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Comunisti e guerra in Kosovo. I crimini non vanno taciuti

20 anni fa la NATO aggrediva la Jugoslavia bombardando Belgrado, con la complicità dell’Italia e del Governo D’Alema. La maschera di una alleanza “difensiva” cadeva definitivamente, dinanzi all'evidenza di una aggressione criminale voluta dai grandi monopoli ma giustificata con il pretesto dei “diritti umani”, come poi sarebbe avvenuto in Iraq, Afghanistan, Libia, ecc. L’Italia non sia mai più complice di una guerra imperialista. Fuori l’Italia dalla NATO, fuori la NATO dall'Italia.” 

Il Fronte della Gioventù Comunista (FGC), organizzazione giovanile del Partito Comunista di Marco Rizzo, con queste parole il 24 marzo ha ricordato l’inizio dei bombardamenti contro la Jugoslavia ad opera della NATO. Vent'anni fa Belgrado veniva bombardata, con aerei italiani che partivano dalla base italiana di Aviano. Un crimine imperialista che i rivoluzionari denunciarono allora e denunciano oggi. 

L’opposizione dei comunisti agli interventi dell’imperialismo è una questione di principio, e non è nostro interesse quindi polemizzare con questa giusta presa di posizione del FGC in merito a quei drammatici eventi. Anzi, siamo perfettamente d’accordo con la dichiarazione delle compagne e dei compagni. 

Tuttavia, ci pare necessario ricordare quale è stata la natura del governo D’Alema: un governo di cui faceva parte, con tanto di ministri, il Partito dei Comunisti Italiani, nato nel 1998 come scissione (di destra!) dal Partito della Rifondazione Comunista, con l’esplicita volontà di continuare a sostenere il primo governo Prodi, al quale Bertinotti era stato costretto a togliere la fiducia. 

Ebbene Marco Rizzo, oggi segretario del Partito Comunista, fu tra i principali organizzatori della scissione del Partito dei Comunisti Italiani, e all'epoca era deputato e coordinatore della segreteria nazionale del PdCI. 

A nulla possono valere i tentativi di giustificazione o rimbalzo di responsabilità riguardo ai fatti di vent'anni fa. La storia parla chiaro. Cossutta, Diliberto, Rizzo hanno rappresentato in Italia la peggiore deriva governista di uno stalinismo italiano che, nell'ottica delle “alleanze contro la destra” e dell’unità con il centrosinistra, è passato dai compromessi storici alla partecipazione criminale ai governi della guerra. 

C’è chi, come Marco Rizzo vent’anni fa, ha rotto con il PRC per appoggiare un governo di centrosinistra che ha bombardato Belgrado, e chi invece, come il Partito Comunista dei Lavoratori, è nato contro i governi di centrosinistra, contro i governi di guerra, per l’opposizione a tutti i governi borghesi. 

Si obietterà: “oggi Rizzo è cambiato, ha ammesso i suoi errori, il PC è alleato del grande KKE greco”. Tralasciando per un istante quali furono i veri motivi della “svolta a sinistra” che Marco Rizzo fece nel 2009, il punto è un altro: non è cambiato il bilancio che è necessario fare riguardo a tutta la storia dello stalinismo internazionale, perché è in questo che risiede l’origine degli errori. Non è forse vero che il KKE greco, oggi partito fratello del PC di Marco Rizzo, dall’alto della fraseologia pseudorivoluzionaria, ben dieci anni prima di Rizzo partecipò al governo di unità nazionale del 1989, a braccetto della socialdemocrazia e della destra postfascista? Può essere, questo, semplicemente un errore di percorso? 

Perché allora il FGC tace sulle responsabilità del segretario del Partito Comunista? Se sostenere un governo borghese è di per sé imperdonabile per i comunisti, sostenere e partecipare ad un governo di guerra non è un semplice errore o una svista, ma un crimine. 

Chiamare i propri dirigenti alle loro responsabilità, riscoprire il marxismo rivoluzionario e studiare con spirito libero la storia del movimento operaio e comunista: è questo l’invito e l’augurio che facciamo alle giovani compagne e compagni del FGC.
Partito Comunista dei Lavoratori

Lo strano "comunista" Marco Rizzo


Dalla NATO a Kim Jong-un

Il dottor Stranamore, ovvero: come ho imparato ad amare la bomba e a non averne paura

“Rizzo pelato, servo della NATO”. Questo lo slogan apparso sui muri di Torino nel lontano 1999. Il motivo era allora chiaro. Marco Rizzo era uno dei principali dirigenti (coordinatore della segreteria nazionale) del cosiddetto Partito dei Comunisti Italiani, diciamo il numero tre, dopo Cossutta e Diliberto. Come tale era stato, nel 1998, uno dei principali organizzatori della scissione del Partito della Rifondazione Comunista. Scissione di destra.
Quando Bertinotti era stato costretto, a malincuore, a rompere col centrosinistra sfiduciando Prodi, i cossuttiani avevano rotto con lui per continuare a sostenere il governo; che in realtà era stato sostituito da quello di D’Alema, in cui i cossuttiani erano entrati a pieno titolo, ottenendo il ministero della Giustizia, affidato a Diliberto, e quello degli affari regionali, a Katia Belillo.
Fu questo il governo che nel 1999 partecipò alla guerra della NATO contro la Jugoslavia, bombardando Belgrado con arei italiani, mentre tutti gli arei NATO partivano dalla base italiana di Aviano. Il buon Rizzo non mosse un dito contro l’appoggio del suo partito al governo di guerra, anche se una minoranza dei delegati del PdCI ad un congresso del partito sollevò obiezioni (salvo poi capitolare con il profondo argomento che tanto la guerra... stava per finire con la vittoria della NATO).

Nella storia del Partito Comunista - che è poi in realtà sostanzialmente la storia del grande capo Rizzo - pubblicata sul sito del partito rizziano si afferma che il rapporto tra lui e gli altri dirigenti del PdCI cominciò ad incrinarsi all’epoca della guerra del Kosovo cui egli «cercò inutilmente di opporsi» (sic!). Nemmeno Sherlock Holmes riuscirebbe a trovare il minimo indizio di tale opposizione, e la sua conclusione rivolta al suo fido assistente non potrebbe essere che una: “Elementare Watson: Rizzo mente”.
Dopo la fine di questa guerra e, successivamente, del governo D’Alema, Rizzo cercò di accreditarsi come il capo della “destra” del PdCI. Nel 2001 si pronunciò contro la partecipazione del PdCI alle manifestazioni contro il G8 a Genova sulla base del motivo per cui non erano presenti i lavoratori (ovviamente la FIOM e il sindacalismo di base non contavano niente).
Nel 2003, mentre si stava discutendo dell’ipotesi della costituzione di un "Partito del Lavoro”, in pieno Comitato Centrale del PdCI Rizzo affermò testualmente: «il Partito del lavoro c’è già, e Cofferati è il suo capo». Questo mentre Cofferati si pronunciava, insieme a governo e Confindustria, per il boicottaggio del referendum per l’estensione dell’art 18.
Nel 2005, al Parlamento europeo, insieme all’astronauta Guidoni si distinse dal resto del gruppo della Sinistra Europea (GUE). Il futuro sovranista, infatti, feroce nemico della UE e dell’euro, votò a favore dei trattati europei, mentre tutto il GUE, con un minimo di dignità, votava contro.

