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Potere al Popolo. Rappresentazione e realtà

   
L'iniziativa di Potere al Popolo ci pare rifletta, sotto una veste apparentemente nuova, equivoci già vissuti e già falliti. Il contenuto politico che racchiude è ben diverso infatti, a ben vedere, dalla confezione d'immagine che lo ricopre.



IL PESO INGOMBRANTE DEL PASSATO

La retorica di accompagnamento della lista evoca in qualche modo la contrapposizione ai politici e ai partiti, declinando a sinistra il populismo (regressivo) di questi anni. Una sorta di Podemos all'italiana, in salsa sociale. Eppure precisi partiti, come Rifondazione Comunista e PCI (ex PdCI), sono parte costituente e decisiva della nuova lista. E non sono partiti qualsiasi. Sono partiti e gruppi dirigenti che sono stati coinvolti in cinque anni di governo negli ultimi venti (nel primo governo Prodi tra il 1996 e il 1998, e nel secondo governo Prodi tra il 2006 e il 2008) votando Pacchetto Treu, privatizzazioni, il taglio verticale delle tasse sui profitti, l'aumento delle spese militari, le missioni di guerra, i campi di detenzione contro i migranti. Possono presentarsi nel nome del “nuovo” e del “popolo” partiti compromessi nelle vecchie politiche antipopolari?
Possono farlo gruppi dirigenti che hanno varato, votato, difeso attivamente quelle politiche contro l'opposizione interna ai loro stessi partiti ?

Non è un caso se da molti anni Rifondazione Comunista non si presenta più con la propria faccia alle elezioni. Hanno avuto (e hanno) bisogno di nascondere i disastri compiuti, e le relative responsabilità, sotto diverse sembianze e colori: una volta l'Arcobaleno, poi la Rivoluzione Civile di Ingroia e Di Pietro, poi l'Altra Europa con Tsipras attorno a Barbara Spinelli, infine oggi il centro sociale Je so' pazzo. C'è un solo elemento costante: la rinuncia a presentarsi col proprio simbolo e la propria riconoscibilità, preferendo imboscarsi sotto mentite spoglie. Comprensibile. Ma perché un centro sociale deve prestarsi a far da sipario di questa operazione? E soprattutto: può farlo ammiccando alla contrapposizione... ai partiti?


IL DIRE E IL FARE. IL CAPITALISMO... MA SOTTO “CONTROLLO DEMOCRATICO”

Tuttavia l'equivoco della lista non riguarda solo il passato. Riguarda soprattutto il futuro. In ossequio alla natura reale di PRC e PCI, il programma di Potere al Popolo rimuove infatti la prospettiva comunista. Si limita a rivendicare “una società più libera, più giusta, più equa”, come recita testualmente la conclusione del programma. Un programma di pii desideri per l'umanità dolente, non un programma di rivoluzione per i proletari.

La retorica ispira l'intera impostazione.
«Non dobbiamo dire quello che siamo, dobbiamo fare... Smettiamo di evocare gli ideali, pratichiamoli... Facciamo le cooperative, quelle sane, facciamo le camere del lavoro, facciamo i luoghi dove la gente crea delle risposte, creiamo comunità... La distinzione tra riformisti e rivoluzionari avviene nella pratica... ricreiamo un sentimento di appartenenza a un'umanità diversa...» (dalle conclusioni dell'assemblea di lancio di Potere al Popolo a Napoli). Curioso. Nel nome del “fare” in contrapposizione al “dire”, si finisce col... dire ciò che dicevano (con un livello culturale forse più raffinato) i riformismi antichi. “Il movimento è tutto, il fine è nulla”, diceva Eduard Bernstein oltre un secolo fa per liquidare Marx. Così oggi Potere al Popolo. Con una differenza. Bernstein si riferiva nonostante tutto al movimento della lotta di classe. Qui si rivendica il movimento del mutualismo solidale come somma di pratiche esemplari di aree di avanguardia, prefigurazione “comunitaria” dell'umanità liberata. Basta “fare”, il resto verrà.

