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ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO

  Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Il nostro Partito non potrà essere presente a qu...

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LA BATTUTA D'ARRESTO DEL RENZISMO

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I risultati delle elezioni amministrative del 31 Maggio misurano una pesante battuta d'arresto del renzismo. Non necessariamente la sua crisi. Ma la fine della sua dinamica espansiva e lo sgonfiamento della sua bolla elettorale.

PORTATA E SIGNIFICATO DEL VOTO
Il successo straordinario di Renzi alle elezioni europee non stava solo nel 41% dei voti riportati. Stava nell'aver bloccato e sconfitto l'avanzata populista, a danno in particolare del M5S. Questo era il dato che configurava il renzismo come strumento vincente della governabilità borghese agli occhi della classe dominante. E al tempo stesso come strumento di riscatto elettorale agli occhi di ampi settori di popolo della sinistra disorientati e allo sbando.
Le elezioni del 31 Maggio disperdono quel raccolto. Il PD ritorna a proporzioni bersaniane (23%). Il M5S conosce una relativa affermazione (18%, il dato più positivo ottenuto in elezioni amministrative regionali), pur subendo un'erosione a vantaggio di Salvini. La Lega di Salvini, soprattutto, mette a frutto il nuovo corso lepenista: capitalizzando la crisi di FI, sfondando in Centro Italia (v. Toscana e Marche), trainando elettoralmente in misura determinante la vittoria del Centrodestra in Liguria ( dove la Lega quadruplica i voti), riportando un risultato plebiscitario nella roccaforte veneta (dove somma voto a Zaia e voto a Salvini).
La pretesa di Renzi di ridimensionare la sconfitta subita esibendo la conquista della maggioranza delle regioni in palio, o dando al risultato un significato solo “amministrativo”, maschera la realtà. La competizione regionale mai come in questo caso ha avuto un marchio politico generale. Mai come in questo caso Renzi ha investito la propria immagine nella contesa, e l'ha politicamente persa. Lo prova il fatto che paradossalmente le due principali affermazioni elettorali del PD (Campania e Puglia) sono state ottenute da capi bastone locali (De Luca e Emiliano), relativamente autonomi dal renzismo anche se sostenuti da Renzi. In Liguria dove la competizione coinvolgeva più direttamente che altrove la figura di Renzi su diverse frontiere dello scontro politico, la sconfitta è stata inequivocabile. Più in generale il calo verticale del consenso al PD tra elezioni europee e regionali è riconducibile prevalentemente all'esperienza politica del governo Renzi, non a fattori locali.
In questo quadro, la sinistra politica riformista, nelle sue diverse articolazioni e collocazioni, registra un risultato critico. Con una indubbia particolarità in Liguria, dove il dato di Pastorino (9%) è consistente (seppur inferiore alle ambizioni iniziali), frutto anche di una spaccatura verticale del PD genovese: e tuttavia è significativo lo scarto amplio tra il voto al candidato presidente (voto personalizzato anti Paita) e il voto di lista. Nelle Marche, in Campania, in Toscana (seppur nell'ultimo caso con un risultato più rilevante, 6%) le sperimentazioni di laboratorio della “sinistra unita” non riescono a capitalizzare che in misura modesta la crisi del renzismo. Pesa proprio nel quadro di una competizione politica l'assenza di un riferimento politico nazionale capace di polarizzare e motivare il voto “a sinistra”, oltre alla zavorra d'immagine di sconfitte e compromissioni passate. La crescita consistente e relativamente uniforme dell'astensione a sinistra è assai indicativa, a conferma della tendenza già registrata nelle elezioni regionali dell'Emilia Romagna lo scorso autunno.
Complessivamente il dato elettorale fotografa dunque uno scenario politico negativo: la crisi del renzismo è fondamentalmente capitalizzata a destra; le lotte contro il Job Act e la “buona scuola” non trovano una espressione rilevante, attiva e autonoma, a sinistra. L'astensione registra prevalentemente un sentimento di sfiducia passiva in più ampi settori del popolo di sinistra.

