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Lo strano "comunista" Marco Rizzo


Dalla NATO a Kim Jong-un

Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato ad amare la bomba e a non averne paura

“Rizzo pelato, servo della NATO”. Questo lo slogan apparso sui muri di Torino nel lontano 1999. Il motivo era allora chiaro. Marco Rizzo era uno dei principali dirigenti (coordinatore della segreteria nazionale) del cosiddetto Partito dei Comunisti Italiani, diciamo il numero tre, dopo Cossutta e Diliberto. Come tale era stato, nel 1998, uno dei principali organizzatori della scissione del Partito della Rifondazione Comunista. Scissione di destra.
Quando Bertinotti era stato costretto, a malincuore, a rompere col centrosinistra sfiduciando Prodi, i cossuttiani avevano rotto con lui per continuare a sostenere il governo; che in realtà era stato sostituito da quello di D’Alema, in cui i cossuttiani erano entrati a pieno titolo, ottenendo il ministero della Giustizia, affidato a Diliberto, e quello degli affari regionali, a Katia Belillo.
Fu questo il governo che nel 1999 partecipò alla guerra della NATO contro la Jugoslavia, bombardando Belgrado con arei italiani, mentre tutti gli arei NATO partivano dalla base italiana di Aviano. Il buon Rizzo non mosse un dito contro l’appoggio del suo partito al governo di guerra, anche se una minoranza dei delegati del PdCI ad un congresso del partito sollevò obiezioni (salvo poi capitolare con il profondo argomento che tanto la guerra... stava per finire con la vittoria della NATO).

Nella storia del Partito Comunista - che è poi in realtà sostanzialmente la storia del grande capo Rizzo - pubblicata sul sito del partito rizziano si afferma che il rapporto tra lui e gli altri dirigenti del PdCI cominciò ad incrinarsi all’epoca della guerra del Kosovo cui egli «cercò inutilmente di opporsi» (sic!). Nemmeno Sherlock Holmes riuscirebbe a trovare il minimo indizio di tale opposizione, e la sua conclusione rivolta al suo fido assistente non potrebbe essere che una: “Elementare Watson: Rizzo mente”.
Dopo la fine di questa guerra e, successivamente, del governo D’Alema, Rizzo cercò di accreditarsi come il capo della “destra” del PdCI. Nel 2001 si pronunciò contro la partecipazione del PdCI alle manifestazioni contro il G8 a Genova sulla base del motivo per cui non erano presenti i lavoratori (ovviamente la FIOM e il sindacalismo di base non contavano niente).
Nel 2003, mentre si stava discutendo dell’ipotesi della costituzione di un "Partito del Lavoro”, in pieno Comitato Centrale del PdCI Rizzo affermò testualmente: «il Partito del lavoro c’è già, e Cofferati è il suo capo». Questo mentre Cofferati si pronunciava, insieme a governo e Confindustria, per il boicottaggio del referendum per l’estensione dell’art 18.
Nel 2005, al Parlamento europeo, insieme all’astronauta Guidoni si distinse dal resto del gruppo della Sinistra Europea (GUE). Il futuro sovranista, infatti, feroce nemico della UE e dell’euro, votò a favore dei trattati europei, mentre tutto il GUE, con un minimo di dignità, votava contro.

