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Il vento di Francia

Un grande sciopero generale scuote la Francia, contro la “legge Fornero di Macron” e del suo Primo ministro. Uno sciopero che ha carattere continuativo, si combina con manifestazioni di massa, chiede il ritiro della riforma. Uno sciopero che coinvolge molte categorie del settore pubblico, a partire dai trasporti, dagli ospedali, dalle scuole, con altissimi livelli di partecipazione (80% di scioperanti tra i ferrovieri, quasi il 60% tra gli insegnanti, una percentuale analoga nella sanità). Uno sciopero indetto dai sindacati CGT, FO, Solidaire, con la eccezione della CFDT (che tuttavia sciopera nelle ferrovie), ma sospinto da centinaia di assemblee di lavoratori e lavoratrici, che giorno dopo giorno provvedono a votare la sua continuità. Uno sciopero che polarizza il sostegno attivo della massa dei giovani studenti e l'aperta simpatia della maggioranza larga della società francese. Questo è lo sciopero che da cinque giorni paralizza la Francia.

I frettolosi teorizzatori del tramonto delle forme di lotta “novecentesche” subiscono ancora una volta la smentita più clamorosa. Ancora una volta in Francia.


LA LEGGE FORNERO DI MACRON

Un grande sciopero generale, come ogni forma di esplosione sociale, ha sempre fattori scatenanti e radici lontane.
Il fattore scatenante, la classica goccia che ha fatto travasare il vaso, è una riforma liberal-liberista del sistema pensionistico francese, la bestia nera del capitalismo d'oltralpe. Il progetto di riforma è annunciato da tempo e al tempo stesso ancora indefinito nei suoi dettagli. Non la soppressione dei privilegi corporativi, come lo presenta il governo, con l'intento di dividere i lavoratori, ma la soppressione di una sudata conquista del movimento operaio francese: il diritto di andare in pensione a 60/62 anni d'età, e non oltre.
Non è la prima volta che la borghesia francese parte all'attacco delle pensioni. Ci ha già provato col governo Juppé nel 1995, quando fu costretta a rinunciare da un imponente sciopero generale di 20 giorni consecutivi. Ci ha riprovato con Sarkozy nel 2010, dove ha eroso il muro dei 60 anni di età pensionabile, ma senza ottenere lo sfondamento voluto. Ora Macron prova a sferrare il colpo decisivo.

Le ipotesi di riforma che aleggiano da tempo, fatte filtrare da dietro le quinte per tastare il polso alle masse, sono tra loro diverse: si parla di pensione “a punti” legata ai contributi versati; di un innalzamento incentivato dell'età pensionabile a 64 anni, attraverso una penalizzazione pensionistica sotto quella soglia; di un ricalcolo dell'importo della pensione sull'intera vita lavorativa (e non più sugli ultimi 25 anni). Vedremo nei prossimi giorni come l'operazione verrà articolata, e quale sarà la combinazione di queste misure. Due sono tuttavia i punti chiari. Il primo è che in ogni caso si va in direzione di una chiara compressione dei diritti della grande massa dei salariati. Il secondo è che Macron non può retrocedere da questa linea d'attacco se non smentendo clamorosamente la sua principale promessa elettorale alla borghesia. Da qui la rotta di collisione e i limitati spazi di manovra.

Non si tratta peraltro del solo onore della Presidenza della Repubblica, ma anche di un problema economico serio per il capitale. Il capitalismo francese conosce da anni un andamento economico debole. Il peso strutturale della spesa pubblica è il nemico numero uno della MEDEF (la Confindustria) e dei partiti borghesi. Le pensioni a loro volta sono il grosso della spesa pubblica. “Non si può recidere la spesa pubblica senza intervenire sulle pensioni” grida in coro la grande stampa borghese. Industriali, banchieri, economisti e mananger usano ogni giorno quintali di inchiostro per affermare che non può decollare l'economia francese se non ci si libera di questa zavorra.

