imperialisti in Persia e allargarvi la propria area di influenza: dagli investimenti dell'industria automobilistica francese agli appetiti inesauribili di ENI ed ENEL. Per questo la UE tace sull'Iran, strizzando l'occhio al regime e augurandosi la sua tenuta.

La verità è che la mobilitazione in corso in Iran tende oggi ad amplificare le contraddizioni interimperialiste, non a ridurle.


IL RUOLO DEL PROLETARIATO E LA QUESTIONE DELLA DIREZIONE 

In ogni caso i settori di massa e di gioventù che oggi alzano la testa in Iran non sono sospinti dagli agenti della CIA ma dal rifiuto dell'oppressione. Il regime lo sa ed è scosso. L'apparato repressivo dello Stato colpisce le manifestazioni con centinaia di arresti e con armi da fuoco, assassinando decine di giovani. E intanto chiude le piattaforme digitali per bloccare la propagazione ulteriore del movimento. Il Presidente Rouhani, dal canto suo, cerca di ritagliarsi un proprio spazio di manovra parlando del diritto a manifestare, ma è consapevole di essere bersaglio diretto della protesta e per questo spalleggia la repressione, nel mentre cerca di organizzare una propria contromobilitazione a difesa del regime. In realtà le diverse frazioni del regime teocratico attribuiscono la responsabilità della rivolta alla frazione rivale, ma proprio le contraddizioni interne al regime possono ampliare la dinamica della mobilitazione. Mentre la reazione attiva di settori di manifestanti alla repressione (e in qualche caso persino l'assalto alle caserme alla ricerca di armi) misura la potenzialità della radicalizzazione.

Inutile aggiungere che una eventuale trascrescenza del movimento in atto in un processo rivoluzionario potrebbe avere ripercussioni enormi in tutto il Medio Oriente. Ripercussioni che darebbero agli stessi USA e Israele grattacapi infinitamente più seri degli effimeri vantaggi di qualche strumentalizzazione diplomatica delle proteste in corso.

Seguiremo la dinamica della mobilitazione in atto. La sua base sociale sembra al momento limitata a settori di gioventù della popolazione povera, dei disoccupati, della classe media (studenti), con un ruolo importante delle donne. La classe operaia non è ancora scesa nell'arena della lotta. Questo sarà uno snodo decisivo per lo sviluppo degli avvenimenti. La classe operaia iraniana è una enorme potenza sociale. La sua discesa in campo alla testa della gioventù potrebbe segnare un capovolgimento dei rapporti di forza e aprire una pagina nuova dello scontro. Senza l'ingresso nell'arena della classe lavoratrice, la mobilitazione rischia di schiantarsi nel muro della repressione e di sfaldarsi. È la lezione del 2009.

Ma la semplice mobilitazione della classe lavoratrice non è sufficiente. È necessaria una sua direzione indipendente e rivoluzionaria, che sappia saldare nel vivo della lotta le rivendicazioni sociali, laiche e democratiche elementari, con la prospettiva di un'alternativa di potere della classe lavoratrice; che sappia costruire l'egemonia della classe lavoratrice sull'insieme delle domande progressive delle masse oppresse, delle città e delle campagne, nella prospettiva di un governo operaio e contadino. L'unica vera alternativa.
Nel 1979 la mobilitazione della classe operaia iraniana fu determinante per il rovesciamento dello Scià, dando vita in centinaia di fabbriche a forme di autorganizzazione democratica di massa (shorà). Ma l'assenza di una direzione indipendente, unita al ruolo collaborazionista del Tudeh stalinista, subordinò la classe operaia a Khomeini, che giunto al potere distrusse il movimento operaio organizzato e dopo pochi anni (1982) lo stesso Tudeh. La classe operaia iraniana ha pagato con quarant'anni di nuova dittatura la capitolazione del Tudeh al khomeinismo. Il Tudeh ha pagato a sua volta con cinquemila militanti assassinati.

La costruzione di una direzione marxista rivoluzionaria resta dunque la questione decisiva, come mostra la stessa esperienza della rivoluzione tunisina ed egiziana del 2010-2011.
L'irruzione nella lotta di una giovane generazione dell'avanguardia potrà rappresentare il bacino naturale della sua costruzione.
Partito Comunista dei Lavoratori