Come mai questo riformista di destra si tramutò pochi anni dopo nel leader di una rottura di sinistra (per quanto sempre nell’ambito di opzioni riformiste quali quelle proprie dello stalinismo)?
La realtà è molto semplice: bagarre tra burocrati ambiziosi. Esautorato progressivamente Cossutta, i dioscuri del PdCI divennero Diliberto e Rizzo. Ma il segretario e il numero uno era Diliberto. Come si dice popolarmente, non possono esistere due galli nello stesso pollaio (riformista). Rizzo diede un'intervista ad un giornale in cui affermava che lui poteva contentarsi di essere un “numero due” (testuale), ma a condizione di essere il “vero numero due”. Sottotraccia era palese che il nostro era adepto della filosofia di Giulio Cesare secondo cui “è meglio essere il primo nel proprio villaggio, che il secondo in Roma”. Ma scalzare Diliberto si rivelò troppo difficile per il pur intelligente, abile e manovriero Rizzo. Di fronte a ciò egli aveva due possibilità: o approfondire le posizioni di destra e rischiare di fare la fine del vecchio Cossutta, del tutto emarginato e poi fuori dal partito e ai margini del PD; oppure seguire la “linea Totò (Antonio De Curtis principe di Bisanzio)”, e quindi buttarsi a sinistra.
E questo è quello che Rizzo fece, cominciando col criticare la coalizione dell’Arcobaleno, proseguendo con uno scontro frontale con il gruppo dirigente del PdCI, e in primo luogo con Diliberto, fino ad arrivare ad accusarlo di essere un massone, e a candidare un suo adepto neofita come il filosofo Gianni Vattimo nelle liste concorrenti di Italia dei Valori. Da ciò la rottura con il PdCI, e la costituzione con gli elementi più critici della linea opportunista del partito - ma anche più stalinisti - di Comunisti-Sinistra Popolare (oggi semplicemente Partito Comunista).

Ma l’isolamento internazionale della esperienza rizziana, lungi dal sottolineare il ruolo del “capo”, lo sminuiva. Per questo il nostro cominciò a guardarsi intorno per trovare la giusta casa. E incontrò così il Partito Comunista Greco (KKE). Questo partito stalinista combina da tempo un sostanziale riformismo, sia pure di sinistra, con una fraseologia rivoluzionaria, ma anche con un assurdo settarismo, in particolare nei confronti delle altre organizzazioni della sinistra (negli anni ’90, pur di combattere il PASOK socialdemocratico, giunse a costituire un governo con la destra).
Da alcuni anni il KKE ha organizzato una lassa unione di partiti stalinisti di sinistra, che ha assunto il nome di Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa. Sufficientemente lassa per non costituire un pericolo per la leadership di Rizzo e, grazie al ruolo del KKE (gli altri partiti sono tutti molto piccoli), sufficientemente prestigiosa per dare una verniciatura internazionalista al suo partito.
Certo, c’erano alcuni problemi di tipo teorico-politico per realizzare l’accordo col KKE. Ma i problemi teorici non sono evidentemente problemi per Rizzo, e del resto, Atene val bene una messa.
Al momento della sua costituzione, il partito rizziano, conformemente alla tradizione stalinista italiana, si era richiamato a Togliatti (correttamente, dal suo punto di vista) e a Gramsci (abusivamente). Ma per il KKE il primo era un revisionista, che aveva anticipato quella tale partito che considera la svolta storica kruscioviana; il secondo un semitrotskista (tesi abbastanza corretta). In obbedienza al nuovo credo, Rizzo non ha esitato un secondo a sbarazzarsi del riferimento ai due.
In particolare, Gramsci era indicato come riferimento nello statuto stesso di Comunisti-Sinistra Popolare. Nondimeno Rizzo, senza aspettare un congresso né convocare almeno un comitato centrale, espulse Gramsci dallo statuto. Un gruppo di militanti di Roma protestò per questa scelta nel merito e nel metodo, e si ritrovò rapidamente fuori del partito, ciò che sottolinea la grande democrazia del partito rizziano.
Allo stesso modo Rizzo, silenziosamente, rinunciò al precedente filoputinismo, visto che il KKE considera (giustamente) la Russia un paese capitalistico in sviluppo e (altrettanto giustamente) la Cina un paese imperialista.
Questo portò Rizzo e il suo partito a considerare ormai come faro del socialismo (oltre Cuba) la Corea del Nord, dinastia ereditaria “rossa” dei Kim, oggi di Kim Jon-Un.