Ma se la “rivoluzione” si riduce a questo, il capitale può dormire davvero sonni tranquilli. Questa logica di fondo ha infatti una ricaduta diretta sul programma della nuova lista. Non sul dire ma sul fare.

Invece di ricondurre le lotte reali a una prospettiva di rottura anticapitalista, invece di spiegare che “una società più libera, più giusta, più equa” è possibile solamente con il rovesciamento rivoluzionario del capitalismo - per cui occorre legare le rivendicazioni immediate di resistenza sociale ad una prospettiva di alternativa socialista - il programma di Potere al Popolo compie l'operazione opposta. L'asse ispiratore dell'intero programma è testualmente «Il controllo pubblico democratico sul mercato». Non la rivendicazione del controllo operaio come programma rivoluzionario, ma il controllo “democratico” sul capitale come ricostruzione di un patto sociale progressista. Resti il capitalismo, ma sotto il controllo “democratico”. Davvero si può presentare come nuova la più vecchia illusione di tutti i riformismi da un secolo e mezzo a questa parte?

Non è un caso se la Costituzione pattuita tra De Gasperi e Togliatti, a tutela della ricostruzione “democratica” del capitalismo, è assunta come colonna d'Ercole del programma.


UN PROGRAMMA MINIMO, MA ANCHE EVANESCENTE.
LAVORO, DEBITO, BANCHE, PENSIONI


Ma la cosa curiosa è che siccome la realtà concreta del capitale in crisi non è compatibile con alcuna seria rivendicazione di "giustizia ed equità", il programma di Potere al Popolo finisce con l'annacquare inevitabilmente le stesse rivendicazioni immediate. Nessun obiettivo programmatico chiaro, rimozione di ogni nodo strategico, sommatoria confusa di obiettivi con equilibri letterari di incerta fortuna.
Vediamo alcuni esempi.

Vogliamo «serie politiche di contrasto alla disoccupazione» (Potere al Popolo. Una proposta di programma). Bene. Ma si tratta di una petizione astratta. È possibile contrastare la disoccupazione senza battersi per una radicale riduzione dell'orario di lavoro a parità di paga? Ed è possibile battersi oggi per una drastica riduzione dell'orario di lavoro (32 ore settimanali) senza scontrarsi frontalmente con un sistema capitalista globalizzato che aumenta ovunque orari di lavoro e sfruttamento? Naturalmente no.Il programma di Potere al Popolo glissa non a caso sul nodo del rapporto tra ripartizione del lavoro e diritto al reddito. Il M5S li contrappone per contrapporre i disoccupati agli operai. Andrebbero invece coniugati, per ricomporre un blocco sociale alternativo. Ma coniugarli, attorno alla centralità della ripartizione del lavoro, presuppone una logica anticapitalista, non semplicemente antiliberista. E questo è troppo per Potere al Popolo.

Vogliamo «che venga anticipata l'età pensionabile», dichiara il testo programmatico. Benissimo. Ma una evocazione così generica verrebbe oggi sottoscritta da Bersani e persino da Salvini. "Anticipare a quando?", questo è il punto decisivo che determina la natura reale di ciò che si rivendica. Per azzerare le controriforme pensionistiche degli ultimi due decenni occorre rivendicare l'età pensionabile a 60 anni o con 35 anni di lavoro. Ma è possibile realizzare questa elementare rivendicazione di giustizia ed equità senza abolire l'enorme zavorra del debito pubblico verso le banche e le compagnie di assicurazione che costa 70 miliardi annui di soli interessi? Evidentemente no. Il piccolo particolare è che l'abolizione del debito pubblico - che Potere al Popolo ignora - significa la rottura col capitale finanziario, ciò che il programma di Potere al Popolo non prevede. Il problema è allora risolto nel modo più semplice: lasciando indeterminato l'anticipo della pensione, e dunque consentendo ogni interpretazione possibile. Incluso l'anticipo rispetto a quanto previsto dalla Fornero, ciò che può risolversi persino in un innalzamento più contenuto dell'età pensionabile attuale.