Come mai questo riformista di destra si tramutò pochi anni dopo nel leader di una rottura di sinistra (per quanto sempre nell’ambito di opzioni riformiste quali quelle proprie dello stalinismo)?
La realtà è molto semplice: bagarre tra burocrati ambiziosi. Esautorato progressivamente Cossutta, i dioscuri del PdCI divennero Diliberto e Rizzo. Ma il segretario e il numero uno era Diliberto. Come si dice popolarmente, non possono esistere due galli nello stesso pollaio (riformista). Rizzo diede un'intervista ad un giornale in cui affermava che lui poteva contentarsi di essere un “numero due” (testuale), ma a condizione di essere il “vero numero due”. Sottotraccia era palese che il nostro era adepto della filosofia di Giulio Cesare secondo cui “è meglio essere il primo nel proprio villaggio, che il secondo in Roma”. Ma scalzare Diliberto si rivelò troppo difficile per il pur intelligente, abile e manovriero Rizzo. Di fronte a ciò egli aveva due possibilità: o approfondire le posizioni di destra e rischiare di fare la fine del vecchio Cossutta, del tutto emarginato e poi fuori dal partito e ai margini del PD; oppure seguire la “linea Totò (Antonio De Curtis principe di Bisanzio)”, e quindi buttarsi a sinistra.
E questo è quello che Rizzo fece, cominciando col criticare la coalizione dell’Arcobaleno, proseguendo con uno scontro frontale con il gruppo dirigente del PdCI, e in primo luogo con Diliberto, fino ad arrivare ad accusarlo di essere un massone, e a candidare un suo adepto neofita come il filosofo Gianni Vattimo nelle liste concorrenti di Italia dei Valori. Da ciò la rottura con il PdCI, e la costituzione con gli elementi più critici della linea opportunista del partito - ma anche più stalinisti - di Comunisti-Sinistra Popolare (oggi semplicemente Partito Comunista).

Ma l’isolamento internazionale della esperienza rizziana, lungi dal sottolineare il ruolo del “capo”, lo sminuiva. Per questo il nostro cominciò a guardarsi intorno per trovare la giusta casa. E incontrò così il Partito Comunista Greco (KKE). Questo partito stalinista combina da tempo un sostanziale riformismo, sia pure di sinistra, con una fraseologia rivoluzionaria, ma anche con un assurdo settarismo, in particolare nei confronti delle altre organizzazioni della sinistra (negli anni ’90, pur di combattere il PASOK socialdemocratico, giunse a costituire un governo con la destra).
Da alcuni anni il KKE ha organizzato una lassa unione di partiti stalinisti di sinistra, che ha assunto il nome di Iniziativa dei Partiti Comunisti e Operai d’Europa. Sufficientemente lassa per non costituire un pericolo per la leadership di Rizzo e, grazie al ruolo del KKE (gli altri partiti sono tutti molto piccoli), sufficientemente prestigiosa per dare una verniciatura internazionalista al suo partito.
Certo, c’erano alcuni problemi di tipo teorico-politico per realizzare l’accordo col KKE. Ma i problemi teorici non sono evidentemente problemi per Rizzo, e del resto, Atene val bene una messa.
Al momento della sua costituzione, il partito rizziano, conformemente alla tradizione stalinista italiana, si era richiamato a Togliatti (correttamente, dal suo punto di vista) e a Gramsci (abusivamente). Ma per il KKE il primo era un revisionista, che aveva anticipato quella tale partito che considera la svolta storica kruscioviana; il secondo un semitrotskista (tesi abbastanza corretta). In obbedienza al nuovo credo, Rizzo non ha esitato un secondo a sbarazzarsi del riferimento ai due.
In particolare, Gramsci era indicato come riferimento nello statuto stesso di Comunisti-Sinistra Popolare. Nondimeno Rizzo, senza aspettare un congresso né convocare almeno un comitato centrale, espulse Gramsci dallo statuto. Un gruppo di militanti di Roma protestò per questa scelta nel merito e nel metodo, e si ritrovò rapidamente fuori del partito, ciò che sottolinea la grande democrazia del partito rizziano.
Allo stesso modo Rizzo, silenziosamente, rinunciò al precedente filoputinismo, visto che il KKE considera (giustamente) la Russia un paese capitalistico in sviluppo e (altrettanto giustamente) la Cina un paese imperialista.
Questo portò Rizzo e il suo partito a considerare ormai come faro del socialismo (oltre Cuba) la Corea del Nord, dinastia ereditaria “rossa” dei Kim, oggi di Kim Jon-Un.

Recentemente il nostro ha parlato di questo e altro alla conferenza stampa elettorale di Rai2, prevista obbligatoriamente per tutte le liste presenti alle elezioni. In questa occasione ha confermato in primo luogo la sua natura di gran contaballe affermando con la più grande faccia tosta che la presentazione per la prima volta alle elezioni politiche del suo partito rappresentava la prima presenza della falce e martello sulle schede elettorali dopo dodici anni, dimenticando pour cause la costante presentazione in questi anni, nella totalità o nella maggioranza del paese, delle liste falcemartellate (accompagnate dal mondo dell’internazionalismo) del nostro PCL.
Nel corso della stessa conferenza stampa si è poi potuto assistere a tutte le ambiguità (e anche peggio) nazionalstaliniste su migranti, lotta ai fascisti, diritti civili, con Rizzo che addirittura si rifiutava di dire cosa avrebbe votato in merito alle unioni civili per gli omosessuali e allo Ius soli. Questioni ovviamente complicate, mica semplici come appoggiare i bombardamenti su Belgrado.
Ma sulla questione della Corea del Nord e del suo regime la faccia tosta ha ripreso il sopravvento. Forse temendo di passare alla cronaca (e alla satira stile Crozza) come il suo quasi omonimo Razzi, Rizzo ha cercato di presentare la sua posizione come una pura - e in questo caso legittima - difesa della nazione nord-coreana dall’imperialismo USA, senza identificazione o sostegno politico al sistema. Peccato che queste non fossero le posizioni espresse al momento della sua visita circa due anni fa in Corea, e soprattutto al momento dell’arresto e messa a morte (con o senza sbranamento dei cani) dello zio di Kim Jong-un che, con l’appoggio dei cinesi, aveva cercato di rovesciare il satrapo di Pyongyang per sostituirlo con uno stalinismo un po’ meno bizzarro. In questa ultima occasione, come avemmo occasione di commentare sul nostro sito all’epoca, egli affermò testualmente ad un giornale che lo intervistava: «Io sono contro la pena di morte, ma bisogna riconoscere che quest’uomo [lo zio, ndr] ha tentato un colpo di stato contro un governo democraticamente eletto» (sic!). Per dirla con Peppino: “e ho detto tutto”. E in questo caso è proprio vero.

