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A cinquant'anni dalla strage di Piazza Fontana

Il 12 dicembre del 1969 è una data fondamentale della storia della repubblica italiana. In quel giorno, tra Roma e Milano vengono collocate cinque bombe: quella nella banca milanese provoca diciassette morti e ottantotto feriti. La matrice del delitto rimanda alle organizzazioni dell’estrema destra neofascista. I terroristi neofascisti sono il detonatore di un progetto destinato a far dichiarare lo stato di emergenza, una sorta di stato d’assedio inteso come primo passo in direzione di una svolta autoritaria. Attraverso il propagarsi della paura, creando il disordine affinché salga la richiesta di un ritorno all’ordine, questo progetto reazionario punta a sospendere le garanzie costituzionali e permettere l’emissione di misure eccezionali contro le forze politiche della sinistra.
In un paese dell’alleanza atlantica, attraversato dagli scioperi operai, queste misure sono ritenute idonee per arrestare l’ondata rivendicativa suscitata dal Sessantotto studentesco prima, e dal Sessantanove operaio poi.
Indispensabile corollario a tutto ciò è l’attribuzione della strage agli anarchici, individuati come predestinati perfetti di questa macchinazione. Un copione già scritto, che pur nelle differenze, ricalca quello andato in scena nella Berlino del 1933, con l’incendio del Reichstag come pretesto per sospendere le garanzie democratiche e mettere fuori gioco le forze del movimento operaio.

Negli anni successivi affioreranno le complicità dei neofascisti con gli apparati dello Stato e con ambienti internazionali legati alla NATO e alle strutture di intelligence statunitensi; si svelerà così la trama e l’ordito di un progetto reazionario (la cosiddetta strategia della tensione) teso a contenere l’influenza di un forte e radicato partito comunista, e a stroncare le istanze di cambiamento sociale e politico che sul finire degli anni Sessanta si erano diffuse nel paese.
Quel giorno di cinquant’anni anni fa s’invera la criminalità di una classe dominante che, per mantenere il potere di fronte all’ascesa delle lotte del movimento operaio, è disposta a tutto, anche a lastricare di morti il suo cammino pur di non vedere messi a repentaglio i cardini su cui si fonda il suo dominio sull’insieme della società. Quel giorno si materializza una legga storica del capitalismo: il potere borghese non si lascia “rimuovere” pacificamente senza reagire, contrattaccare, vendere cara la pelle; e quindi non esita a ricorrere a quegli strumenti che le sue leggi non contemplano, anzi condannano senza attenuante alcuna.

La strage di piazza Fontana non è una pagina oscura, un mistero irrisolto, ma è un capitolo chiaro, evidente, preciso. Nonostante il lunghissimo iter processuale non sia riuscito a far condannare nessuno degli esecutori e dei mandanti, la verità storica su quella strage è acclarata: la strage è stata compiuta da Ordine Nuovo; la sua esecuzione è stata favorita dai suoi collegamenti con gli apparati statali interni ed internazionali; quegli stessi apparati di sicurezza che poi hanno ostacolato le indagini, proteggendo gli indagati e depistando le inchieste sui responsabili. Anche le ultime sentenze della Corte d’assise di Milano del 2001 e del 2004 indicano in termini inequivocabili la responsabilità dell’attentato negli ordinovisti veneti Freda e Ventura, anche se non più giudicabili perché già assolti in via definitiva (con la sentenza del 1987) per lo stesso reato. Come dire: i colpevoli sono stati individuati ma non possono essere più condannati.
Nell’antichità, gli ateniesi non perdonavano, non dimenticavano, non la facevano passare liscia a nessuno. La maledizione e la vergogna non perseguitavano soltanto i colpevoli ma anche i loro figli, i figli dei loro figli e tutta la loro stirpe. Nel nostro paese invece le stragi di Stato e le trame antidemocratiche sono rimaste impunite. Oggi, nonostante il rilievo mediatico dato all’anniversario di Piazza Fontana, l’attenzione su queste vicende è venuta a cadere, domina l’oblio e la disinformazione, come attesta un sondaggio recente che rivela come la maggior parte dei ragazzi delle scuole superiori di Milano sia convinta che la bomba di piazza Fontana l’abbiano messa le BR.