Vogliamo «una lotta seria alla grande evasione fiscale», dichiara genericamente il programma. Ma è possibile senza una nazionalizzazione delle banche, oggi tempio della grande evasione? Una nazionalizzazione delle banche, a sua volta, se non si vuole metterla a carico dei lavoratori, deve escludere ogni indennizzo ai grandi azionisti. Ma come si può realizzare un esproprio del capitale finanziario senza rompere con la Costituzione borghese che prevede in ogni caso l'obbligo dell'indennizzo? Potere al Popolo risolve il problema con contorsioni letterarie. Nella prima versione del programma combina la nazionalizzazione delle banche con la «separazione tra banche di risparmio e di affari», ciò che in realtà presuppone la rinuncia alla nazionalizzazione. Nella versione finale ogni riferimento alla nazionalizzazione sembra semplicemente rimosso. Resta dunque il capitale finanziario, con tanti saluti alla “seria lotta all'evasione”, per non parlare del... potere del popolo.


L'ACROBAZIA LETTERARIA SULLA UNIONE EUROPEA. TUTTO E IL CONTRARIO DI TUTTO

L'acrobazia letteraria sull'Unione Europea completa il quadro. Vi si afferma tutto ma anche il suo contrario.

Il programma di Potere al Popolo sostiene che «l'Unione Europea ha agito come uno strumento delle classi dominanti». Ma la Unione Europea È uno strumento delle classi dominanti, in quanto unione degli Stati capitalisti del continente. Potrebbe forse “agire” diversamente da quello che è?
Si dichiara di voler «rompere l'Unione Europea dei trattati». Dunque si rivendicano altri trattati tra gli Stati capitalisti dell'Unione?
Si afferma di voler «ricostruire il protagonismo delle classi popolari nello spazio europeo». Ma di quale spazio europeo stiamo parlando, quello di un'Europa socialista o quello della Unione Europea capitalistica?
«Vogliamo che le classi popolari siano chiamate ad esprimersi su tutte le decisioni prese sulle loro teste a qualunque livello – comunale, regionale, statale, europeo - pregresse o future». Bene. Ma, nell'attesa, perché Potere al Popolo... non “si esprime” con chiarezza sul fatto di rompere o meno con l'Unione Europea? Le classi popolari di cui si parla non hanno diritto di sapere qual è la posizione di Potere al Popolo sulla UE?

In realtà questi contorti equilibrismi sull'Unione Europea non sono casuali. Una prospettiva anticapitalista implica la nettezza della rottura con l'Unione degli Stati capitalistici europei, in direzione di una federazione socialista continentale. Il rifiuto di una prospettiva rivoluzionaria trascina invece con sé un confuso balbettio che legittima ogni libera interpretazione del programma. Che non è solo un modo per tener dentro ogni soggetto e posizione (dalla linea europeista filo-Varoufakis di De Magistris alle posizioni Eurostop). È anche perciò stesso una forma obiettiva di inganno, molto politicista, ai danni del popolo cui ci si rivolge.


IL SILENZIO SULLA BUROCRAZIA SINDACALE

L'enfasi posta da Potere al Popolo sui movimenti di lotta cozza col silenzio totale sulla burocrazia sindacale e le sue responsabilità. Si denunciano giustamente lo strapotere padronale e le politiche dominanti. Ma si tace sul fatto che lo sfondamento padronale nei luoghi di lavoro è stato consentito dal sistematico disarmo del movimento operaio per mano delle burocrazie CGIL, CISL, UIL, che per trent'anni hanno negoziato non su un programma dei lavoratori ma sul programma di Confindustria, dei governi borghesi, della UE: dalla precarizzazione del lavoro, alla legge Fornero, al cosiddetto welfare aziendale. Potere al Popolo non ha nulla da dire su queste responsabilità?