Recentemente il nostro ha parlato di questo e altro alla conferenza stampa elettorale di Rai2, prevista obbligatoriamente per tutte le liste presenti alle elezioni. In questa occasione ha confermato in primo luogo la sua natura di gran contaballe affermando con la più grande faccia tosta che la presentazione per la prima volta alle elezioni politiche del suo partito rappresentava la prima presenza della falce e martello sulle schede elettorali dopo dodici anni, dimenticando pour cause la costante presentazione in questi anni, nella totalità o nella maggioranza del paese, delle liste falcemartellate (accompagnate dal mondo dell’internazionalismo) del nostro PCL.
Nel corso della stessa conferenza stampa si è poi potuto assistere a tutte le ambiguità (e anche peggio) nazionalstaliniste su migranti, lotta ai fascisti, diritti civili, con Rizzo che addirittura si rifiutava di dire cosa avrebbe votato in merito alle unioni civili per gli omosessuali e allo Ius soli. Questioni ovviamente complicate, mica semplici come appoggiare i bombardamenti su Belgrado.
Ma sulla questione della Corea del Nord e del suo regime la faccia tosta ha ripreso il sopravvento. Forse temendo di passare alla cronaca (e alla satira stile Crozza) come il suo quasi omonimo Razzi, Rizzo ha cercato di presentare la sua posizione come una pura - e in questo caso legittima - difesa della nazione nord-coreana dall’imperialismo USA, senza identificazione o sostegno politico al sistema. Peccato che queste non fossero le posizioni espresse al momento della sua visita circa due anni fa in Corea, e soprattutto al momento dell’arresto e messa a morte (con o senza sbranamento dei cani) dello zio di Kim Jong-un che, con l’appoggio dei cinesi, aveva cercato di rovesciare il satrapo di Pyongyang per sostituirlo con uno stalinismo un po’ meno bizzarro. In questa ultima occasione, come avemmo occasione di commentare sul nostro sito all’epoca, egli affermò testualmente ad un giornale che lo intervistava: «Io sono contro la pena di morte, ma bisogna riconoscere che quest’uomo [lo zio, ndr] ha tentato un colpo di stato contro un governo democraticamente eletto» (sic!). Per dirla con Peppino: “e ho detto tutto”. E in questo caso è proprio vero.

Ma noi, che siamo buoni, vogliamo concludere questo testo con un sincero ed accorato appello al voto per le liste del Partito Comunista di Marco Rizzo.
Se pensate, a cento anni dalla rivoluzione russa (“inizio della rivoluzione mondiale” - Lenin), che la soluzione socialista si realizzi sul piano del sovranismo nazionale; che Stalin sia stato un grande dirigente rivoluzionario internazionalista; che il novanta per cento dei dirigenti a tutti i livelli della rivoluzione d’ottobre (che Stalin ha fatto uccidere) fossero solo dei traditori, assassini, terroristi e agenti (da molti anni) delle varie potenze imperialiste e in particolare di Hitler e del Mikado; che il socialismo del futuro debba somigliare, grossomodo, al regime della Corea del Nord, magari con il grande leader dotato di pelata, invece del taglio di capelli di Kim Jong-un; se pensate questo, votate Marco Rizzo e il suo partito.
Ma se invece non condividete quelle affermazioni, e vi considerate comunisti e comuniste, allora l’unica scelta possibile per voi è votare le liste di “Per una sinistra rivoluzionaria".
FG

Contro l'imperialismo guerrafondaio!

Testo del volantino nazionale mensile del PCL
18 Aprile 2017
L'intervento militare degli Stati Uniti in Siria con il bombardamento della base siriana di Shayrat, così come la dimostrazione muscolare con il bombardamento in Afganistan rappresentano la smentita nei fatti delle interpretazioni politiche che vedevano gli Stati Uniti pronti a ritirarsi da un ruolo di primo piano nello scenario mondiale sotto la leadership Trump, che in molti ambienti, persino di sinistra, veniva dipinto come il male minore, proprio nella convinzione che un ritorno isolazionista fosse una politica possibile e che questo avrebbe creato le condizioni per un diverso confronto internazionale.