Peraltro, proprio lo scontro col movimento dei gilet gialli lo scorso anno ha ulteriormente complicato le cose. Per cercare di disinnescare il movimento dei gilet – infinitamente più modesto dello sciopero attuale ma fattore di potenziale contagio – Macron aveva fatto un anno fa (esattamente il 10 dicembre del 2018) alcune parziali “concessioni” sociali, in direzione in particolare del reddito familiare, delle pensioni minime, della revoca di maggiorazioni di imposta. Per la borghesia altri 4 miliardi sul groppone dell'odiata spesa pubblica. Ma soprattutto una confessione politica di debolezza. Il Presidente ha cercato di equilibrare le concessioni estorte dalla piazza con la soppressione parziale dell'imposta sul patrimonio (“imposta di solidarietà sulle fortune”) e con una flat tax vantaggiosa sui redditi da capitale. Ma questo l'ha costretto a maggior ragione al finanziamento in deficit delle concessioni ai gilet gialli. Oggi l'attacco al sistema pensionistico è indotto anche dalle necessità del governo nel quadro dei patti di stabilità europei. Per giocare la carta della grandeur francese sui tavoli continentali (e non solo), e reggere il negoziato complesso col capitalismo tedesco, Macron deve esibire un quadro economico in regola sul fronte interno, il fronte delle pensioni innanzitutto.


LA MEMORIA DEL PROLETARIATO FRANCESE. LO SPETTRO DEL '95

Tuttavia nello sciopero generale in atto vivono non solo fattori contingenti, ma anche l'esperienza del proletariato francese. Non solo la sua memoria lontana (lo sciopero generale del 1936 che strappò il sabato festivo e lo sciopero generale del maggio 1968 che conquistò il salario minimo intercategoriale), che pure ha depositato indirettamente un suo lascito. Ma anche la memoria più recente: la grande lotta di massa del 2006 contro il governo Villepin e il suo contratto precarizzante di primo impiego (CPA), che costrinse il governo ad una clamorosa retromarcia; e soprattutto il grande sciopero generale vittorioso del 1995 contro Juppé proprio a difesa delle pensioni.

Oggi la memoria del '95 è non a caso un riferimento dominante del dibattito pubblico in Francia. Sulla stampa borghese sembra la memoria della peste. Sulla stampa della sinistra riformista è la memoria di una lotta importante ma datata. Per un settore della classe lavoratrice è invece la memoria di una vittoria possibile attraverso l'uso della propria forza. Se forme di mobilitazione tradizionali seppur insistite, come contro la legge El Khomri di Hollande, non hanno ottenuto risultati, mentre una lotta di piazza settimanale, spuria, ma continuativa come quella dei gilet gialli ha costretto Macron a fare concessioni, la conclusione è che allora anche i salariati debbono andare a una prova di forza. E la prova di forza dei salariati è lo sciopero. La memoria del '95 riassume questa conclusione.


LE PREOCCUPAZIONI DELLA BORGHESIA. E DELLA BUROCRAZIA SINDACALE

La prova di forza che si è aperta in Francia è al centro delle preoccupazioni della borghesia.
Anch'esso memore del 1995, il governo teme la ricomposizione di massa del fronte sociale. Tutto l'ultimo anno è stato speso nel tentativo di disinnescare i rischi di esplosione. Macron ha fatto di tutto in questa direzione: ha imbandito il cosiddetto “grande dibattito” con la società francese, simulando l'umiltà dell'ascolto in mille incontri coi “cittadini”; ha ricoperto di promesse diverse categorie professionali; ora offre la rivalutazione degli stipendi degli insegnanti per bloccarne la convergenza di lotta coi ferrovieri, salvo confessare che non ha i soldi per l'operazione.

Ma ora i nodi sono giunti al pettine. Macron ha preso un anno di tempo per allontanare da sé lo spettro dello scontro sociale sulle pensioni, ma non è riuscito ad evitarlo. Ora lo sciopero generale apre contraddizioni nella borghesia. Il presidente della MEDEF consiglia a Macron di rinunciare alla riforma a punti delle pensioni e di accontentarsi di un innalzamento del monte di contributi necessario. Il Consiglio di orientamento sulle pensioni, una sorta di consulta governativa di esperti sul tema, pubblica un nuovo rapporto e raccomanda a Macron la virtù della prudenza. Lo stesso primo ministro Édouard Philippe mostra tentennamenti, avendo paura di essere usato da Macron come una sorta di ascaro sul fronte sociale per essere poi scaricato e bruciato. Per questo fa filtrare sulla stampa di essere più disponibile del Presidente al “dialogo sociale”. Nel momento stesso in cui vanno allo scontro i diversi attori borghesi si premurano di predisporre, in ordine sparso, un proprio spazio di ritirata.