Non si tratta di una questione “sindacale”, ma di una questione politica. Gli effetti della concertazione delle politiche padronali non si misurano solo in termini di conquiste sociali distrutte. Ma anche in termini di sfiducia, rassegnazione, arretramento dei livelli di lotta e di mobilitazione. Ciò che ha spianato la strada anche tra i lavoratori e gli sfruttati a sentimenti politici regressivi, populisti, xenofobi. A tutto danno dell'unità tra gli sfruttati.

Peraltro ricostruire un'opposizione sociale di massa (il “fare”, non il “dire”) significa contrapporsi alla passività della burocrazia sindacale sul terreno delle indicazioni di lotta: in ordine a piattaforme alternative, contestazione organizzata di contratti bidone, proposta di svolta unitaria e radicale nelle forme di lotta e di organizzazione (scioperi prolungati, casse di resistenza...). Senza la ricostruzione della forza di classe ogni rivendicazione progressiva è destinata a restare una parola vuota. Ma non c'è ricostruzione della forza senza assunzione della centralità di classe e senza costruzione di una direzione alternativa della classe. E non c'è direzione alternativa senza lotta aperta alla burocrazia sindacale.
Per questo il silenzio di Potere al Popolo sulla burocrazia sindacale non è un incidente casuale. È la misura dell'evanescenza del suo programma. Ma anche della subordinazione alla burocrazia sindacale dei partiti della sinistra che si sono imboscati nella lista.


LA FILOSOFIA DEL POTERE POPOLARE

L'intera filosofia del programma è peraltro riassunta con chiarezza nel capitolo finale del programma:

«[...] la questione centrale [è] la necessità di costruire il potere popolare. Per noi potere al popolo significa restituire alle classi popolari il controllo sulla produzione e sulla distribuzione della ricchezza; significa realizzare la democrazia nel suo senso vero e originario. Per arrivarci abbiamo bisogno di fare dei passaggi intermedi e, soprattutto, di costruire e sperimentare un metodo: quello che noi – ma non solo noi – abbiamo provato a mettere in campo lo abbiamo chiamato controllo popolare. Il controllo popolare è, per noi, una palestra dove le classi popolari si abituano a esercitare il potere di decidere, autogovernarsi e autodeterminarsi, riprendendo innanzitutto confidenza con le istituzioni e i meccanismi che le governano».

Seguono gli esempi del cosiddetto controllo popolare: «la sorveglianza che abbiamo fatto sulla compravendita dei voti alle ultime elezioni amministrative a Napoli», «le visite che facciamo ai Centri di Accoglienza Straordinaria», «le apparizioni all'Ispettorato del Lavoro», «la battaglia per il diritto alla residenza e all'assistenza sanitaria per i senza fissa dimora. [...]».

Naturalmente nessuno di noi si sogna di contestare queste pratiche. Ma il punto è la prospettiva cui vengono finalizzate e da cui traggono spunto. Qui cade il castello retorico delle parole. Il "potere del popolo" non travalica le istituzioni borghesi dello Stato, con cui anzi occorrerebbe «riprendere confidenza». I «passaggi intermedi» del “controllo popolare” si riducono alla pratica delle iniziative di denuncia, contestazione e propaganda da parte di Je so' pazzo (e di una piccola avanguardia di movimento) all'interno dell'attuale quadro sociale e istituzionale. Nulla che riconduca alla necessità di un altro potere, che spezzi l'ossatura dello Stato borghese, che si fondi sull'autorganizzazione democratica e di massa di un'altra classe sociale. Nulla che riconduca al potere alternativo degli sfruttati, l'unico possibile potere del popolo. La giunta De Magistris, con l'appoggio di Je so' pazzo, è in fondo la metafora del potere popolare che si rivendica. Con buona pace delle privatizzazioni delle municipalizzate partenopee.