La vittoria di Trump ha invece dimostrato una volta di più come in questa fase storica segnata dalla grande crisi del capitalismo, non solo si è esaurito lo spazio per ogni ipotesi riformista, ma che anche le vecchie forme della politica borghese conoscono una crisi senza precedenti. Trump ha vinto scalando il Partito Repubblicano e sulle macerie del Partito Democratico: la sconfitta di Hillary Clinton è anche il bilancio degli otto anni di Barack Obama e la misura del fallimento impietoso di tutte le illusioni riformiste che anche tanta sinistra internazionale aveva contribuito a creare intorno alla sua esperienza. Due mandati, quelli di Obama, in cui da un lato si sono salvate le banche con le risorse pubbliche e i capitalisti dell'auto con i tagli dei salari e dei diritti, mentre dall'altro milioni di proletari, studenti e giovani lavoratori conoscono il peggioramento delle loro condizioni di vita sotto forma del caro-polizze di assistenza medica lasciata alle assicurazioni private, di debiti d'onore a vita per sostenere le rette studentesche, nella cronicizzazione dell'alternanza tra disoccupazione e lavori sottopagati e senza tutele. La capitolazione di Bernie Sanders alla Clinton dopo le primarie ha vanificato la grande ricerca di una alternativa potenzialmente anticapitalista che il proletariato statunitense ha dimostrato, in controtendenza, in questi anni.

L'affermazione di Trump è dunque stata un'affermazione reazionaria, che si è nutrita della crisi di egemonia dell'establishment borghese tradizionale, ma che ha bisogno di dare continuità politica reale alla ferocia della sua campagna elettorale. L'utilizzo della bomba MOAB in Afghanistan e le minacce alla Corea del Nord sono la più recente conferma di questa direzione dell'amministrazione Trump.

La politica spericolata e cialtrona di Trump (si veda l'esito del tentativo di rimuovere la riforma sanitaria, dove si è trovato senza voti alla camera) tenta di affermare e concretizzare i suoi slogan elettorali di una rinascita di egemonia mondiale statunitense e le prove di forza con le grandi potenze rivali, a partire dalla Russia, rientrano in questo orizzonte. Gli ammiccamenti tra Trump e Putin dei mesi scorsi devono fare i conti con la cruda realtà della guerra civile siriana dove ciascuna potenza, imperialistica o locale, sfrutta la tragedia della Siria per sviluppare una propria opzione di controllo politico, militare ed economico, sul terreno del Medio Oriente o sul piano globale. La rivoluzione siriana, esplosa nel 2011 nel solco delle rivoluzioni arabe come contraddittoria ma genuina rivolta popolare contro un regime capitalista sanguinario e familistico, è progressivamente sprofondata nella spirale di una guerra civile senza più forze realmente progressive, anzi trasformandosi nell’esempio più eclatante dello scontro interborghese.

Da due angoli del mondo così apparentemente lontani, la guerra civile siriana e gli Stati Uniti a guida Donald Trump, che in quella stessa guerra civile intervengono con uomini e bombardamenti, la lezione che si deve trarre è la medesima:
Dentro la svolta d'epoca segnata dalla grande crisi del capitalismo e del riformismo, non c'è spazio storico duraturo per le vecchie forme della politica borghese né per soluzioni di compromesso. Il bivio di prospettiva storica che interroga il mondo è quello tra rivoluzione o reazione. Il ritardo della rivoluzione socialista genera mostri. La costruzione di un partito rivoluzionario internazionale che lavori ad elevare la coscienza della classe lavoratrice all'altezza di un alternativa globale di sistema è un compito quanto mai urgente e immediato.