Ma noi, che siamo buoni, vogliamo concludere questo testo con un sincero ed accorato appello al voto per le liste del Partito Comunista di Marco Rizzo.
Se pensate, a cento anni dalla rivoluzione russa (“inizio della rivoluzione mondiale” - Lenin), che la soluzione socialista si realizzi sul piano del sovranismo nazionale; che Stalin sia stato un grande dirigente rivoluzionario internazionalista; che il novanta per cento dei dirigenti a tutti i livelli della rivoluzione d’ottobre (che Stalin ha fatto uccidere) fossero solo dei traditori, assassini, terroristi e agenti (da molti anni) delle varie potenze imperialiste e in particolare di Hitler e del Mikado; che il socialismo del futuro debba somigliare, grossomodo, al regime della Corea del Nord, magari con il grande leader dotato di pelata, invece del taglio di capelli di Kim Jong-un; se pensate questo, votate Marco Rizzo e il suo partito.
Ma se invece non condividete quelle affermazioni, e vi considerate comunisti e comuniste, allora l’unica scelta possibile per voi è votare le liste di “Per una sinistra rivoluzionaria".
FG

Le ragioni di un programma rivoluzionario

 Il tema del programma acquista durante le tornate elettorali una notevole attenzione e un vasto uditorio. È utile approfittare di questo momento per fare chiarezza su quali sono le ragioni di un programma rivoluzionario, cosa lo contraddistingue e a che cosa serve. Questo è fondamentale soprattutto a sinistra, per fare chiarezza tra un programma di rivoluzione sociale e tutte le diverse declinazioni di illusioni riformiste

IL PROGRAMMA E LE RIVENDICAZIONI 

Durante le elezioni quasi tutti i programmi si configurano come un lungo elenco di rivendicazioni. Il punto cruciale da osservare è che una rivendicazione, pur radicale, non serve a qualificare un programma come rivoluzionario. Di più; un insieme di rivendicazioni radicali, da solo, non si qualifica come un programma rivoluzionario. È importante capire questo punto, per capire le ragioni di un programma rivoluzionario.

Una rivendicazione che viene percepita dal senso comune come particolarmente radicale è quella della nazionalizzazione. È una parola d'ordine che accomuna i programmi di diverse liste e anche di diversi riferimenti internazionali. Nel programma di Potere al Popolo si parla di “ripubblicizzazione delle industrie e delle infrastrutture strategiche privatizzate negli anni passati“; il laburista Jeremy Corbyn, cui Liberi ed Uguali cerca esplicitamente di riferirsi, rivendica la “nazionalizzazione di imprese vitali come acqua, energie, trasporti” e “istruzione universitaria gratuita” rivendicazione ripresa pari pari da Grasso; lo stesso Melenchon nel suo programma per le presidenziali francesi, parlava di “Nazionalizzazioni possibili in caso di interesse generale dello Stato“.

La nazionalizzazione dunque, riportando alcuni settori strategici nelle mani dello stato, configura il programma di cui fa parte come un programma rivoluzionario? La risposta è ovviamente negativa.

Per una duplice ragione.

In primo luogo se la nazionalizzazione non è esplicitamente rivendicata come senza indennizzo e sotto il controllo dei lavoratori, non entra minimamente in conflitto con la proprietà dei mezzi di produzione dei soliti pochi padroni, imprenditori, capitalisti, cui viene elargito in cambio un sostanzioso indennizzo, come per altro previsto dalla stessa Costituzione. L'indennizzo e l'assenza di controllo operaio sulla produzione ha come conseguenze che da un lato assicura ai padroni un compenso economico che sarà presto reinvestito in altri settori, dall'altro che non c'è un passaggio di proprietà da una classe (i padroni) ad un altra (i lavoratori), ma lo stato si fa garante della proprietà privata, in attesa di poterla riconsegnare ai suoi padroni borghesi, come il record di privatizzazioni operate in Italia negli ultimi vent'anni ha drammaticamente confermato.

In secondo luogo, una singola rivendicazione radicale, fosse anche una di quelle centrali (che intervenga cioè sul sistema bancario o su un settore industriale strategico) fino alle sue estreme conseguenze (l'esproprio), non configura da sola un programma rivoluzionario. Perché? Su questo punto si darà più lunga spiegazione in un paragrafo successivo dedicato, ma qui si possono anticipare due temi centrali, che si intrecciano tra loro: in prima istanza le istituzioni borghesi non sono il terreno di trasformazione sociale. Nessun programma di riforma radicale opererà mai, attraverso il parlamento borghese, una trasformazione sociale o un passaggio di potere da una classe ad un'altra, in secondo luogo e come in parte implicato dal primo passaggio, non ci sarà alcuna trasformazione sociale senza il coinvolgimento della massa di salariati senza, cioè, la discesa in campo dei lavoratori con la loro forza organizzata, che spezzino le istituzioni borghesi e ne costruiscano di nuove, basate sulla loro autorganizzazione a partire dai luoghi di lavoro. Il programma rivoluzionario deve cioè convincere e dunque ottenere la simpatia non della maggioranza di generici elettori, ma la maggioranza dei lavoratori.

Se una singola rivendicazione radicale non trasforma un programma in un programma rivoluzionario, nemmeno un insieme di rivendicazioni radicali è sufficiente a configurare un programma rivoluzionario.

Un programma come quello di Potere al Popolo, molto lungo e dettagliato, contiene molte rivendicazioni anche radicali, ma l'insieme di queste rivendicazioni non trasforma quella proposta in un programma rivoluzionario, vediamo perché.

Scorrendo le rivendicazioni ci imbattiamo in alcune proposte che tutti nella sinistra radicale trovano accettabili, persino di buon senso: cancellazione di JobsAct, Fornero e Collegato Lavoro; riduzione dell'orario di lavoro a 32 ore settimanali; una patrimoniale; la nazionalizzazione della banca d'Italia e via discorrendo. Che cosa manca, dunque? Manca il passaggio da semplice elenco di rivendicazioni radicali a progetto anticapitalista. Per evitare che un programma sia solo una lista di petizioni di principio, occorre che ci sia una proposta programmatica anticapitalista reale. È impossibile combattere la disoccupazione e rivendicare l'abolizione delle controriforme del lavoro, senza rivendicare la ripartizione del lavoro esistente tra tutti, tramite la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Ma se in ogni parte del mondo e dell'Italia il capitalismo estende gli orari di lavoro, riduce i salari, precarizza le condizioni di lavoro, come trasformiamo queste rivendicazioni da semplici oggetti del desiderio a rivendicazioni reali? Si può fare questo passaggio solamente assumendo il governo dei lavoratori come orizzonte politico generale, la rottura dell'ordinamento sociale esistente e la sua ricostruzione su basi socialiste.

Questo snodo centrale vale per ogni aspetto del programma.
Se si vuole avere la più piccola speranza di realizzare anche solo uno degli aspetti di un vasto programma di trasformazione sociale, bisogna mettersi in rotta di collisione con l'esistente. Su tutte le illusioni del caso è meglio sgomberare il campo da dubbi: l'esperienza degli ultimi 30 anni ci ha dimostrato che non esisterà mai alcun governo di centrosinistra amico degli sfruttati e dei lavoratori e che allo stesso modo non ci sarà alcun governo che opererà in rotta con il sistema sotto la pressione di alcun presunto “controllo popolare” o “pressione dal basso”.

Nell'epoca del capitalismo in crisi, non ci sono mezze misure che possono reggere il confronto con la brutalità e la ferocia con cui i padroni si stanno riprendendo tutto quello che sono stati costretti a cedere con trent'anni di lotte straordinarie nel dopoguerra.


