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No al terrorismo imperialista USA!

L'attacco militare ordinato da Trump in Iraq contro l'élite dirigente delle forze militari iraniane è un atto squisitamente terroristico. Esprime l'arroganza della principale potenza imperialista del pianeta, che rivendica il diritto di fare ogni cosa nel mondo che risponda ai superiori interessi americani, fuori persino da qualsiasi concertazione preventiva con le potenze imperialiste alleate o avversarie. "America first" di Donald Trump significa questo: il ritorno in grande stile della politica di potenza degli USA.

L'azione terroristica degli USA si colloca in un contesto preciso della vicenda mediorientale. Da dieci anni la nazione araba e il Medio Oriente vivono un riassetto generale di equilibri e relazioni. L'imperialismo USA ha subìto, più che dirigere, i processi politici della regione. La disfatta politica delle avventure imperialiste in Iraq e in Afghanistan, unita alla grande crisi capitalistica e alla nuova polarizzazione del confronto mondiale tra USA e Cina, ha impedito agli USA di disporre di proprie significative forze militari nella lunga guerra di Siria contro l'ISIS. Di ciò si è avvantaggiata la Russia di Putin, che punta a ricostruire in Medio Oriente l'area di influenza della vecchia URSS, ma anche due potenze regionali chiave della regione, la Turchia di Erdogan e l'Iran di Khamenei. Erdogan si allarga in Siria, massacrando i curdi col lasciapassare americano (e russo), ma anche in Libia, offrendosi come scudo militare di al-Sarraj. Il regime teocratico di Teheran punta a consolidare l'asse sciita nella regione e a incassare sul piano politico il ruolo militare giocato in Siria e in Iraq.
L'amministrazione americana punta ora a riequilibrare i rapporti di forza nella regione. Lo fa ricomponendo l'asse di ferro coi propri alleati di sempre, lo Stato sionista e l'Arabia Saudita, entrambi nemici mortali dell'Iran. La disdetta dell'accordo nucleare con l'Iran, la ripresa delle sanzioni contro Teheran, puntano al cuore della potenza economica e militare iraniana, a vantaggio dei sauditi e di Israele. L'atto terroristico compiuto è in linea con questa impostazione.

L'Iraq è più che mai teatro diretto della contesa tra USA e Iran. Paradossalmente fu la maldestra aggressione imperialista all'Iraq, con il rovesciamento di Saddam Hussein, senza disporre di una soluzione politica di ricambio ed umiliando la minoranza sunnita, a spingere l'Iraq nelle mani della potenza iraniana e di un governo controllato dall'Iran. Ora l'imperialismo USA punta a scalzare l'Iran dall'Iraq. Lo fa nel momento di massimo indebolimento politico della presenza iraniana in Iraq, oggetto di una grande rivolta popolare di massa contro il governo iracheno filoiraniano che ha costretto alle dimissioni il governo Mahdi lasciando 400 morti nelle piazze. Lo fa nel momento di crisi politica dell'influenza iraniana in Libano, dove una grande rivolta di massa ha messo in discussione i vecchi equilibri confessionali. Lo fa nel momento in cui il regime oppressivo iraniano si vede contestato nello stesso Iran dalla più ampia mobilitazione popolare dal 2009.

“Rivolte orchestrate dagli USA e da Israele”, come recitano le veline iraniane, e purtroppo a rimorchio tanti campisti di casa nostra? Nulla di più falso. Sono rivolte popolari di massa innescate dalla miseria, dalla disperazione, dalla volontà di ribellione della giovane generazione contro regimi oppressivi. Gli USA non hanno speso una parola per i 400 giovani e lavoratori assassinati in Iraq dal regime filoiraniano. Ed oggi paradossalmente proprio la drammatizzazione militare dello scontro con l'Iran da parte degli USA potrebbe semmai indebolire la dinamica di massa, consentendo al regime iraniano e ai suoi alleati di capitalizzare il sacrosanto sdegno antiamericano e di recuperare in parte il consenso perduto. Ancora una volta l'imperialismo USA si conferma da ogni punto di vista il principale nemico di ogni rivoluzione progressiva, come fu peraltro a fronte delle rivoluzioni arabe in Egitto, Libia, Siria, quando l'imperialismo, a partire dagli USA, usò tutte le leve politiche e militari di cui disponeva per spezzare le potenzialità delle sollevazioni di massa e dirottarle verso la disfatta e la controrivoluzione.

Il regime iraniano è un regime reazionario e sanguinario che opprime la classe lavoratrice, le nega le libertà sindacali, reprime e tortura chi si ribella. Ma solo i lavoratori e le lavoratrici di Iran possono chiamare il regime sul banco degli imputati costruendo una propria alternativa. Non certo il terrorismo degli USA, il principale gendarme imperialista del mondo.


No al terrorismo imperialista degli USA!
Via le truppe USA dall'Iraq!
Via l'imperialismo e il sionismo dalla nazione araba e dal Medio Oriente!