Il Partito comunista dei lavoratori, con tutti i suoi militanti, è impegnato in ogni contesto, nazionale ed internazionale, a portare avanti questo progetto.
Partito Comunista dei Lavoratori

Siria e Corea, il nuovo corso di Donald Trump

La “svolta” della politica estera di Trump è al centro dello scenario mondiale. L'attacco militare in Siria, la minaccia militare alla Corea del Nord, si pongono in evidente linea di continuità.
Larga parte del commentario borghese tradizionale, ma anche gli ambienti populisti reazionari europei, si erano rappresentati la figura di Trump come quella di un politico principalmente proiettato sul mercato elettorale americano, estraneo ai grandi temi della politica internazionale, orientato alla rottura isolazionista con la tradizionale politica estera dell'imperialismo USA (inclusa la tradizione repubblicana). Le cancellerie degli imperialismi alleati, in primo luogo europei e giapponese, vedevano tutto questo con comprensibile preoccupazione. I diversi ambienti del sovranismo nazionalista come esempio luminoso. Persino alcuni settori politici e culturali (particolarmente sciagurati) del “nazionalismo di sinistra” volevano vedere nel trumpismo un lato positivo nel segno di un supposto disimpegno dal vecchio imperialismo yankee.

I fatti si sono incaricati di dimostrare, nella forma più brutale, l'inconsistenza di queste rappresentazioni ideologiche. Da ogni versante.


I RISVOLTI POLITICI INTERNI DEL NUOVO CORSO. LA RISPOSTA ALLA CRISI DELL'IMPERIALISMO USA

Donald Trump ha sicuramente costituito un candidato outsider, estraneo al vecchio establishment USA. Proprio la sua estraneità al vecchio potere americano ha rappresentato la principale leva della sua vittoria. Ma se Trump poteva in un certo senso vincere “da solo”, certo non poteva e non può governare “da solo” gli Stati Uniti d'America. Può governare solamente trovando un punto di equilibrio con l'insieme dell'apparato statale americano in tutta la sua articolazione e complessità interna (Federal Reserve, Pentagono, corpo diplomatico, servizi segreti, Corte Suprema, Congresso...).

I primi mesi dell'amministrazione Trump dimostrano che il punto di equilibrio non è facile. La fronda del FBI , la diffidenza della banca centrale, l'ostilità di parte rilevante della magistratura hanno rappresentato ostacoli potenti al consolidamento interno del trumpismo. Il suo blocco sociale elettorale ancora regge fondamentalmente, nonostante lo sviluppo di forme diverse di opposizione politica di massa. Ma la sconfitta clamorosa in sede parlamentare sull'abolizione della riforma sanitaria di Obama, l'invalidazione giudiziaria dei suoi famigerati decreti sull'immigrazione, la campagna anti-Trump sui rapporti ambigui con la Russia condotta da settori dei servizi e della grande stampa, hanno dimostrato alla nuova presidenza USA che governare gli Stati Uniti è cosa ben più complessa di una campagna elettorale o di una somma di tweet.

Il nuovo corso della politica estera di Trump è anche parte della ricerca di un equilibrio nuovo. Il rilancio di una politica muscolare e l'ostentazione della forza rispondono infatti a obiettivi interni molteplici. Da un lato giocano sul richiamo del consenso popolare attorno al prestigio della Nazione e del suo comandante in capo, declinando in forme nuove quella petizione nazionalista ("America First") che ha rappresentato tanta parte dell'ascesa del trumpismo. Dall'altro lato sono funzionali a ricomporre una relazione con ambienti decisivi per l'esercizio della presidenza: con l'insieme del Partito Repubblicano, a partire dal Congresso, e con l'ambiente militare del Pentagono e dei suoi alti gradi, cuore della potenza imperialista degli USA. L'emarginazione dell'ideologo di estrema destra Bannon a favore di esponenti di alta estrazione militare (ministro della Difesa Mattis, consigliere McMaster, ex capo di Stato Maggiore Mullen) accompagna non a caso il nuovo corso.

Ma il nuovo corso vuole rispondere innanzitutto alla lunga crisi di direzione politica dell'imperialismo USA nel mondo. All'esigenza di una risposta nuova alla sfida dell'imperialismo russo e soprattutto, su scala globale, dell'imperialismo cinese. L'attacco in Siria e la minaccia alla Corea del Nord sui mari del Pacifico vogliono segnare un punto di svolta. La fine della “ritirata americana” e la rivendicazione dell'egemonia USA nel mondo.