LA CRISI DEL “PARTITO DELLA NAZIONE”
Il progetto del Partito della Nazione registra una difficoltà evidente. Il fine dell'operazione era ed è quello di combinare la preservazione del blocco sociale tradizionale del centrosinistra (parte della classe operaia industriale, lavoratori del settore pubblico e pensionati) con lo sfondamento nel blocco sociale del centro destra (piccola e media impresa). Su entrambi i versanti l'operazione segna il passo.
Sul versante del lavoro dipendente, dopo la tele vendita degli 80 euro, la politica del governo paga il costo sociale della guerra vinta contro l'articolo 18, lo scontro frontale col grande sciopero della scuola, il contenzioso sulle pensioni. Il vecchio blocco sociale del PD è stato investito da una frana di consensi su ogni lato.
Sul versante del blocco sociale di centrodestra, i vantaggi assicurati con lo sgravio dell'Irap e dei contributi alle imprese è compensato dalla difficoltà di ridurre la tassazione immobiliare e dal peso elettorale della questione migranti. La conseguenza è semplice: Renzi non riesce a capitalizzare la crisi verticale di Forza Italia che va tutta a beneficio della Lega. Mentre il consenso elettorale del centrodestra complessivamente inteso non solo tiene ma si espande.
Questa battuta d'arresto rivela in realtà una questione di fondo: la difficoltà del renzismo ad alimentare il proprio populismo di governo. Dopo l'operazione strutturale degli 80 euro, dopo la sgravio fiscale e contributivo legato al Job Act, il governo non trova altra benzina per nutrire il Partito della Nazione. L'operazione tentata con la restituzione anticipata del TFR ha fatto un flop clamoroso (500 richiedenti in tutta Italia contro la previsione governativa di un 50% di lavoratori interessati): perché la tassazione imposta per ragioni di cassa l'ha resa svantaggiosa. Il DEF del 2015 è altrettanto indicativo. Il “tesoretto” sperato si è dissolto sotto i colpi della Corte Costituzionale (pensioni) e sotto l'effetto di trascinamento finanziario delle operazioni precedenti. La crescita ulteriore del debito pubblico non consente all'Italia di negoziare in sede UE lo sfondamento del tetto del 3% sul deficit (concesso invece alla Francia). Mentre l'uscita dalla recessione del capitalismo italiano fatica a trasformarsi in reale ripresa (la crescita del 0,1% nel primo trimestre 2015 è dovuta alla crescita degli investimenti fissi lordi, non dei consumi finali; e la crescita degli investimenti a sua volta è quasi interamente dovuta alla FIAT). In questo quadro il governo non riesce a capitalizzare come avrebbe voluto la combinazione fortunata del calo dell'euro, del prezzo del petrolio, degli interessi sul debito pubblico (legato al quantitative easing della BCE). Mentre la crisi greca minaccia ricadute sui titoli pubblici italiani, e nuove sentenze della Corte istituzionale sono in attesa, con le relative incognite, su partite finanziarie consistenti ( blocco degli stipendi pubblici).

RICADUTE E INCOGNITE DEL DOPO VOTO
Il populismo si conferma dunque come delizia e croce del governo Renzi. Nessuna altra forma di governo ha dovuto il proprio successo al richiamo populista quanto il renzismo. Ma proprio per questo il destino del renzismo è affidato alla capacità di alimentarlo. L'intera costruzione del renzismo si fonda sulla raccolta del consenso. Il consenso non è solo il fine della politica di Renzi. E' la leva della sua ambizione bonapartista. E' il mezzo di cui Renzi si serve per scavalcare la relazione coi corpi intermedi della società (sindacati e Confindustria), puntando al diretto rapporto di massa; per riequilibrare i rapporti di forza con altri poteri dello Stato (Magistratura e Presidenza della Repubblica); per polarizzare attorno al proprio progetto un diffuso trasformismo politico negli stessi ambienti parlamentari (fuori e dentro il PD); per ottenere uno spazio negoziale in Europa. Il consenso è insomma la leva centrale del rapporto di forza tra l'aspirante Bonaparte e ogni suo interlocutore o avversario. Ma proprio per questo una crisi di consenso potrebbe investire il renzismo più di ogni altro fenomeno politico. Se cede il consenso cede l'architrave delle fortune del Capo. E un effetto domino rischia in quel caso di rovinargli addosso, con la stessa precipitazione della sua fulminea scalata.
E' presto per valutare se e in che misura l'esito del voto del 31 Maggio avrà effetti sulla vicenda politico parlamentare. I passaggi delicati al Senato su Riforma istituzionale e scuola saranno una prima occasione di verifica. L'impressione è che l'assenza di alternative al renzismo sul piano degli equilibri parlamentari consenta al governo uno spazio di tenuta e di navigazione. Lo stesso esito del voto non prefigura altre soluzioni politiche disponibili a breve per la classe dominante: Confindustria mantiene l'appoggio al governo che più la ignora ma che più ha dato ai padroni; la stampa borghese, con a capo Repubblica, mantiene la scelta di investire su Renzi; lo stesso crollo di Forza Italia, e la crescita parallela di grillismo e salvinismo, rafforzano l'appoggio obbligato a Renzi da parte del capitale finanziario quale unico strumento di governabilità. Né Renzi, presumibilmente, cambierà registro della propria politica e della propria ambizione. Il referendum istituzionale del 2016 resta nel suo disegno l'”appuntamento con la storia”: l'incoronamento plebiscitario del Presidente, la fondazione del nuovo Premierato in pectore.
E tuttavia la battuta d'arresto del 31 Maggio disegna la linea di una prima crepa importante di tale progetto. Lo spazio di una stabilizzazione reazionaria “di regime” attorno a Renzi, che poteva aprirsi dopo la sua vittoria sull'articolo 18, si fa assai più problematico.
Mentre proprio il panorama politico tripartito fra populismi reazionari rivali quale emerge dal voto conferma il punto di fondo: solo l'irruzione sulla scena del movimento operaio può capitalizzare a vantaggio dei lavoratori le difficoltà di Renzi, scomponendo i blocchi populisti e aprendo dal basso uno scenario nuovo. Diversamente quelle stesse difficoltà saranno il trampolino di altre soluzioni reazionarie, contro gli operai e tutti gli sfruttati.

IN QUESTO CONTESTO, IL RISULTATO DEL PCL
In conclusione, qualche notizia sul risultato elettorale del PCL. Ci siamo presentati in un numero limitato di Regioni, a causa delle astruse e antidemocratiche normative elettorali che, proprio per queste elezioni, rendono necessario la raccolta di un numero improponibile di firme (nelle realtà con molte provincie, anche nell’ordine di decine di migliaia). Eravamo presenti quindi solo in Umbria e in Liguria.
In Umbria, eravamo in lista con Casa Rossa di Spoleto, associazione politica locale con cui si è a lungo collaborato in questi anni: abbiamo raccolto lo 0,5% (poco meno che alle politiche del 2013, quando si era ottenuto lo 0,7%), a fronte dell’1,6% di Umbria per un’altra Europa (alternativa al PD) e il 2,6% di Se
In Liguria abbiamo visto una dinamica più articolata. Al voto erano infatti presenti tre diversi candidati di sinistra: Luca Pastorino (che riuniva componenti in uscita del PD con il grosso della sinistra di Rifondazione, Sel e Tsipras), Matteo Piccardi (del PCL) e Antonio Bruno (AltraLiguria, che riuniva componenti di Tsipras e della sinistra ligure, in particolare impegnate nella difesa dell’ambiente e del territorio, critiche con i partiti e la candidatura Pastorino). Matteo Piccardi ha ottenuto lo 0,8%, la lista del PCL lo 0,6% (ma in sole due provincie, Genova e Savona; la lista circoscrizionale era infatti assente ad Imperia e La Spezia). Un buon risultato, quindi, in particolare in confronto a quello delle altre forze: se Pastorino ha raccolto un certo consenso (9%), le liste che lo hanno sostenuto molto meno (4,1% rete a sinistra, 2,5 % la lista Pastorino); l’AltraLiguria di Bruno (lista e candidato) ha raccolto solo lo 0,7%, dietro al PCL nonostante l’appoggio di diverse forze, compresa Sinistra Anticapitalista. Un risultato limitato, quindi, per il numero di realtà in cui siamo stati al voto, oltre che per i consensi ricevuti. Ma un risultato positivo: pur essendo una piccola forza, oramai cancellati dai media (anche da quelli di sinistra), abbiamo dimostrato che è ancora in campo una prospettiva comunista e rivoluzionaria.
L (in alleanza con il PD). Per dare un metro di paragone, nelle scorse elezioni regionali il PCL non si era presentato, la FdS aveva il 6,9% e Sel il 3,4% (entrambi in alleanza con il PD).
PARTITO COMUNISTA DEI LAVORATORI