29 Maggio 2023
Qual è il contenuto della riforma del lavoro spagnola che piace alla sinistra italiana?
“Fare come in Russia” fu una parola d'ordine dei socialisti rivoluzionari europei dopo l'Ottobre 1917. “Fare come in Spagna” è oggi la parola d'ordine dei riformisti di casa nostra, con riferimento alle virtù dell'attuale governo PSOE-Podemos.
Dopo l'ingloriosa vicenda del governo Tsipras, un vasto fronte che va da Schlein a Fratoianni, da Acerbo a De Magistris, fa del governo spagnolo la nuova terra promessa della sinistra italiana. Distinguere poesia e prosa della politica spagnola è allora un esercizio utile di verità.
La riforma del lavoro recentemente varata dalla ministra Iolanda Diaz è universalmente presentata come paradigma di un riformismo possibile. Ma non non è tutto oro ciò che luccica È vero, i contratti a termine sono stati ridotti del 7%. Se ricordiamo che il primo governo Prodi, col voto di Rifondazione Comunista, varò l'introduzione del lavoro interinale nel 1997 (Pacchetto Treu), e poi il secondo governo Prodi, col ministro Paolo Ferrero, conservò le misure di precarizzazione estrema del precedente governo Berlusconi (legge 30 di Maroni), potremmo dire che la riforma Diaz è sicuramente più avanzata. Verrebbe da dire: ci vuole poco. E però bisogna dirla tutta.
Il tasso spagnolo dei contratti a termine era precedentemente del 24%, il più alto in Europa. La sua riduzione del 7% (17,5%) lo porta quasi al livello... italiano (16,1%). Presentare la misura come la cancellazione del precariato in Spagna è dunque una bufala. Il tentativo semmai è quello di stabilizzare il lavoro temporaneo, eliminando gli eccessi e riportandolo sul “normale” livello europeo.
L'aspetto più rilevante della riforma riguarda il contratto «para obra o servicio determinado», che in Spagna copre il 38% dei contratti a termine. La riforma stabilisce che la conclusione dell'opera per la quale si presta il servizio non determina più l'estinzione del contratto, in quanto l'impresa è tenuta a offrire al lavoratore una proposta di ricollocamento. Se il lavoratore rifiuta o semplicemente il ricollocamento si rivela impossibile, allora scatta l'estinzione del contratto con un'indennità corrispondente al 7% del contratto collettivo corrispondente. Sarebbe questa la “fine del precariato”?
La riforma introduce inoltre uno strano “contratto a tempo indeterminato”. Parrebbe una contraddizione in termini, ma così non è. Si tratta del «contrato fijo discontinuo», col quale il lavoratore è assunto a tempo indeterminato ma lavora quando occorre, con relative penalizzazioni nei periodi di mora. Non si tratta di situazioni marginali. Secondo i dati della Sicurezza sociale spagnola si tratta di un milione e trecento mila salariati. Vengono conteggiati come a tempo indeterminato ma sono a tutti gli effetti lavoratori precari. Con la riforma Diaz questa forma contrattuale tende a dilagare, come riconoscono le stesse burocrazie sindacali. Ciò che spiega sul punto la soddisfazione padronale.
Infine, quando si confrontano le regole contrattuali sarebbe necessario guardare non solo alle tipologie di assunzione ma anche alle tutele previste o non previste in caso di risoluzione. Bene. La riforma Diaz non tocca la legislazione spagnola sulla questione. In caso di licenziamento illegittimo del lavoratore, e anche di licenziamento discriminatorio (come tale definito dal giudice), il lavoratore ha diritto a ottenere un'indennità pari a 33 giorni di salario per anno di servizio, fino a un massimo di 24 mensilità. Peggio di quanto previsto dalla normativa italiana, anche dopo il Jobs act. Dov'è la svolta epocale?
La realtà è dunque molto diversa dalla sua rappresentazione propagandistica. Lo ha capito bene Confindustria spagnola, che sostiene la riforma nel quadro della politica di concertazione sindacale. Una concertazione che ha visto col governo Sanchez un sicuro consolidamento.
In compenso, all'ombra di questo decantato progressismo, il governo socialisti-Podemos prosegue le politiche ordinarie dell'imperialismo spagnolo. Nega il diritto di autodeterminazione della Catalogna. Concorda col governo reazionario marocchino misure forcaiole contro i migranti, simili a quelle di Minniti e Salvini, con tanto di militarizzazione delle frontiere di Ceuta e Melilla e di inumani respingimenti in mare. Accresce il bilancio militare spagnolo con una forte crescita delle spese in armamenti in rapporto al PIL, secondo le disposizioni della NATO regolarmente rispettate. Sostiene l'allargamento della NATO in Nord Europa in direzione di Svezia e Finlandia, in piena fedeltà atlantista...
“Fare come in Spagna” cosa significa, allora? Significa rispolverare il mito illusorio di un possibile governo borghese progressista. E perciò stesso rivelare lo scopo autentico in ultima istanza dei dirigenti di Unione Popolare: fare... come Podemos ha fatto col PSOE. Ricomporre un quadro di governo con M5S e PD nel quadro del capitalismo italiano, del suo apparato statale, della sua collocazione internazionale. Una prospettiva oggi sicuramente remota, ma tutta interna alla logica dell'alternanza. La stessa logica già praticata ai tempi di Prodi, e già esaltata ai tempi di Tsipras. La stessa logica che ha preparato lo sfondamento della destra tra i salariati italiani.
Il PCL persegue una prospettiva opposta. Quella di un'alternativa di sistema, cioè di un'alternativa anticapitalista, di un governo dei lavoratori e delle lavoratrici. Una prospettiva certo difficile, ma l'unica soluzione di vera svolta. Una bussola di riferimento per le politiche dell'oggi, dentro il fronte unico di lotta contro la destra, per un' altra direzione del movimento operaio e sindacale.