L'ATTACCO IN SIRIA: IL RIEQUILIBRIO DELLE FORZE CON MOSCA

L'attacco in Siria ha voluto soprattutto marcare un segno di svolta della politica estera USA nello scenario mediorientale e internazionale, in rapporto all'imperialismo russo.

Il marcato indebolimento di peso e ruolo dell'imperialismo USA, dopo la disfatta delle guerre di Bush e la lunga paralisi dell'amministrazione Obama, aveva aperto il varco all'inserimento dell'imperialismo russo in Medio Oriente. Sia sul terreno della presenza militare, dove l'intervento russo ha segnato una svolta nella guerra siriana a favore di Assad (Aleppo), sia sul terreno dell'iniziativa politico-diplomatica, dove Putin aveva capitalizzato progressivamente a proprio vantaggio la crisi profonda delle tradizionali alleanze USA: ricostruendo una propria relazione diretta col regime di Erdogan, attivando un proprio rapporto diretto con lo Stato sionista d'Israele, gestendo un ruolo centrale di promozione e regia nel negoziato internazionale attorno alla “soluzione” politica della crisi siriana (negoziati di Astana).

L'attacco di Trump alla Siria esprime la volontà della nuova amministrazione USA di ribaltare questo scenario. L'attacco non prelude probabilmente ad una escalation militare americana in Siria, ma certo ha un significato politico enorme. Trump vuole dire alla Russia e a tutti gli attori della scena mediorientale che ora il gioco è cambiato; che gli USA non intendono più rassegnarsi ad una propria marginalizzazione a vantaggio di Putin; che gli USA vogliono riproporsi come grande potenza capace di ricomporre attorno alla propria forza (e alla propria determinazione ad usarla) la rete delle relazioni in Medio Oriente. A partire dall'asse speciale con lo Stato sionista e la sua attuale leadership, cui si lascia mano libera in Palestina, e che si vuole rassicurare contro l'Iran. Ma con la volontà di recuperare la relazione con l'Arabia Saudita, non a caso plaudente ai bombardamenti americani in funzione anti-iraniana; di ricostruire il rapporto con la Turchia di Erdogan, rapidamente collocatosi al fianco di Trump in funzione dei propri appetiti neo-ottomani (e dello scambio negoziale con garanzie anti-curde); di ostacolare l'avvicinamento in corso dell'Egitto alla Russia, riattivando una relazione diretta con Al-Sisi (per la prima volta ricevuto a Washington). Le ragioni dei bombardamenti USA sono rivelate in queste ore proprio dai primi effetti politici che hanno prodotto. Lo spiazzamento di Putin, che aveva realmente puntato sulla nuova amministrazione Trump, non poteva essere più clamoroso.


LA MINACCIA IMPERIALISTA ALLA COREA E IL CONTENIMENTO DELLA CINA

Ma l'attacco di Trump in Siria non ha avuto solo una finalità mediorientale. Ha voluto produrre un segno più ampio nella politica mondiale. Trump ha voluto ricordare che l'imperialismo USA resta la principale potenza militare su scala mondiale, e che è nuovamente disponibile a usare la propria forza, ovunque occorra, nel proprio interesse nazionale. È un segnale inviato non solo alla Russia ma anche (e per alcuni aspetti) soprattutto in Asia.