UN QUINQUENNIO DI TERRORE

Con la strage di Piazza Fontana si apre un lustro terribile per il nostro paese: un’apocalisse di sangue, dolore e morte. Tra il 1969 e il 1974, in Italia vengono perpetrate addirittura sei stragi: alla Banca Nazionale dell’Agricoltura di Milano, sul treno Freccia del Sud a Gioia Tauro, a Peteano, alla questura di Milano, in Piazza della Loggia a Brescia e sul treno Italicus a San Benedetto Val di Sambro.
Un'escalation di terrore senza precedenti e seguito nella storia repubblicana. Nello stesso periodo la violenza sarà prerogativa quasi assoluta della destra estrema, responsabile dell’85% degli oltre 4.000 tra assalti e attentati politici che si verificano in quel periodo. Chi faceva esplodere quelle bombe si poneva un duplice obiettivo: spostare a destra l’asse politico del paese, realizzando così una svolta autoritaria, e fermare con ogni mezzo quelle lotte operaie e studentesche che dal ’68 in poi avevano prodotto un’effervescenza sociale che minava gli assetti di potere delle classi dominanti. Contemporaneamente, la spirale di paura che le bombe producevano serviva per mandare un segnale inequivocabile al PCI e all’insieme del movimento operaio: il potere borghese, se viene messo in discussione, può far ricorso a qualsiasi mezzo pur di non farsi mettere in minoranza nelle urne e nelle piazze. Da qui lo sviluppo di una strategia della tensione, che per anni insanguinerà il paese, condizionando pesantemente la vita politica italiana.


LE ORIGINI DELLA STRATEGIA DELLA TENSIONE

La strategia della tensione conosce una lunga gestazione, la cui origine va rintracciata nella guerra fredda che oppone gli USA all’Unione Sovietica. In questo quadro, la collocazione geostrategica dell’Italia l’ha posta già dalla metà degli anni Quaranta in una posizione decisiva. Questo ha significato, fin da allora, una vita politica profondamente condizionata dagli interessi americani. Nel corso degli anni, in nome della lotta al comunismo, vengono siglate intese segrete tra i membri dell’alleanza atlantica, e i vertici militari elaborano piani di “guerra non ortodossa”, di “guerra psicologica”, che in alcuni casi prevedono l’affiancamento dei civili con i militari, e l’uso di pratiche inconfessabili. È del 1963 la direttiva a stelle e strisce secondo la quale il comunismo deve essere fermato ad ogni costo. Nel nostro paese ciò venne tradotto nella costituzione dei Nuclei per la Difesa dello Stato, formati in gran parte da elementi provenienti dalle file dell’estrema destra nostrana, che a differenza di altre reti come Gladio sono un raggruppamento per la guerra non ortodossa finalizzata alla repressione interna. In tale contesto, i gruppi neofascisti si organizzano e si coordinano all’interno di questo articolato fronte anticomunista, assumendo il ruolo di “cobelligeranti” dei circoli dell’oltranzismo atlantico.
Un’intesa che si consolida nel 1965 al convegno organizzato dall’Istituto Alberto Pollio che si tiene a Roma all’albergo Parco dei Principi. Sotto l’egida dello Stato Maggiore dell’esercito e dei servizi segreti, uno stuolo di militari, politici e accademici discutono insieme ad una nutrita delegazione di neofascisti come affrontare la penetrazione comunista nella società. Le modalità scelte sono quelle della guerra psicologica, elaborando anche l’effettuazione di azioni rapide e mirate, che con l’ausilio della propaganda siano in grado di far ricadere la responsabilità sul nemico. I neofascisti rivestiranno, però, solo il ruolo degli esecutori materiali, saranno cioè il terminale operativo di un’azione preventiva che puntava a salvaguardare a tutti i costi gli assetti politici sociali esistenti.


LE BOMBE PER FERMARE LE LOTTE

Nella seconda metà degli anni Sessanta, i neofascisti, gli apparati militari e una parte della borghesia italiana accarezzano il sogno di una svolta autoritaria. Le proteste studentesche e il condensato di rivendicazioni operaie espresse nel biennio 1968-'69 atterriscono i ceti possidenti: dal fronte conservatore sale la richiesta di porre fine alle lotte operaie e giovanili. Le bombe servono per imprimere una virata politica a destra, per rendere inevitabile un pronunciamento militare teso a ristabilire l’ordine sociale.
Questi ambienti guardano con favore ad una “soluzione greca”. Infatti, in quel paese, nell’aprile del 1967, dopo una serie di attentati – realizzati da unità militari speciali ma attribuiti ai comunisti – fu attuato un golpe militare. Anche in Italia le bombe che scoppiano vengono attribuite agli anarchici e all’estrema sinistra. Pietro Valpreda, indicato come “la belva umana”, resterà in carcere tre anni da innocente, mentre Giuseppe Pinelli, un ferroviere anarchico fermato nelle ore successive alla strage, muore cadendo dal quarto piano della questura dopo un lunghissimo interrogatorio. Il questore Guida (che nel Ventennio dirigeva il confino politico di Ventotene) diffonde la falsa notizia secondo cui l’anarchico si sarebbe suicidato di fronte agli schiaccianti indizi emersi.
In Piazza Fontana, tuttora rimane una targa posta dagli studenti e dai democratici milanesi che ricorda come Pinelli sia stato ucciso innocente nei locali della questura.
Gli attentati del 12 dicembre, in luoghi altamente simbolici (banche, Altare della Patria) servono per accreditare una pista rossa, per rendere credibile una possibile inversione di responsabilità, per favorire la caccia alle streghe che ha come vittime predestinate gli anarchici, la sinistra extraparlamentare e il movimenti degli studenti.
La strage di Piazza Fontana giunge al culmine di un anno, il 1969, che segna l’ascesa delle lotte del movimento operaio. Le mobilitazioni, che si concentrano nei grandi centri industriali del paese, mostrano un seguito mai visto; una radicalità che si esprime nelle lotte per i rinnovi contrattuali; un protagonismo operaio che esce dal perimetro rivendicativo della fabbrica, contagiando l’insieme delle classi subalterne e ponendo una domanda di cambiamento radicale della società. Contro questa insorgenza sociale viene affinata una strategia della tensione tesa a stroncare le istanze operaie che si stanno sedimentando nel paese.


1969: UN ANNO ESPLOSIVO

Nell’anno dell’autunno caldo e della conflittualità operaia lampeggiano 145 attentati, 12 al mese, uno ogni tre giorni. Due su tre sono dinamite nera. Bombe neofasciste che esplodono contro sezioni del PCI, sedi dei gruppi extraparlamentari, università, sinagoghe, banche. Bombe che esplodono sui treni, 10 solo in agosto, o alla fiera campionaria di Milano. Per queste ultime, seguendo un copione sperimentato, vengono incolpati un gruppo di giovani anarchici. Due anni dopo la macchinazione verrà smontata: il processo rivelerà che quelle bombe non erano anarchiche e gli imputati verranno scagionati.
Ma è proprio in autunno, mentre sono in corso le vertenze sindacali, che si prepara il contesto che conduce alla strage di Piazza Fontana. Il 19 novembre, a Milano, durante lo sciopero generale per la casa, la polizia carica un corteo provocando parecchi feriti. Negli scontri muore l’agente Antonio Annarumma. In serata alla caserma di Sant’Ambrogio si sfiora l’ammutinamento, con i poliziotti che, convinti che il loro collega fosse stato ucciso dai dimostranti, si preparano a marciare sull’Università Statale per farsi giustizia da soli. Ai funerali dell’agente, mentre garriscono al vento le insegne dei reduci di Salò, le squadracce fasciste aggrediscono Mario Capanna, uno dei leader più conosciuti del movimento studentesco.
Mentre si crea un clima per dire che le lotte sindacali producono omicidi si susseguono le provocazioni, e a Vanzago, nell’hinterland milanese, l’industriale Ulisse Cantoni spara con un fucile contro gli operai in sciopero provocando diversi feriti; arrestato, verrà rimesso in libertà dopo pochi giorni.
Mentre il ben informato giornale britannico The Observer il 7 dicembre evidenzia che un gruppo di estrema destra e di ufficiali sta tramando in Italia un colpo di Stato militare, il segretario del MSI Almirante rilascia un’intervista a Der Spiegel in cui dichiara che la battaglia contro il comunismo giustifica tutti i mezzi, e che è venuto il momento di non fare più distinzioni fra mezzi politici e militari per definire, una volta per sempre, la situazione in Italia. E poi, il giorno prima della strage, uno dei settimanali allora più venduti, Epoca, esce con una copertina tricolore, e con un editoriale che dice: “Se si dovesse ricorrere alle elezioni anticipate e il loro responso non fosse accettato dalle sinistre, le forze armate potrebbero essere chiamate a ristabilire immediatamente la legalità repubblicana".


L’ARGINE ALLA SVOLTA REAZIONARIA

Il tentativo di giungere alla promulgazione dello stato di emergenza, e dunque ad una svolta autoritaria, fallisce grazie alla forza della mobilitazione operaia e popolare. Fin dal giorno delle funerali delle vittime della strage, una massa compatta di lavoratori delle fabbriche milanesi gremisce Piazza Duomo e le vie adiacenti, testimoniando la propria presenza vigile e determinata.
Negli anni seguenti, accanto al lavoro d’inchiesta di alcuni giornalisti democratici, sarà la controinformazione e la costante mobilitazione delle organizzazioni dell’allora sinistra rivoluzionaria a disvelare le trame nere che sottendono la strage di Stato del 12 dicembre 1969. Anche per questo, quella parte di borghesia che aveva guardato con favore a una soluzione radicale capace di annichilire il movimento operaio e le sinistre, temendo di non riuscire a padroneggiare uno scontro aspro e risoluto, decide di recedere dai suoi propositi più bellicosi. Blocca i fautori del golpe, garantendogli però l’immunità. Facendo di necessità virtù, utilizza i destabilizzatori per stabilizzare gli assetti di potere.
La strategia della tensione, con il suo corollario di attentati e di provocazioni, declina nella seconda metà del 1974, e il "partito del golpe" viene marginalizzato.
In quell’anno cruciale muta sensibilmente il quadro politico mondiale. Negli Stati Uniti, con la crisi della presidenza Nixon, cambia la politica estera americana, mentre in Europa inizia lo sgretolamento dei regimi di Franco in Spagna, Salazar in Portogallo, e la fine della dittatura dei colonnelli in Grecia. Muta la fase. La borghesia ricerca nuovi equilibri politici per imbrigliare le lotte operaie, e neutralizzare la forza del principale partito comunista dell’Occidente. In questo nuovo contesto, le grandi famiglie del capitalismo italiano si convincono che, per depotenziare l’onda lunga sprigionata dal biennio '68-'69, è necessario ricercare un’intesa con il PCI, la forza egemone del movimento operaio italiano, ed abbandonare dunque una prova di forza dagli esiti incerti.


TRASMETTERE LA MEMORIA, RILANCIARE LA LOTTA

Quando sul banco degli imputati siede lo Stato con i suoi apparati e le sue istituzioni non è possibile accertare una verità giudiziaria chiara e condivisa. Non è cioè possibile incrinare quella ragione di Stato posta a difesa di interessi inconfessabili.
Verità e giustizia per le stragi di Stato si potranno ottenere solo con il rovesciamento di quell’ordine sociale borghese che ha ispirato, coperto e agevolato le trame nere e la strategia della tensione. Tuttavia, le migliaia di testimonianze raccolte e i sei milioni di pagine dell’inchiesta su Piazza Fontana ci offrono una verità storica che va divulgata e fatta conoscere: la strage di Piazza Fontana fu pensata, ideata e realizzata da una banda di neofascisti che beneficiarono prima e dopo l’eccidio di coperture, appoggi e complicità da parte di uomini e strutture dei servizi segreti italiani. Servizi non “deviati” dai loro compiti istituzionali, servizi non contro lo Stato, ma pienamente dentro questo Stato e le sue alleanze internazionali.
Per questo sarà importante non fare cadere l’oblio sulle stragi di Stato e sulle trame che hanno insanguinato il nostro paese rilanciando la lotta perché vengano aperti gli archivi e venga tolto il segreto di Stato su quella stagione. Per questo sarà importante serbare e trasmettere la memoria di ciò che accadde cinquant’anni fa in una banca milanese, perché chi non ricorda ed elabora il passato è destinato a ripeterlo.
Piero Nobili, Tiziana Mantovani