È la riprova che se rimuovi la prospettiva del governo dei lavoratori, quindi di una rottura rivoluzionaria, resta solo la subordinazione all'ordine esistente. A livello locale, nazionale, europeo. La confezione di belle frasi (il “dire”) non cambia la realtà delle cose.


TSIPRAS, MELENCHON, PODEMOS. I RIFERIMENTI INTERNAZIONALI SFORTUNATI DI POTERE AL POPOLO

L'incontro tra masse e istituzioni borghesi è stato peraltro celebrato da Je so' pazzo in occasione della vittoria elettorale di Tsipras e della formazione del suo governo, esaltato con toni enfatici «Abbiamo visto [...] i ministri scendere in mezzo al popolo, e persone di ogni età abbracciarli. [...] quando mai i poveri hanno abbracciato un governante?» (intervento di apertura dell'assemblea cittadina del 3 ottobre a Napoli, all'Ex OPG Je so' pazzo). Disgraziatamente sono passati due anni, e Tsipras ha realizzato passo dopo passo il programma della troika contro il suo popolo. Nessuna lezione da trarre?

I riferimenti internazionali di Potere al Popolo non sono fortunati.
Podemos, tramite Iglesias, ha dato la propria pubblica benedizione a Nicola Fratoianni (e Bersani) dopo aver voltato le spalle al diritto di autodeterminazione della Catalogna (vedi Il Manifesto del 16 dicembre). L'ex ministro Mélenchon, con la sua "Francia ribelle”, ha mandato il saluto a Potere al Popolo nel momento stesso in cui chiede ai propri sostenitori di sostituire la bandiera rossa con il tricolore, perché il confine tra sinistra e destra sarebbe superato da quello tra “oligarchia e popolo”: «Dobbiamo dialogare con il sovranismo della destra... Dobbiamo parlare della grandezza della Francia e del suo posto nel mondo...» dichiara a Le Monde il 23 ottobre.
Intanto il PCI, membro ufficiale della nuova lista popolare, rivendica la Cina come “grande paese socialista”, e onora le gesta di Kim Jong-Il alla testa della Corea del Nord. Mentre il suo principale referente europeo (il Partito Comunista Portoghese) vota in Portogallo una legge finanziaria che taglia del 30% gli investimenti pubblici per rispettare le direttive della UE.
È davvero il caso di dire: cosa non si fa nel nome del “popolo”.


FUTURO E PASSATO

I promotori della lista Potere al Popolo annunciano che la «follia andrà oltre la data del voto» (Il Manifesto 19/12), forse alludendo a una sorta di nuovo soggetto politico che unisca partiti e movimenti ispiratori della lista. Vedremo. Di certo non è una idea nuova. Quasi vent'anni fa il bertinottismo si nutrì esattamente della stessa cultura: mutualismo, movimentismo, superamento della forma partito e della centralità di classe, primato del “fare” sul “dire”... etc. Un'intera generazione di militanti di Rifondazione si formò su questo immaginario, sullo sfondo del movimento No global e dei social forum. Ma l'esito non fu felice. Il movimentismo coprì la rinegoziazione del centrosinistra, all'ombra di sottosegretariati e ministeri. Il prezzo del trauma lo paghiamo tutt'oggi, in termini di abbandoni, demotivazione, riflusso.

È vero, vi sono differenze profonde tra allora e oggi. Allora esisteva un movimento reale di settori giovanili, intrecciato con la dinamica di opposizione del movimento operaio e del movimento contro la guerra. Oggi l'intero scenario ha conosciuto un arretramento profondo, proprio a partire dal tradimento politico e sindacale di quella stagione.
Ma forse è una ragione in più per evitare di riconsegnare nuove passioni e generazioni ai responsabili politici di quel disastro (o ai loro eredi) e alle loro culture.
Per questo c'è bisogno tanto più oggi di una sinistra rivoluzionaria.

Partito Comunista dei Lavoratori