L'Asia e il Pacifico sono sempre più il terreno centrale di misurazione dei rapporti di forza imperialisti su scala mondiale. È l'area continentale di più elevato sviluppo economico del pianeta, il baricentro delle rotte commerciali, ma soprattutto il terreno di ascesa della grande potenza cinese e delle sue ambizioni espansioniste. Il confronto strategico centrale con l'imperialismo cinese segna da anni la politica estera americana. Il tentativo (fallito) dell'amministrazione Obama di disimpegnarsi dal teatro mediorientale era in funzione della concentrazione delle forze (economiche e militari) sul Pacifico. Il disegno (arenato) dei grandi accordi di libero scambio con la UE (TTIP) e in Asia (TPP) era in funzione dell'isolamento della Cina e di un nuovo bilanciamento delle forze. Trump rimpiazza gli accordi di libero scambio a favore di una politica protezionista, ma sempre in funzione della contrapposizione strategica alla Cina, vera costante della politica USA. Lo stesso ammiccamento iniziale di Trump a Putin, poi radicalmente rimosso, mirava all'indebolimento della Cina. Di certo l'imperialismo USA non può mollare la centralità del Pacifico: significherebbe abbandonare ogni Paese (dal Vietnam alle Filippine di Duterte) all'egemonia cinese e compromettere le relazioni decisive con l'imperialismo giapponese. Garantire i propri alleati asiatici e la loro “sicurezza” è dunque una necessità strategica irrinunciabile per gli USA. Il nuovo corso di Donald Trump mette al servizio di questa necessità la politica delle cannoniere.
La minaccia militare USA contro la Corea del Nord si pone in questo scenario generale.


LA POSSIBILITÀ REALE DI UNA GUERRA IN COREA

L'iniziativa militare USA non è ancora compiutamente definita. Ma non siamo in presenza di un bluff. Siamo in presenza realmente di una possibile dinamica di guerra tra USA e Corea, con eventuali riflessi di propagazione in Asia. Mai dagli anni '60 il rischio di un conflitto potenzialmente nucleare ha raggiunto una soglia tanto elevata.

Il nuovo corso dell'amministrazione Trump mira al disarmo nucleare della Corea del Nord, nel momento stesso in cui il regime dinastico nordcoreano usa e rivendica sempre più il proprio armamento nucleare come scudo protettivo e assicurazione sulla vita. Se il regime proseguirà, come annunciato, il lancio propagandistico dei propri missili nucleari, è assai probabile che l'imperialismo USA bombarderà la Corea. Se la flotta americana bombarderà la Corea, fosse pure con armi convenzionali, è possibile una replica militare coreana sulle basi militari americane dell'area, e sugli alleati asiatici degli USA (Corea del Sud e Giappone). Ciò che innescherebbe una dinamica di conflitto più ampia, potenzialmente incontrollabile. Sia dal punto di vista dei paesi coinvolti, sia dal punto di vista del livello militare del conflitto.

Naturalmente questo scenario non è l'unico possibile. L'imperialismo USA sta esercitando la massima pressione sulla Cina, grande protettore del regime nordcoreano, perché provveda a “risolvere il problema”. La Cina, dal canto suo, impegnata nella pacifica espansione della propria area d'influenza su scala mondiale, a partire dall'Asia, non ha alcun interesse a uno scontro militare in Corea. Da qui le molteplici pressioni cinesi sul regime di Kim Jong-un a favore di un suo passo indietro nel contenzioso apertosi. Ma gli strumenti di pressione di Pechino, notevoli sul piano economico (riduzione delle importazioni di carbone e delle esportazione di beni alimentari), sono limitati sul piano politico. La dinastia regnante coreana ha consolidato negli anni una propria autonomia politica dalla Cina, anche attraverso l'eliminazione fisica dei possibili interlocutori interni dell'”alleato” cinese. La Cina non sembra disporre ad oggi di proprie leve politiche con cui operare e imporre un cambio di leadership a Pyongyang. La politica interna di terrore da parte di Kim Jong-un non serve solo a proteggere il regime da ogni possibile ribellione di massa, ma anche a chiudere il varco ad ogni defezione d'apparato. La lunga resistenza alle sanzioni internazionali e alla stessa pressione cinese è la misura del successo (sinora) di questa politica.