IL PROGRAMMA ED IL FINE 

Il programma rivoluzionario è costantemente orientato verso il fine. Il fine è la rottura del sistema sociale capitalista e la riorganizzazione della società su basi socialiste. In questo senso le rivendicazioni che costituiscono il programma rivoluzionario devono soddisfare tre caratteristiche: a) devono partire dalle condizioni immediate, oggettive, della classe sociale di riferimento; b) devono funzionare da ponte tra queste condizioni immediate e il livello di coscienza attuale della classe lavoratrice e l'obbiettivo finale, ovvero la rivoluzione, dunque devono essere esplicitamente contro la proprietà capitalistica; c) devono essere collegate al solo strumento che quel fine e di conseguenza quelle stesse rivendicazioni è in grado di mettere in atto, ovvero il governo dei lavoratori e delle lavoratrici.

La battaglia per la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario è un classico esempio.
Si parte da alcune condizioni immediate: da un lato abbiamo l'insieme delle condizioni dei lavoratori in Italia, fatto di un tasso di disoccupazione permanentemente sopra il 10%, l'allungamento dell'età pensionabile, l'estensione e lo spezzettamento degli orari di lavoro, milioni di ore di cassa integrazione. La riduzione dell'orario di lavoro a parità di paga rompe con questo paradigma, allargando il numero dei lavoratori effettivi senza impoverirli. Il lavoro esistente deve essere suddiviso tra tutti i lavoratori, quelli oggi a lavoro e quelli disoccupati o parzialmente impiegati e sulla base di ciò deve essere calcolata la durata della settimana lavorativa. Il salario deve rimanere quello precedente e comunque non inferiore ad un minimo fissato per legge di almeno 1500 euro.

La distribuzione dell'orario di lavoro a parità di paga attraverso la redistribuzione del lavoro stesso, emerge quindi come necessità dalle condizioni oggettive della classe lavoratrice ad oggi.

In che modo questa rivendicazione si pone come ponte con il fine?

I padroni, i capitalisti e i loro guardaspalle oppongono una presunta irrealizzabilità ad ogni rivendicazione che migliorerebbe le condizioni di vita dei lavoratori e peggiorerebbe quelle delle loro tasche. Il senso comune, la stampa, i media, parlano di “interesse nazionale” e rilanciano la vecchia menzogna del patto sociale per cui “se stanno bene i padroni, allora staranno bene anche i lavoratori”. Questa truffa è ormai completamente smascherata dalla realtà. Dovunque il capitalismo e i suoi governi difendono il benessere dei padroni a discapito di quello dei lavoratori. I profitti sono garantiti e tutelati dissanguando i lavoratori e i proletari in generale. La contraddizione tra le uniche rivendicazioni progressive che l'insieme del movimento dei lavoratori può accettare per migliorare le proprie condizioni immediate di vita e il profitto dei capitalisti svela il trucco della società borghese: nel capitalismo in crisi non c'è nessuna compatibilità possibile tra salari, diritti e salute dei lavoratori da un lato e profitti dei padroni dall'altro. Dal capitalismo gli sfruttati e gli oppressi non hanno più niente da ottenere. Se non ci si vuole rassegnare alla disperazione e allo sconforto, bisogna trovare una via diversa. Per imporre quelle misure progressive necessarie al miglioramento delle condizioni immediate è necessario allora un tipo di governo diverso, non un governo del capitalismo, pur in salsa “centrosinistra”, ma un governo contro il capitalismo. Un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, che organizzi la loro forza e imponga queste misure di emergenza sociale. L'instaurazione di un governo dei lavoratori e la riuscita di queste rivendicazioni è cosa che passa dalla lotta, dall'unificazione del fronte dei lavoratori e dall'assunzione di questo fronte di una direzione politica esplicitamente anticapitalista e rivoluzionaria.

Si potrebbe fare lo stesso tipo di ragionamento per la sola rivendicazione dell'abolizione della Legge Fornero. La cancellazione della legge Fornero è una rivendicazione sacrosanta. Dal fronte padronale viene opposta l'irrealizzabilità e l'irresponsabilità di tale proposta per i costi che ricadrebbero “sulla società”. Ma l'aumento dell'età pensionabile rappresenta già, di fatto, lo scaricamento dei costi sociali della crisi sulle spalle dei lavoratori! Da un lato bisogna quindi che l'abolizione della Fornero non sia una semplice petizione astratta e dall'altro bisogna ribaltare la logica dell'insostenibilità dei costi, sbandierata dai padroni. La risposta di fronte a questo bivio è semplice: è necessario abolire la Fornero per migliorare le condizioni di vita di milioni di lavoratori e per farlo è necessario abolire unilaterlmente il debito pubblico verso banche e assicurativi che costa ogni anno 70 miliardi di soli interessi, liberando così le risorse necessarie ad un nuovo sistema pensionistico. Sono questi i “costi sociali” da prendere in considerazione! Quelli che ingrassano le tasche di un manipolo di possidenti e azionisti a discapito della maggioranza della società. Ma quale governo si porrebbe in aperta rottura con il capitalismo a tal punto da mettere in discussione il sistema strangolatore del debito? Ancora una volta l'esperienza diretta ci mostra come sperare di fare questo tipo di operazioni dentro il sistema borghese conduce inevitabilmente alla tragedia. Il tradimento di Tsipras in Grecia è una lezione indelebile. Ancora una volta solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici può imporre questo tipo di rivendicazioni progressive.


IL RUOLO DELLA MASSA 

Il programma rivoluzionario è un programma per un'alternativa di società. Per questo a differenza dei vari programmi riformisti buoni per ogni tornata elettorale, il programma rivoluzionario è uno strumento di lotta quotidiano indispensabile per il partito della rivoluzione.

Affrontare il tema del programma rivoluzionario ci dà la possibilità di indagare alcuni aspetto fondamentali della politica comunista. In questo paragrafo si tratterà di tre punti: a) la risposta alla domanda posta nel primo paragrafo, cioè perché le rivendicazioni radicali anche coerenti da sole non bastano a configurare un programma di rivoluzione; b) in che cosa consiste la politica rivoluzionaria e in che modo questa si distingue dalla politica riformista vicino e lontano dalle elezioni; c) perché presentare un programma rivoluzionario durante una tornata elettorale è parte della politica rivoluzionaria. Abbiamo visto nel primo paragrafo di questo breve testo come un insieme di rivendicazioni da sole non configurino un programma rivoluzionario e abbiamo osservato, nel secondo paragrafo, come le rivendicazioni necessitino di un metodo transitorio e di uno stretto collegamento tra i bisogni immediati della classe e il fine del socialismo per poter configurare un programma rivoluzionario. Mancano però ancora alcuni ingredienti perché si possa parlare di politica e programma conseguentemente rivoluzionari. Non c'è processo rivoluzionario possibile senza l'irruzione delle masse nella lotta e non c'è lotta di massa che possa diventare un processo rivoluzionario senza un partito comunista con un programma e una politica rivoluzionaria. O il programma rivoluzionario è uno strumento per la conquista della simpatia delle masse operaie, sfruttate e oppresse al progetto del comunismo, oppure è poco più di una lista della spesa.