Ma la stessa preoccupazione investe le burocrazie sindacali. La CFDT si è tenuta fuori dallo scontro per giocare il ruolo di interlocutore privilegiato e responsabile del governo, ma la polarizzazione in atto restringe gli spazi dell'operazione. La preoccupazione è soprattutto negli ambienti dirigenti di Force Ouvrière (FO) e della CGT. Le burocrazie sono state costrette allo scontro sociale dalla pressione di larghi settori della base militante e dalla sfida aperta di Macron alla loro stessa forza negoziale. Ma hanno il terrore di essere scavalcate dalla dinamica di massa e di non riuscire a controllarla. Il loro obiettivo è di vincere ai punti riconquistando pacificamente un tavolo di concertazione col governo sullo stesso tema delle pensioni per riaffermare il proprio ruolo di regolatori del conflitto, a garanzia delle ordinate relazioni industriali. Ma gli stessi processi di radicalizzazione che i burocrati evocano per chiedere udienza al governo rendono pericoloso il loro gioco. Dominique Maillot, importante dirigente di FO, lo confessa apertamente a Le Monde: “Attenzione, uno sciopero è un giorno dopo l'altro, e io posso dirvi che nessuno può sapere cosa accadrà. Il '95 nessuno l'aveva previsto all'inizio" (1 dicembre).


IL NODO DELLA DIREZIONE DEL MOVIMENTO

Le preoccupazioni hanno un fondamento. Nel 1995 la burocrazia sindacale aveva un peso e una capacità di controllo, nonostante tutto, molto superiore all'attuale. Disponeva di un tasso di sindacalizzazione più esteso e aveva relazioni politiche con partiti riformisti ancora strutturati (Partito Socialista e Partito Comunista Francese). Il decennio della grande crisi e il crollo della vecchia sinistra politica ha trascinato con sé una profonda disaffezione verso i sindacati nelle stesse file dei salariati. Lo stesso fenomeno dei gilet gialli e la sua presa in ambienti operai si è nutrito (anche) di questo sentimento. Questa situazione non priva i sindacati maggiori del potere di promuovere lo sciopero, come dimostrano i fatti, ma può indebolire la loro capacità di controllarlo. “Essi rischiano di perdere il controllo del movimento senza poter impedire un suo debordamento” scrive Le Monde il 4 dicembre.

Nelle stesse pagine Le Monde descrive lo sviluppo di comitati e assemblee di base formatisi in diversi settori per impulso di attivisti sindacali di diversa collocazione e di lavoratori non sindacalizzati, proprio in preparazione dell'inizio della sciopero del 5 dicembre con l'intento di dirigerlo. La parola d'ordine “lo sciopero è degli scioperanti” ha acquistato popolarità in ambienti diversi e misura al tempo stesso volontà di lotta e diffidenza verso le burocrazie: è l'espressione a suo modo di una domanda di democrazia operaia e di autorganizzazione.

Vedremo nei prossimi giorni se queste potenzialità si svilupperanno o regrediranno. Analizzeremo il posizionamento politico di tutti gli attori in scena anche sul versante politico. Documenteremo l'intervento attivo nella lotta dei marxisti rivoluzionari francesi. Verificheremo se entrerà nella lotta il proletariato industriale, che oggi versa in maggiori difficoltà, ma la cui mobilitazione darebbe una piega decisiva alla dinamica degli avvenimenti.

Ma una cosa già la possiamo affermare: le tre ore di sciopero contro la legge Fornero in Italia da parte della burocrazia CGIL sono umiliate dallo sciopero generale continuativo in Francia contro una riforma antioperaia delle pensioni dopo tutto più modesta di quella di Monti.
Sicuramente la lotta in corso in Francia è una ragione non solo di solidarietà internazionalista contro i sovranismi di ogni tipo ma anche un terreno di battaglia politica per un'altra direzione del movimento operaio italiano.
Partito Comunista dei Lavoratori