Il regime di Kim Jong-un maschera tuttavia con le parate militari la debolezza delle proprie retrovie e le contraddizioni strutturali del paese (contraddizione tra economia pianificata e sviluppo delle venti zone speciali a economia di mercato, crescita di una nuova oligarchia interessata alla proprietà privata, espansione abnorme del mercato nero, collasso cronico della produzione agricola dopo le inondazioni degli anni '90, 41% della popolazione sotto il livello minimo di nutrizione). Sostenere i costi di una guerra con la più grande potenza del pianeta appare un impresa disperata. È possibile dunque che il regime scelga di evitare la guerra rinunciando a nuove esibizioni nucleari. Gli USA userebbero propagandisticamente questa eventualità come risultato della propria prova di forza. La Cina la sbandiererebbe come frutto della propria pressione rivendicando il primato di mezzi pacifici e l'insostituibilità del proprio ruolo diplomatico contro ogni unilateralismo USA.

Ma se la dinamica di guerra si aprirà, occorrerà misurare la sua ampiezza. Nel caso di un attacco militare americano limitato e “simbolico”, come avvenuto in Siria, non si può escludere una risposta unicamente politico-propagandista del regime in funzione della propria autoconservazione. In caso contrario, o nel caso di un'escalation dell'imperialismo USA che mettesse in gioco la sopravvivenza del regime, la Cina si troverebbe di fronte a un bivio drammatico: assistere passivamente alla sconfitta di un proprio alleato per mano americana, al rischio di una riunificazione americana delle due Coree, al mutamento dei rapporti di forza in Asia; o sostenere il proprio “alleato” al prezzo di un confronto militare potenzialmente incontrollabile, che può mettere a rischio l'intero progetto di ascesa Cinese? Di certo l'imperialismo USA non potrebbe subire passivamente ritorsioni coreane sui propri alleati asiatici, proprio nel momento in cui rivendica il proprio primato mondiale agli occhi innanzitutto della Cina.


PER UNA MOBILITAZIONE CONTRO LA GUERRA E L'IMPERIALISMO

Vedremo gli sviluppi dello scontro nei prossimi giorni e settimane. Certo colpisce il divario drammatico tra il livello delle minacce di guerra e l'assenza di mobilitazione internazionale. È necessario da subito che tutte le forze del movimento operaio, in ogni Paese, sviluppino un'iniziativa di massa contro la guerra. Sul nostro versante, italiano ed europeo, una mobilitazione innanzitutto contro l'imperialismo USA, la più grande potenza militare del pianeta, e la sua pretesa intollerabile di riproporsi come il gendarme dell'ordine mondiale; una mobilitazione contro ogni forma di solidarietà e sostegno all'imperialismo USA da parte dell'imperialismo italiano e degli imperialismi europei. Che dopo aver fatto campagna ideologica anti-Trump sui propri fronti interni si sono tutti dichiarati “trumpisti” in occasione dell'attacco militare USA in Siria, nel nome del superiore interesse della NATO e della solidarietà atlantica.

Ma ciò che sta avvenendo in queste settimane assume un significato che va al di là del contingente. Chi credeva all'isolazionismo di Trump ha dimenticato che nessuna potenza imperialista può “isolarsi” dalla competizione mondiale. Tanto meno può farlo la più grande potenza imperialista del mondo, come del resto dimostra l'intera storia del Novecento. “America First” non solo non significa disimpegno USA dagli affari mondiali, ma rappresenta l'armatura ideologica di una nuova politica di potenza dell'imperialismo americano, la sua volontà di reagire ad ogni rischio di declassamento e alla sfida dei nuovi imperialismi. Il nuovo corso dell'amministrazione Trump, al di là delle sue motivazioni interne e dei suoi aspetti empirici, annuncia dunque una stagione nuova delle relazioni internazionali. Il rilancio dei nazionalismi imperialisti, delle guerre commerciali e valutarie, delle minacce e pratiche protezioniste, della contesa di vecchie e nuove aree di influenza, a partire dall'Asia, si accompagna al grande ritorno delle politiche di guerra. Con tutti i rischi di prospettiva, su scala storica, per il futuro stesso dell'umanità. Per questo, tanto più oggi, la mobilitazione contro la guerra è inseparabile dalla lotta per il rovesciamento del capitalismo e dell'imperialismo - di ogni imperialismo - e dalla lotta per la rivoluzione socialista internazionale. L'unica vera alternativa alla barbarie.

Marco Ferrando