Per questo un programma rivoluzionario è tale solo ed esclusivamente se è il programma di un partito conseguentemente marxista rivoluzionario. Per essere tale un partito comunista deve essere in opposizione a tutti i governi padronali, quale che sia il colore del loro schieramento e deve tutelare l'autonomia degli interessi di classe del proletariato; deve avere la capacità di collegare gli obbiettivi di lotta immediati, con la prospettiva anticapitalista di fondo; deve assumere una prospettiva socialista internazionale; deve, da ultimo, battersi per un governo dei lavoratori, ovvero per la presa del potere da parte della classe lavoratrice. In questo quadro l'enorme massa dei diciassette milioni di lavoratori salariati gioca un peso ineliminabile. Un partito comunista che vuole essere tale, deve orientare la sua politica su questo ordine di grandezza, alla conquista di questa maggioranza della società, rifuggendo ogni tentazione minoritaria o settaria. Negli ultimi anni la forza di questa massa è rimasta inespressa, imbrigliata dalla burocrazia sindacale, disillusa dai tradimenti della sinistra riformista, corteggiata dalle sirene del populismo. Si tratta di lavorare in controtendenza, per rilanciare l'entusiasmo, per unificare il movimento dei lavoratori attraverso il più ampio fronte unico di lotta possibile, su obbiettivi chiari e anticapitalisti.

Si può finalmente rispondere alla domanda iniziale: perché le rivendicazioni radicali anche coerenti da sole non bastano a configurare un programma di rivoluzione? Il programma rivoluzionario è tale solo se è parte di un progetto rivoluzionario che comprende un partito coerentemente comunista e che si batte per la conquista della direzione politica della maggioranza degli sfruttati.

Da ciò conseguono importanti considerazioni in merito alla politica rivoluzionaria. O il partito ha una proiezione di massa e un intervento sulla massa oppure il suo programma è un'arma spuntata.

Questo è un elemento cruciale di distinzione politica. Prendiamo l'esempio del PC guidato da Marco Rizzo. Dal PC di Rizzo ci distanziano enormi abissi, sia in termini di storia politica (Rizzo fu parte di quel gruppo dirigente che spaccò il PRC per sostenere il Governo D'Alema bombardiere di Belgrado), sia intermini di costruzione del partito (basta leggere lo statuto del PC di Rizzo per rendersi conto che non c'è nessuna traccia di centralismo-democratico e del funzionamento dei partiti comunisti delle origini), sia come riferimenti politici (il PC di Rizzo sostiene la monarchia dinastica della famiglia Kim in Corea del Nord). Ma quello che interessa qui è analizzare come dietro slogan e rivendicazioni, si può nascondere una prassi politica che niente ha a che vedere con la politica rivoluzionaria.

Formalmente il PC di Marco Rizzo rivendica alcune parole d'ordine coerenti: ad esempio la nazionalizzazione senza indennizzo di alcune aziende come l'Alitalia e la Piaggio. Ma questo non contribuisce in nessun modo a caratterizzare il partito di Rizzo in un partito rivoluzionario e non solo per quanto detto poco sopra. Il PC di Rizzo ricalca in sedicesimi in Italia la metodologia di intervento politico del fratello maggiore KKE in Grecia. Tenta di costruire una scalata al sindacalismo di base, nel tentativo di emulare il controllo del KKE sul PAME, costruendo un intervento assolutamente settario e completamente sganciato da ogni prospettiva di massa. Il KKE si è caratterizzato in negativo per il suo ruolo nefasto durante la stagione di straordinarie mobilitazioni in Grecia contro i governi della Troika precedenti a Syriza. Il PAME si è sistematicamente opposto a rivendicare lo sciopero generale prolungato, ha costantemente organizzato le sue manifestazioni, i suoi cortei e i suoi scioperi distaccati e in opposizione alle enormi manifestazioni di massa che sconquassarono la Grecia in quei mesi, ha tenuto la sua forza organizzata in disparte, quando non l'ha usata per... difendere il parlamento greco dai manifestanti stessi, di fatto operando per dividere il fronte dei lavoratori invece di unificarlo e tutto al servizio di una logica di sopravvivenza e continuità d'apparato. Il PC di Rizzo, fuori da un contesto tumultuoso come quello della Grecia in rivolta, riproduce pedissequamente lo stesso tipo di costruzione ed intervento.

Per sviluppare una politica rivoluzionaria coerente bisogna necessariamente lavorare all'unificazione del fronte di lotta dei lavoratori, a prescindere dalla loro collocazione sindacale, bisogna combattere senza tregua le burocrazie sindacali, bisogna dare ad ogni singola lotta, ogni singola vertenza, la prospettiva generale di unificazione in un'unica grande vertenza del mondo del lavoro che assuma le rivendicazioni anticapitaliste del programma rivoluzionario come proprie.

In questo quadro dovrebbe risultare chiaro perché presentare un programma anticapitalista, rivoluzionario, alle elezioni borghesi fa parte della politica rivoluzionaria. Le elezioni sono un momento di grande attenzione da parte di grandi masse in generale, ma in fasi storiche come quella attuale, di grande riflusso delle lotte, di difficoltà del mondo del lavoro e dei movimenti sociali di costruire momenti di lotta radicale, prolungata o anche semplicemente di vaste dimensioni, la tribuna che le elezioni offrono è uno strumento irrinunciabile per parlare alle orecchie di milioni di lavoratori e lavoratrici, precari, disoccupati e sfruttati.

Il grande circo delle elezioni tartassa le menti degli espropriati con le promesse elettorali dei populisti di tutti i colori e le inganna con le false speranze dei riformisti vecchi e nuovi. I rivoluzionari hanno il dovere di utilizzare questo momento così peculiare per dire attraverso ogni spazio possibile una parola di verità: che in questo sistema sociale gli sfruttati non hanno più niente da ottenere, che per strappare qualsiasi risultato progressivo si deve assumere la prospettiva di rompere con il capitalismo, che l'unico modo per farlo è fare leva sulla forza di milioni di lavoratori organizzati, che solo un governo che sia espressione di questa forza può attuare le rivendicazioni necessarie a migliorare le condizioni immediate di vita della stragrande maggioranza della popolazione, che solo facendola finita col capitalismo si può ricominciare a rialzare la china.


CLASSE, DIREZIONE, PARTITO 

Si possono trarre importanti lezioni dallo studio di che cos'è un programma rivoluzionario, che chiamano in causa alcuni degli elementi fondamentali della politica comunista. Un programma rivoluzionario è innanzitutto un programma di un partito rivoluzionario. È attraverso il suo programma, attraverso la definizione dei suoi obbiettivi, che il partito parla alla sua classe sociale di riferimento. C'è un rapporto dialettico fondamentale qui. Il programma parte dalle condizioni immediate cui versa la classe di riferimento (ad esempio il bisogno di ridurre l'orario di lavoro a parità di paga per garantire il lavoro a una più ampia fetta di proletariato) ma non vi si appiattisce, anzi diventa uno strumento per elevare la coscienza della classe a cui parla da semplice difesa dei propri interessi immediati a comprensione che quegli interessi immediati possono essere soddisfatti solo a patto di entrare nell'ottica di spezzare il capitalismo e riorganizzare la società su basi socialiste. È questo uno dei ruoli cruciali del partito, quello di difendere e diffondere la necessità di una coscienza rivoluzionaria. Il partito però non può accettare di lasciarsi relegare al ruolo di buon consigliere. È necessario che sviluppi una lotta per la conquista della direzione del movimento operaio. Con questa formula non si intende questa o quella soggettività d'avanguardia, politica o sindacale, che si proclama in tal senso, ma chi materialmente guida la maggioranza della classe operaia. Uno dei drammi della storia recente in Italia è stato il vuoto politico che si è generato a sinistra e il ruolo di supplenza che la CGIL ha avuto come direzione maggioritaria del movimento operaio. Ruolo attraverso cui ha operato sistematicamente svendite e tradimenti, contribuendo in maniera incisiva al clima di sfiducia e smobilitazione (su tutti valgano la smobilitazione della lotta contto il Jobs Act e la paura di andare fino in fondo sulla Buona Scuola). Oppure più recentemente in Catalogna, il movimento indipendentista ha espresso una direzione piccolo borghese che ha trasformato nel giro di poco tempo una straordinaria mobilitazione democratica e progressiva di massa da un potenziale punto di rottura rivoluzionario degli equilibri capitalistici in UE ad una grottesca farsa di proporzioni storiche.