Pieno sostegno alle rivolte popolari in Iraq e in Iran contro regimi sanguinari oppressivi!
Pieno diritto d autodeterminazione di ogni popolo oppresso, a partire dai palestinesi e dai curdi!
Per una federazione socialista del Medio Oriente!
Partito Comunista dei Lavoratori

Sul movimento di massa in Iran

 «Mullah capitalisti, ridateci i nostri soldi!»
 Un importante movimento di giovani e di donne si è levato in Iran. È la più importante esperienza di mobilitazione dopo la cosiddetta “onda verde” del 2009. 

Il movimento è nato nella città di Mashhad, per protestare contro l'aumento del 40% del prezzo delle uova. È possibile che questa prima protesta sia stata in qualche modo incentivata dalle autorità religiose locali, vicini alle posizioni reazionarie più integraliste della Guida Suprema Khamenei, e per questo critiche verso il Presidente “moderato” Rouhani. Ma è certo che la dinamica della mobilitazione è andata ben al di là delle sue basi iniziali. 


LA DINAMICA DEL MOVIMENTO 

Il movimento si è propagato in molte città e realtà di provincia. La sua dimensione di massa è complessivamente minore (ad oggi) di quella del 2009, ma la sua estensione geografica sul territorio nazionale è più ampia. Soprattutto, le sue rivendicazioni appaiono più radicali. Nel 2009 il movimento era nato in opposizione alla rielezione del presidente reazionario Ahmadinejad, nel nome di rivendicazioni democratiche limitate che non mettevano in discussione il regime religioso dei mullah. Il movimento aveva una natura progressiva, ma la sua direzione politica (Moussavi, consigliere del presidente “riformista” Kathami) era in qualche modo interna al regime. Oggi il quadro è diverso.

Il movimento attuale ha innanzitutto un contenuto sociale più esplicito, di contrapposizione al carovita e alle politiche economiche del governo (aumento di prezzo dei beni alimentari, taglio dei sussidi sociali, speculazioni bancarie a danno di piccoli risparmiatori caduti in rovina, aumento della disoccupazione giovanile al 30%). È la reazione sociale al mancato rispetto delle promesse annunciate a seguito degli accordi con la presidenza Obama. “Avevate promesso benessere e prosperità, ma dopo due anni abbiamo raccolto solo miseria”: questo il senso comune della protesta. Per questa stessa ragione il movimento ha assunto una dinamica di contrapposizione non solo a Rouhani, ma al regime teocratico reazionario. Il clero sciita non è solo l'architrave del regime confessionale integralista che domina l'Iran da quasi quarant'anni, responsabile della repressione sistematica e brutale delle organizzazioni del movimento operaio e di tutte le più elementari rivendicazioni democratiche dei giovani e delle donne. È anche strettamente compenetrato con la classe capitalistica iraniana. L'alto clero, i vertici militari, i comandi degli apparati repressivi, controllano interi comparti dell'economia nel campo della produzione e della finanza. Era dunque inevitabile che un movimento di contestazione delle ingiustizie sociali entrasse in collisione col cuore profondo del regime. “Mullah capitalisti, restituiteci i nostri soldi”, lo slogan che è rimbalzato in molte manifestazioni, è la documentazione plastica di questa connessione, assieme alla distruzione di manifesti e immagini della guida spirituale Khamenei.

Per le stesse ragioni, anche la politica estera dell'Iran è divenuta bersaglio delle proteste. L'Iran è una potenza capitalistica regionale del Medio Oriente, in lotta da sempre con l'Arabia Saudita. Le risorse risparmiate dal taglio (parziale) delle sanzioni sono state investite da Teheran nel consolidamento ed estensione dell'area di influenza regionale sciita (sostegno ad Assad in Siria, a Hezbollah in Libano...), con un indubbio successo sul fronte siriano grazie all'appoggio determinante dell'imperialismo russo. Ma le glorie militari sui campi di guerra non hanno comportato solamente migliaia di caduti, hanno trascinato con sé aumento delle tasse, carovita, inasprimento dello sfruttamento sul fronte interno, nel nome del superiore interesse della nazione. Anche per questo la contestazione sociale è rapidamente divenuta contestazione politica: “Pensate a noi, non ad Assad”, gridano migliaia di manifestanti.


GLI IMPERIALISMI DIVISI

In questo quadro è naturale che l'imperialismo USA, lo Stato sionista d'Israele, il regime reazionario saudita, cerchino di strumentalizzare la mobilitazione sociale e politica contro il regime iraniano in funzione dei propri interessi strategici in Medio Oriente e su scala globale. È sempre accaduto in tutta la storia del mondo che lotte progressive, e persino rivoluzioni, all'interno di un determinato paese, vengano “usate” (e talvolta appoggiate) da potenze straniere conservatrici e reazionarie. Ci si potrebbe meravigliare del contrario? Così è naturale che il reazionario Trump provi a strumentalizzare la protesta in Iran in funzione della svolta della propria politica estera in Medio Oriente e della polemica interna contro Obama; come è naturale che il governo sionista d'Israele voglia utilizzare gli avvenimenti iraniani per consolidare l'asse col nuovo corso di Washington e col regime saudita.

Ma chi vede ciò che avviene in Iran come esecuzione del “piano” di Trump e dei suoi agenti segreti ha la stessa visione della storia delle polizie di tutto il mondo, inclusa naturalmente quella iraniana: la ribellione è sempre figlia del “complotto straniero contro i superiori interessi della patria”, che guarda caso coincidono con quelli della classe che detiene il potere. È l'argomento che sospinge ovunque, in ogni epoca, la repressione di ogni rivolta interna. L'Iran non fa certo eccezione.

Peraltro gli amanti dell'interrogativo dietrologico “a chi giova?”, pronti a vedere in ogni rivolta la mano straniera dell'imperialismo, dovrebbero evitare di guardare solo all'imperialismo USA. Gli imperialismi europei (Italia inclusa) non si allineano affatto a Donald Trump sulla vicenda iraniana. Anzi. Vogliono inserirsi nella contraddizione apertasi tra Iran e Trump per sostenere i propri interessi imperialisti in Persia e allargarvi la propria area di influenza: dagli investimenti dell'industria automobilistica francese agli appetiti inesauribili di ENI ed ENEL. Per questo la UE tace sull'Iran, strizzando l'occhio al regime e augurandosi la sua tenuta.

La verità è che la mobilitazione in corso in Iran tende oggi ad amplificare le contraddizioni interimperialiste, non a ridurle.


IL RUOLO DEL PROLETARIATO E LA QUESTIONE DELLA DIREZIONE 

In ogni caso i settori di massa e di gioventù che oggi alzano la testa in Iran non sono sospinti dagli agenti della CIA ma dal rifiuto dell'oppressione. Il regime lo sa ed è scosso. L'apparato repressivo dello Stato colpisce le manifestazioni con centinaia di arresti e con armi da fuoco, assassinando decine di giovani. E intanto chiude le piattaforme digitali per bloccare la propagazione ulteriore del movimento. Il Presidente Rouhani, dal canto suo, cerca di ritagliarsi un proprio spazio di manovra parlando del diritto a manifestare, ma è consapevole di essere bersaglio diretto della protesta e per questo spalleggia la repressione, nel mentre cerca di organizzare una propria contromobilitazione a difesa del regime. In realtà le diverse frazioni del regime teocratico attribuiscono la responsabilità della rivolta alla frazione rivale, ma proprio le contraddizioni interne al regime possono ampliare la dinamica della mobilitazione. Mentre la reazione attiva di settori di manifestanti alla repressione (e in qualche caso persino l'assalto alle caserme alla ricerca di armi) misura la potenzialità della radicalizzazione.

Inutile aggiungere che una eventuale trascrescenza del movimento in atto in un processo rivoluzionario potrebbe avere ripercussioni enormi in tutto il Medio Oriente. Ripercussioni che darebbero agli stessi USA e Israele grattacapi infinitamente più seri degli effimeri vantaggi di qualche strumentalizzazione diplomatica delle proteste in corso.

Seguiremo la dinamica della mobilitazione in atto. La sua base sociale sembra al momento limitata a settori di gioventù della popolazione povera, dei disoccupati, della classe media (studenti), con un ruolo importante delle donne. La classe operaia non è ancora scesa nell'arena della lotta. Questo sarà uno snodo decisivo per lo sviluppo degli avvenimenti. La classe operaia iraniana è una enorme potenza sociale. La sua discesa in campo alla testa della gioventù potrebbe segnare un capovolgimento dei rapporti di forza e aprire una pagina nuova dello scontro. Senza l'ingresso nell'arena della classe lavoratrice, la mobilitazione rischia di schiantarsi nel muro della repressione e di sfaldarsi. È la lezione del 2009.

Ma la semplice mobilitazione della classe lavoratrice non è sufficiente. È necessaria una sua direzione indipendente e rivoluzionaria, che sappia saldare nel vivo della lotta le rivendicazioni sociali, laiche e democratiche elementari, con la prospettiva di un'alternativa di potere della classe lavoratrice; che sappia costruire l'egemonia della classe lavoratrice sull'insieme delle domande progressive delle masse oppresse, delle città e delle campagne, nella prospettiva di un governo operaio e contadino. L'unica vera alternativa.
Nel 1979 la mobilitazione della classe operaia iraniana fu determinante per il rovesciamento dello Scià, dando vita in centinaia di fabbriche a forme di autorganizzazione democratica di massa (shorà). Ma l'assenza di una direzione indipendente, unita al ruolo collaborazionista del Tudeh stalinista, subordinò la classe operaia a Khomeini, che giunto al potere distrusse il movimento operaio organizzato e dopo pochi anni (1982) lo stesso Tudeh. La classe operaia iraniana ha pagato con quarant'anni di nuova dittatura la capitolazione del Tudeh al khomeinismo. Il Tudeh ha pagato a sua volta con cinquemila militanti assassinati.

La costruzione di una direzione marxista rivoluzionaria resta dunque la questione decisiva, come mostra la stessa esperienza della rivoluzione tunisina ed egiziana del 2010-2011.
L'irruzione nella lotta di una giovane generazione dell'avanguardia potrà rappresentare il bacino naturale della sua costruzione.
Partito Comunista dei Lavoratori