Il programma allora assume anche il ruolo di strumento di conquista della maggioranza e della sua direzione politica. La politica comunista è un rapporto dialettico costante tra il partito rivoluzionario, la classe di riferimento e il programma di rottura col capitalismo a cui il partito lotta per conquistare la maggioranza di questa classe.


Nicola Sighinolfi

La "vittoria" di chi?

Alexis Tsipras ha vinto clamorosamente la propria scommessa. Ha voluto precipitare le elezioni per capitalizzare la popolarità della propria figura e salvarsi dal fallimento della propria politica. Prima che le masse potessero verificare sulla propria pelle i costi sociali del Memorandum siglato. L'operazione è riuscita oltre ogni previsione. Syriza ha conservato quasi immutata la propria percentuale di voto. Unità popolare ha fallito l'approdo in Parlamento. Tsipras può rifare un governo fotocopia a braccetto col partito reazionario di Anel ( con un abbraccio a Kammenos esibito subito sul podio) disponendo di un gruppo parlamentare più disciplinato. Più disciplinato.. a cosa? Naturalmente al rispetto del terribile piano di austerità e sacrifici dettato dai creditori e sottoscritto da Tsipras.

I Vendola, i Ferrero, gli Iglesias, che oggi plaudono entusiasti all'amico Alexis, sperando di racimolare qualche voto in casa, si trovano in curiosa compagnia. “La vittoria di Syriza rassicura le Borse” recita La Repubblica, guardando i listini festanti. Non è un caso. I circoli capitalistici europei, senza eccezione, salutano positivamente la vittoria di Tsipras. Junker si congratula col vincitore. Hollande brinda al successo di Syriza, nel nome della “sinistra europea” e della “stabilità europea”. Persino il Presidente della commissione esteri del Bundestag (Norbert Roettgen) , protesi di Merkel, giudica “molto positivo” il risultato greco: “Tsipras primo, Nea Demokratia secondo, hanno creato un saldo bipolarismo” dichiara compiaciuto. Il Corriere della Sera (di Banca Intesa) saluta la nuova stagione di “continuità e stabilità” che il voto greco propone “alla Grecia e all'Europa”.

Proprio così. “Continuità e stabilità”: questo cercava e cerca il capitale finanziario in Grecia. Il trionfo di Syriza del 25 Gennaio, sottoprodotto di una lunga stagione di lotte sociali, lo inquietava. I circoli dominanti conoscevano naturalmente la volontà compromissoria di Tsipras, già esibita e promessa in mille conciliaboli, ma temevano la sua difficoltà di subordinare al compromesso le grandi masse e di disciplinare un partito riottoso. La vittoria di Tsipras il 20 Settembre, dopo la certificazione del Memorandum, ha una valenza del tutto diversa. È il miglior risultato che il capitale finanziario potesse attendersi. Paradossalmente un successo di “Nuova Democrazia” ai danni di Syriza avrebbe potuto introdurre - quello sì - una nuova stagione di convulsioni politiche: con una Syriza costretta all'opposizione, un nuovo spazio di ripresa dell'opposizione di massa, un quadro politico basato nuovamente sulla fragilità di vecchi partiti screditati. Invece l'attuale successo di Tsipras, con una percentuale piena, un gruppo parlamentare omogeneo, l'eliminazione dal Parlamento stesso dei suoi contestatori a sinistra, configura un baricentro politico e istituzionale stabile. La risicata maggioranza parlamentare non preoccupa, perchè tutti i partiti borghesi di “opposizione” si sono impegnati a continuare a votare a fianco di Tsipras le misure lacrime e sangue contro i lavoratori greci. E del resto chi meglio di Alexis, col suo comprovato carisma, potrebbe fare da calmiere della rabbia sociale che l'applicazione pratica di quelle misure innescherà presso i settori di massa colpiti?

Ma coloro che parlano di “partita finita”in Grecia, confondono la realtà coi propri desideri.
Certo, Tsipras ha oggi capitalizzato elettoralmente la popolarità della propria immagine e la stanchezza di un popolo stremato. Ha perso mezzo milione di voti verso sinistra o verso un'astensione sfiduciata, ma ha raccolto l'essenziale. “Ho capito che non ci sarà da attendersi molto per il futuro, ma è meglio mettere alla prova questo giovane onesto che affidarsi nuovamente alle vecchie cariatidi corrotte del passato”: così ha ragionato grosso modo il lavoratore greco che ha votato per Tsipras. “Unità popolare”, col suo messaggio riformista nazionalista pro dracma, gli è apparsa un'improvvisazione poco credibile. La sinistra rivoluzionaria era ai suoi occhi troppo debole. Una massa stanca dopo otto anni di lotte, si è dunque affidata a Tsipras più che al suo partito e alla sua politica. E Tsipras investirà questo affidamento popolare in una stabilizzazione del proprio governo, con un probabile successo immediato, a beneficio dei creditori. Ma la ruota della storia non cessa mai di girare. Già i prossimi mesi scandiranno, uno dopo l'altro, tutte le voci del memorandum: a ottobre sarà varato l'aumento dell'età pensionabile, poi scatterà la eliminazione dei sussidi per le pensioni più povere, poi verrà l'aumento di prezzo dei beni alimentari, poi inizierà il grande rilancio delle privatizzazioni a vantaggio dei creditori strozzini che compreranno la Grecia a prezzi di saldo, poi..Quattro anni di austerità sono lunghi. Tanto più lunghi per un popolo ridotto all'indigenza e per una economia già collassata ( quasi - 30% di PIL in otto anni). Le resistenze sociali riprenderanno. L'immagine di Tsipras scolorerà, in un lungo inevitabile logoramento. Nuovi varchi si allargheranno, prima o poi, per il rilancio dell'opposizione di massa. Ogni fatto o esperienza, piccola o grande, proverà che l'unica soluzione vera, l'unica vera alternativa per i lavoratori greci, o è anticapitalista o non è. Mentre il consolidamento di Alba Dorata a destra ricorda che una mancata alternativa anticapitalista può aprire varchi alla peggiore reazione.
Il problema di fondo si ripresenterà dunque immutato: come costruire un partito rivoluzionario all'altezza di questa verità. I nostri compagni greci di EEK (Partito operaio rivoluzionario) saranno in prima fila nella costruzione di questa impresa. L'unica che può dare un futuro ai lavoratori.
Partito Comunista dei Lavoratori

LA CRISI GRECA DI FRONTE A UN PASSAGGIO CRUCIALE

LA CRISI GRECA DI FRONTE A UN PASSAGGIO CRUCIALE.

IL NO PLEBISCITARIO ALLA TROIKA APRE UNO SCENARIO NUOVO NESSUN “COMPROMESSO ONOREVOLE” CON GLI STROZZINI E' POSSIBILE IL POTERE DEI LAVORATORI E' L' UNICA SOLUZIONE PROGRESSIVA

7 Luglio 2015
La vittoria referendaria del NO alla Troika, straordinaria nella sua ampiezza, apre una nuova fase della crisi greca. Una fase cruciale per il futuro del movimento operaio, non solo in Grecia ma nell'intera Europa. 
E' utile dunque ricostruire una dinamica degli avvenimenti che ha spiazzato più volte tutti gli attori politici. 


COME E PERCHE' SI E' GIUNTI AL REFERENDUM 

A fine Giugno ( 25 Giugno) il governo Syriza/ Anel era a un passo dall'accordo con i creditori: un accordo ben poco “onorevole”, che prevedeva l'aumento dell'età pensionabile, la cancellazione delle pensioni di anzianità, l'aumento dell'Iva anche su una fascia di consumi alimentari, l'aumento pesante della contribuzione pensionistica e sanitaria per i lavoratori. Quando Tsipras si preparava a gestire un difficilissimo passaggio interno e parlamentare su questa ipotesi di accordo, già di fatto accettata, ecco il colpo di scena. I creditori buttano all'aria l'accordo. La svolta dei creditori è dovuta all'effetto combinato di pressioni convergenti: l'irrigidimento improvviso della Lagarde capo del FMI, che per puntare ad ottenere i voti degli azionisti BRICS per la propria riconferma alla presidenza del fondo, avanzava nuove richieste ultimative; la sponda immediatamente trovata nella Spagna a guida PP, timorosa dell'ascesa di Podemos e interessata alla umiliazione di Tsipras; la corsa del blocco nordico ad appoggiare l'intransigenza FMI; le difficoltà crescenti della Merkel- sino al giorno prima impegnata nella mediazione col governo greco- di fronte alla differenziazione interna al proprio gruppo parlamentare. La corda dell'accordo ufficioso già scritto veniva dunque spezzata . 

Il ricorso di Tsipras al referendum del 5 Luglio è stata la risposta alla rottura dei creditori. Non l'effetto di una diretta pressione di massa sul governo, quanto un calcolo politico del suo premier. Tsipras, già in difficoltà, non aveva lo spazio politico per aprire una nuova negoziazione al ribasso sull'ultimatum della Troika . Avrebbe significato la rottura interna di Syriza , la disgregazione della base parlamentare del governo, la rottura dello stesso asse con Anel. La convocazione del referendum, esclusa pubblicamente pochi giorni prima, diventava nella nuova situazione l'unico modo di cercare di salvare Syriza e il proprio governo; l'unico modo per cercare di ottenere con la vittoria del No il rilancio del negoziato conclusivo con i creditori. La pubblica promessa di Tsipras di “un accordo in 48 ore” dopo la vittoria del No significava esattamente questo: l'accordo ufficioso pre referendum era già stato raggiunto, si trattava solo di recuperarlo e siglarlo. 


LA VITTORIA PLEBISCITARIA DEL NO SPIAZZA TUTTI GLI ATTORI 

Tuttavia lo scontro sul referendum ha complicato il gioco di tutti gli attori politici. 

La mancata estensione della copertura finanziaria della BCE alle banche greche ( ELA) determinava la chiusura delle banche e una drammatizzazione brutale dello scontro. 
Un vasto fronte imperialista, economico e politico, puntava apertamente alla vittoria del Si attraverso la pressione drammatizzata del ricatto. L'obiettivo diventava la crisi politica del governo Syriza/ Anel, pur nella difficoltà di individuare con chiarezza una soluzione parlamentare di ricambio. La Merkel si schierava apertamente per questa prospettiva. Sull'altro versante lo stesso Tsipras dopo la chiusura delle banche ha temuto il rischio di una sconfitta e ha cercato, con la sponda francese, una riapertura negoziale a pochi giorni dal voto. Un varco rapidamente chiuso dal veto tedesco. 

La vittoria del NO, per la sua ampiezza plebiscitaria, ha dunque sorpreso tutti i protagonisti del braccio di ferro. In Europa e nella stessa Grecia. 
La vittoria ha avuto un ampiezza straordinaria nelle città e nella gioventù, con percentuali superiori all' 80%. Ha sancito il rifiuto di massa della continuità della rapina da parte dei lavoratori, dei disoccupati, della popolazione povera di Grecia. L' enorme manifestazione di massa in piazza Syntagma a conclusione della campagna del No ( 4 Luglio) era il preannuncio della vittoria nelle urne. Una sua fotografia anticipata. In questo senso la grande vittoria del NO è stata il sottoprodotto di una ripresa di radicalizzazione politica dei sentimenti di massa e della mobilitazione popolare. Per cinque mesi la negoziazione estenuante del governo Tsipras con i creditori strozzini, col continuo preannuncio di nuovi possibili sacrifici, aveva agito come fattore di congelamento e demotivazione della mobilitazione . La rottura degli accordi da parte dei creditori, e il conseguente scontro referendario, ha costituito viceversa il principale catalizzatore della ribellione. Non è la prima volta nella storia che la reazione diventa l'involontaria levatrice di una possibile rivoluzione. 


TSIPRAS PROMUOVE L'UNITA' NAZIONALE COI PARTITI BORGHESI SCONFITTI 

Il quadro è ora assai complicato, anche per Tsipras. 

Tsipras ha mantenuto fede al copione. Un minuto dopo la vittoria referendaria contro i creditori , il governo ha subito riproposto... ai creditori strozzini l'accordo già ipotizzato, secondo il piano preventivamente deciso. Non solo. Tsipras ha invocato l'unità nazionale di tutti i partiti e di tutte le classi. Ha chiesto e ottenuto la benedizione del Presidente ( reazionario) della Repubblica già a suo tempo designato in funzione della politica di distensione a destra. Ha promosso l'incontro di caminetto con i capi dei partiti borghesi battuti e umiliati dal voto, chiedendo a tutti la “solidarietà nazionale” , promettendo a tutti “responsabilità istituzionale”, offrendo così ai creditori la certezza dei voti parlamentari ai sacrifici connessi all'accordo. Ha coinvolto le gerarchie militari nella funzione di affiancamento della polizia per la “gestione dell'ordine pubblico”, per lisciare il pelo dell'Esercito. Ha messo sul piatto del negoziato con i creditori persino la testa del fedele Varoufakis, per offrire agli strozzini un utile premio simbolico di consolazione e favorire politicamente l'accordo. 

La ragione di tutto questo è una sola: dopo l'atto clamoroso del referendum e la straordinaria vittoria, Tsipras pensa di essersi coperto a sinistra e di potersi sbilanciare a destra. Ritenendo di poter far accettare più facilmente all'intero corpo di Syriza e alla propria base di massa le contropartite di un accordo con gli strozzini. Meglio se combinato con una ristrutturazione del debito o un allungamento dei tempi di pagamento. 


MA LE CONTRADDIZIONI PRECIPITANO. 

Ma la promessa di un accordo “in 48 ore” si rivela temeraria . 
La vittoria referendaria del NO ,per la sua portata, ha infatti moltiplicato le contraddizioni interne al fronte imperialista. La partita non è solo economica, ma politica, oggi più di ieri. 

Dal punto di vista economico diversi fattori militano a favore dell'accordo fra la Troika e la Grecia. Gli Usa e la Cina vogliono l'accordo perchè temono come la peste un aggravamento della crisi capitalistica in Europa. (Oltrechè per ragioni geopolitiche, nel caso in particolare degli Usa). La Bundesbank tedesca chiede alla Merkel di non perdere i miliardi di crediti verso la Grecia. Francia e Italia, potenze creditrici, chiedono di “aiutare” la Grecia a rimborsare.. le casseforti di Francia e Italia. Un'ammirevole generosità. Persino il FMI fa filtrare alle spalle della Lagarde una ragionevole e possibile ristrutturazione dell'impagabile debito greco, per continuare a sorreggere il debitore con la propria corda usuraia. Le proporzioni economiche relativamente modeste della crisi greca, misurata su scala continentale, suggerirebbero dunque un 'equa soluzione di ordinario strozzinaggio , come rivendica candidamente, da osservatore, Romano Prodi. 

Ma dal punto di vista politico, il quadro è destabilizzato. 
Sale la pressione populista nazionalista in diversi paesi capitalistici “contro i soldi ai greci”,da parte di quelle stesse canaglie che hanno finto di applaudire la vittoria del No “contro la Merkel” ( Salvini e Le Pen). La Germania e i paesi nordici hanno ancora più difficoltà a far digerire alla propria “opinione pubblica” e ai propri compositi Parlamenti nuove “elargizioni alla Grecia” dopo che l'hanno dipinta nei giorni dello scontro referendario come “inaffidabile scroccona” e “sanguisuga parassitaria” . La Spagna del PP teme ancor più di ieri l'effetto di trascinamento della vittoria di Syriza sull'ascesa di Podemos , e dunque l'effetto politico di nuove concessioni a Tsipras che possano ulteriormente arrotondare la sua vittoria. Un pezzo centrale della Socialdemocrazia europea, a partire dal SPD ( Gabriel), è terrorizzata dagli effetti di ricomposizione a sinistra che un'ulteriore vittoria simbolica di Tsipras potrebbe determinare ai suoi danni ( ascesa della Linke in Germania ad esempio) e si schiera pertanto sul versante anti greco. 

E' dunque evidente, tanto più in questo quadro, che un eventuale accordo con gli strozzini prevederebbe contropartite punitive per i lavoratori greci di certo non minori che prima del referendum. Perchè solo misure punitive potrebbero controbilanciare agli occhi dei creditori gli inconvenienti politici dell'accordo. Ma questo diverrebbe un nuovo problema per Tsipras e per i suoi rapporti di massa. Dov'è finito più che mai oggi quel “programma riformista di Salonicco” su cui Syriza vinse le elezioni? 


IL CONFRONTO DELLE LINEE A SINISTRA NEL VIVO DELL'ESPERIENZA GRECA 

L'idea che Syriza riuscisse in qualche modo a stabilizzare il quadro politico greco è naufragata in cinque mesi. Questa è la prima lezione di fondo degli avvenimenti. Tutte le contraddizioni sono precipitate sul fronte economico, politico, sociale. In Grecia e in Europa. L'idea di un compromesso “onorevole” tra lavoratori greci e capitale finanziario internazionale è relegata sempre più nel mondo delle fiabe. Mentre la crisi greca mette alla prova l'intero equilibrio politico istituzionale della UE, tra spinte all'integrazione e spinte alla dissoluzione. 

In questo quadro,tutte le opzioni strategiche delle sinistre riformiste, socialdemocratiche o staliniste, sono polverizzate una dopo l'altra dai fatti di Grecia. 

La pretesa della “Riforma sociale e democratica” dell'Unione capitalistica continentale- avanzata dalla Sinistra Europea e da Tsipras- ne esce a pezzi, sotto ogni versante. L'Unione tra Stati imperialisti del vecchio continente, a partire dal nucleo fondante franco tedesco, si regge sulla spoliazione della classe operaia e della popolazione povera di ogni paese. Nessuna riforma può cancellare la sua costituzione materiale. Lo stesso NO agli strozzini del popolo greco segna di fatto un rifiuto del capitalismo europeo. 

L'idea di una possibile via d'uscita attraverso una ricollocazione geostrategica del capitalismo greco al fianco dei BRICS- sostenuta da correnti neostaliniste, anche all'interno di Syriza- è anch'essa ridicolizzata dalla vicenda greca. Non solo ignora la natura capitalistica o neo imperialistica dei paesi chiave dei BRICS, a partire da quella Cina che oggi acquista a prezzi di saldo settori chiave dell'economia greca ( Pireo). Ma ignora lo spiacevole dettaglio che ha visto proprio i BRICS tra i principali usurai del FMI ai danni del popolo greco, in prima fila nel rilanciare i peggiori ultimatum del Fondo all'ombra di Lagarde. Il NO greco agli strozzini europei non chiede di cambiare padrone. 

Infine esce distrutta nella propria credibilità la corrente stalinista del KKE greco e la sua filiera internazionale. Questo partito, impegnato in una metodica divisione del movimento operaio greco, è giunto a boicottare il referendum contrapponendosi al NO . Si è dunque opposto alla dinamica di ribellione di massa contro la Troika. Le frasi sull'”opposizione sia a Syriza sia alla Troika” sono penose. La verità è che lo stalinismo greco si è comportato nelle urne come nelle piazze. Con una logica autocentrata di apparato, unicamente preoccupato di conservare il proprio spazio, in aperta opposizione alla domanda popolare di massa. La vittoria plebiscitaria del No ai creditori è il crollo politico e morale dello stalinismo greco. 


LA RIVOLUZIONE, UNICA SOLUZIONE 

L'unica soluzione progressiva della crisi greca passa per la rottura anticapitalista. Per il ripudio del debito ai creditori strozzini: perchè ogni negoziazione del debito espone a vergognosi ricatti e contropartite. Per la nazionalizzazione delle banche greche e la loro concentrazione in una unica banca pubblica: perchè è l'unica via per bloccare la fuga dei capitalisti, proteggere i risparmi popolari, rifondare la società greca. Per l'esproprio degli armatori e dei poteri forti del paese: perchè è l'unico modo per fare piazza pulita dei parassiti sfruttatori, concentrando nelle mani dei lavoratori le leve della ricchezza. Solo un governo dei lavoratori, imposto dalla forza di massa, può attuare simili misure. Solo EEK ( Partito operaio rivoluzionario)- la sezione greca del CRQI- si batte coerentemente per questa prospettiva. 

La straordinaria vittoria del NO alla Troika merita un'alternativa anticapitalista. Il No alla Troika e ai capitalisti ha il diritto di governare la Grecia, liberandola da oppressione, sfruttamento, umiliazioni. Ogni pretesa di subordinare il NO a un nuovo accordo con gli usurai significherebbe vanificare la vittoria . EEK si batterà sino in fondo contro ogni possibile tradimento della vittoria popolare, per il potere dei lavoratori in Grecia, per la rivoluzione socialista in Europa. 

Ai nostri compagni greci va tutto il sostegno del PCL . La loro lotta è la nostra.

PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI