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LA PRIGIONE DEL CONSENSO


Una fame bulimica di giustizialismo attraversa la società italiana. I manettari si moltiplicano, aiutati nel sostegno alle loro tesi da un certo genere di stampa e di politica. Il tema della giustizia dura e pura, che non guarda in faccia nessuno, è davvero in salute. Porta con sé un valore aggiunto che molto interessa il potere: genera una idea di efficienza, rendendo della dea bendata una immagine incorrotta e monolitica. Una giustizia forte legittima, forse è meglio dire evoca, istituzioni muscolose e integerrime.
Curiosamente, con una piccola indagine, che ciascuno di noi può compiere in proprio, è davvero facile trovare persone disposte a “buttare via la chiave” per somministrare punizioni esemplari verso i propri simili, a prescindere dal reato commesso, dalle condizioni di salute, dalla durezza della carcerazione. Questi tombaroli, sono però gli stessi, che come naturale, se incappati nelle maglie della giustizia, proveranno a ricevere la sanzione più benevola, sfruttando tutte le possibilità previste dalla legge, magari bordeggiando ai limiti. Pagheranno il migliore avvocato nella loro disponibilità, non indispettiranno in qualsiasi modo il giudice, rappresenteranno nel dibattimento la via del pentimento. Non troverete nessun tombarolo pronto a invocare per sé stesso il massimo della pena, la condanna esemplare, il supplizio peggiore fonte di massima espiazione.
Già questo primo aspetto della questione ci pone di fronte a un paradosso bello e buono. Non siamo tutti uguali di fronte alla legge. Per il soggetto deve essere clemenza, per l’altro da noi sia pure rigore. Io sono buono, tu sei il cattivo.
Di certo non è automatico apparire sani nel vigore e puri, al fine di generare consenso. Un consenso che nella abitudine odierna si tende a misurare attraverso indicatori diversi dall'esercizio del diritto elettorale. È una facilitazione per chi esercita il potere politico, dal momento che questi indicatori, corrispondenti allo strumento del sondaggio, all'agire dei social, e al consueto addomesticamento del contesto da parte dell’informazione televisiva, possono essere controllati e indirizzati arbitrariamente e senza efficaci forme di controllo.  
Il meccanismo più utilizzato per serrare le fila dell’opinione pubblica, o se preferite del popolo, o ancora dei singoli cittadini, è quello di costruire un nemico, assoluto e facilmente spendibile, da combattere almeno in apparenza, con rigore. Fino all'emergenza Covid hanno funzionato bene i migranti. Il passato governo giallo-verde ne ha costruito una rappresentazione di guerra che ha retto in maniera egregia e ha generato consenso.
Il nemico ideale deve essere inoffensivo, fragile, non avere appigli nel sistema, esecrabile nella diversità, e possibilmente generare sentimenti di sottinteso razzismo, non dichiarato esplicitamente. Il nemico deve essere diverso, non assimilabile, possibilmente reo di colpe più o meno precisate. Portatore di malattie, di illegalità, immorale, pronto a delinquere. Facile a essere passivo e sfruttato. La logica capitalista rimesta in politica, e al suo linguaggio si adatta bene. 
La pandemia ha interrotto questa comoda situazione. Mancavano i migranti, pur restando gli stilemi. Assenza di sbarchi, un lock down che guarda caso ha interessato anche le organizzazioni criminali, prime sfruttatrici del bisogno di emancipazione delle masse provenienti dai paesi sottosviluppati.
Si era per questo alla ricerca di un nuovo nemico. Quanto meno di un nuovo argomento in grado di accomunare le componenti più qualunquiste dell’opinione pubblica, di tenere in sordina una sinistra sempre più debole nel promuovere idee vicine a quella che dovrebbe essere l’identità ideale.
A cavallo dell’emergenza Covid, il tema della giustizia si è rivelato il luogo più adatto dove pescare. In particolare, per le caratteristiche di fragilità e impotenza dei soggetti che vi appartengono si è rivelato l’universo carcerario. Rigore dunque.
Un sondaggio pubblicato dall’Istat nel giugno 2018, e dedicato alla percezione d’insicurezza dei cittadini, indica che il 39,4% del campione si sente poco sicuro, fino ad arrivare a non uscire di casa. Il dato si articola in successive declinazioni. A fronte, solo il 6,4% del campione ha vissuto la paura concreta di essere sul punto di subire un reato. La differenza è notevole, indicando un terreno fertile dove cercare di cercare consenso. Come dire un pesce su due abbocca.

Ogni tempo ha la sua legge
Ettore Messana nell'aprile del 1941 diventa questore di Lubiana. Fino al maggio del 1942. Il fascismo vuole una Slovenia italianizzata. Messana organizza una rete di campi di concentramento, dove le vittime stimate saranno 19.000. La Commissione delle Nazioni Unite per i crimini di guerra ne chiede l’incriminazione. Nel 1945 anziché il carcere lo aspetta una promozione. Diventa Ispettore generale di pubblica sicurezza in Sicilia. Ulteriori dettagli e atrocità sul personaggio, se interessati, non mancano. 
Che a ogni tempo corrisponda una concezione specifica di giustizia è un fatto che non deve sorprenderci. Così come la soggettività e l’originalità del giudizio del colpevole anche all'interno del medesimo ordinamento. Oggi l’impunità del signor Messana, rappresenterebbe un evento insostenibile. Nel 1945 è stata possibile.
La mutazione dei valori sociali di riferimento fa variare l’entità del castigo. In altri casi, sporadici in termini di numeri, entrano in gioco considerazioni che esulano il postulato della legge. In Italia si parla molto e troppo si è parlato di riforma della giustizia. Il dibattito si concentra sui tempi. Nel 2016 il processo penale durava in media tre anni e nove mesi. In media. Questo è certamente un problema rilevante, che ha pure un risvolto classista. I meno abbienti, i poveri, difficilmente possono sostenere per un tempo così lungo le spese per la loro difesa. Faranno ricorso all'avvocato d’ufficio. In ogni caso la disponibilità economica condiziona la qualità della difesa di un imputato.
La legge è uguale per tutti, ma se possibile scegliete il miglior avvocato che potete permettervi. Per esempio.
L’unica primaria soluzione a questo stato di cose è quella di destinare risorse al meccanismo giudiziario. Informatizzare le procedure, ampliare le garanzie giuridiche, rendere i linguaggi adottati più consoni e comprensibili alle consuetudini odierne, semplificare i meccanismi che regolamentano le attività.
Il tema vero e forte è però un altro: la necessità di una rinnovata valutazione delle pene, legate oggi a una legislazione scaturita all'emergenza istituzionale della lotta alla mafia e al terrorismo. Oggi, 2020, da un punto di vista umanitario, e stante la situazione politica corrente, è ancora sostenibile l’entità di alcune condanne e la modalità della loro esecuzione all'interno dell’istituzione carceraria?
Questo si dimostra essere il vero punctum da discutere. Proprio ricordando il vecchio adagio che vuole la pena intenta a produrre gli effetti più intensi presso coloro che non hanno commesso l’errore. Focault, già nel 1975 centrava il problema. Il detenuto è ormai l’elemento annientato, qualsiasi sia il reato commesso. Seppure risultasse combattivo, irredento, aggressivo, violento, irriducibile, è sconfitto. Non dispone più del suo corpo, e la mente spesso vacilla. Il detenuto non conta più in sé stesso, ma vale il peso mediatico del simbolo che rappresenta. Un file da gestire, che sia oggetto di clemenza, oppure di accanimento. Quello che importa è il messaggio spedito verso l’esterno. La pena rimanda alla paura di subirla. E questo timore riguarda più l’innocente del colpevole. L’innocente porta in sé un doppio timore: della pena ingiusta e dell’errore. Il colpevole sta invece pagando un prezzo che ha messo in conto. È preparato al peggio.
Le leggi sono le condizioni colle quali uomini indipendenti ed isolati si unirono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall'incertezza di conservarla.
Cesare Beccaria, non era uomo di spiccata vocazione democratica. Anzi. Però sull'esercizio della giustizia il suo pensiero utilitarista è ancora attuale.
Parafrasando. Se l’innocente ha doppia paura, la sua libertà è vissuta come un bene incerto e da conservare a qualunque condizione, come accadrebbe in guerra per la propria vita. La migliore condizione di tutela del bene è quella del consenso al più forte. Ovvero appartenenza al sistema, insieme alla speranza o alla presunzione di intangibilità.
Quello che viviamo oggi, rispetto all'amministrazione della giustizia, è il riflesso dell’impotenza della classe politica di generare decisioni autonome, probabilmente impopolari, ma lungimiranti, e portatrici di benefici per l’intera società. Nel dibattito regna poi l’incultura totale, obbligata o voluta non è dato capire, da parte dei diversi soggetti. 
Una guerra inizia e finisce. Vincitori e vinti. Armistizio e resa. Ricostruzione e prosperità. Questi sono i passaggi. Nel nostro paese la giustizia, è l’impressione di chi scrive, continua una guerra ancorata ai fantasmi del passato, che ha già vinto. Non ci si accorge che il nemico è sconfitto, o pesantemente ridimensionato. Si pugna verso i fantasmi, senza cogliere, forse a pieno, le priorità del presente.
S’intende che ci riferiamo a certe modalità di agire illegalmente, intese tali come comuni, mafiose o politiche, che appartengono al passato, e non sono certo assimilabili alle nuove forme di criminalità, che non intendiamo certo sconfitte, e tanto meno emerse nella loro completa geografia.
Con i dovuti distinguo, è forse il momento di attenuare eventuali livori, e iniziare a valutare un diverso atteggiamento dell’istituzione che possa essere assimilabile a iniziative di alleggerimento dei più duri regimi carcerari. Ci riferiamo in particolare all'applicazione del carcere duro, o 41 bis. Una misura emergenziale, che ha come obiettivo principale l’impedimento a mantenere contatti con l’organizzazione criminale di provenienza. Nei casi che citeremo più avanti, tra i vivi, questa necessità sembra essere venuta decisamente meno.
Per quanto la colpa sia stata grave, va sempre ricordato che ogni tempo ha la sua legge. L’opportunità che offre questo periodo storico allo stato è l’oggettivo riconoscimento della sconfitta di ogni manifestazione terroristica, e lo ripetiamo lo sbandamento di alcune fazioni appartenenti alla criminalità organizzata.
Tra i magistrati e i politici c’è chi sostiene che le leggi speciali e il carcere duro abbiano fortemente contribuito al successo dell’istituzione. È probabile. Ma forse ora è tempo di rivedere quei dispositivi, almeno nei termini che riguardano la quotidianità carceraria e l’entità delle condanne. Mostrare pietas verso chi è stato sconfitto, permetterebbe di avviare un percorso di pacificazione e comprensione rispetto a quanto accaduto negli anni di piombo. E soprattutto consentirebbe alla società civile, di aprire un vero dibattito sulle istanze che muovevano in quel periodo, e che sono rimaste sepolte dalla repressione della violenza. Il nostro paese ha una fame enorme di comprendere con chiarezza cosa è accaduto, storicizzando finalmente eventi che rimangono per sempre cronaca, e per questo soggetti a diverse interpretazioni. Anche la storia lo è, ma in misura minore, e maggiore è in essa l’immanenza di una verità condivisa.
Difendere gli indifendibili
Se proviamo a portare alla memoria le figure dei condannati che più frequentemente emergono dall'immaginario collettivo, troviamo Totò Riina e Giuseppe Provenzano, morti in carcere, rispettivamente nel 2017 e nel 2016, dopo lunga detenzione. Meno presente, in tutti i sensi, il fantasma di Matteo Messina Denaro, capomafia latitante dal 1993, e che certamente gode di importanti protezioni. Riaffiora ciclicamente il nome di Raffaele Cutolo. Sono difficili da rappresentare le vicende che riguardano la presunta trattativa Stato-mafia. Nell'ambito politico, alle cronache restano i nomi di Nadia Desdemona Lioce, più sfumati quelli di Roberto Morandi e Marco Mezzasalma, membri nel 2003 delle BR-Pcc. I viventi sono detenuti in regime di 41 bis.
Attenzione, chi scrive tiene a precisare, che i nomi sono citati in riferimento all'entità dell’emersione di una sorta di memoria collettiva. Ovvero, a parte il caso di cronaca presentato nel quotidiano da televisione e carta stampata, quanti di noi ricordano o conoscono con precisione, quei nomi e quelle trame delittuose, che a oggi dobbiamo ritenere essere ben più vive e pericolose?
Curiosamente, ed è giusto riflettere nel merito, nel paese dove la distrazione fiscale è stimata nell'ordine di circa cento miliardi di euro, la più alta d’Europa, se cerchiamo tra gli archivi della cronaca il nome di un grande evasore non lo troviamo. Così come è giusto domandarci quando conosceremo i colpevoli del crollo del Ponte Morandi, che il 14 agosto del 2018 ha causato 43 morti. Ancora è bene ricordare nell'elenco, i quattordici detenuti morti in carcere, durante le rivolte di marzo, generate dalla sospensione dei colloqui. La versione ufficiale parla di decessi causati da intossicazione da overdose. Tutti. Qualche commento? L’elenco, eterogeneo a dire il vero, potrebbe continuare, pur accolto con una certa distrazione da parte della pubblica opinione. Però subito l’attenzione si ravviva quando trattiamo di persone confinate nella loro immagine.
Non unica nel suo genere, la vicenda che ha interessato le sorti di Raffaele Cutolo è stata centrale nei giorni scorsi. La sua richiesta di arresti domiciliari ha sbancato nei talk, generato milioni di post nei social, sollevato le orde degli indignati a gettone di presenza. La ricordiamo brevemente, scivolando nella cronaca. Citiamo Raffaele Cutolo, proprio perché suo malgrado è giudicato un simbolo, e forse troppo facilmente può essere considerato un indifendibile. Di certo è un uomo di settantotto anni, recluso da oltre quaranta. Le sue colpe non si possono negare, il curriculum criminale è di tutto rispetto. Fino al 1982, e al trasferimento al carcere dell’Asinara Cutolo è stato un uomo potente. Ma da quella data inizio il suo declino. Oggi cosa ne resta? Un uomo malato, questo è accertato. Intervistato telefonicamente, l’avvocato Aufiero, il suo legale ne descrive così la condizione:
“… Cutolo viene ricoverato più o meno alle cinque del mattino, con massima urgenza il 18 febbraio. Per un 41 bis essere ricoverato alle cinque del mattino, significa che le condizioni di salute debbono essere particolarmente gravi. Esistono dei protocolli da rispettare, e se un detenuto viene portato in ospedale a quell'ora le sue condizioni sono particolarmente gravi. Riguardo a Cutolo, ne ho la certezza, avendo parlato con alcuni sanitari del carcere, nei giorni successivi. Mi è stato detto che è stato preso per i capelli. Anche se il presidente del Tribunale di Sorveglianza di Bologna, su questa mia affermazione non conveniva. Oltre questo aspetto sa qual è la diagnosi per la quale Cutolo veniva trasferito in ospedale? Glielo dico io: per episodi di incontinenza, e perché si sono verificati ripetuti episodi di caduta dal letto.
Io quando ho letto questo mi sono detto: Cutolo lo hanno portato in ospedale alle cinque del mattino perché era incontinente e cadeva dal letto?  Non mi sembrava possibile, e in effetti quando arriva in ospedale gli viene diagnosticata una polmonite bilaterale. Quando dico che il carcere di Parma non è idoneo a curare un detenuto di settantotto anni, non dico una cretinata. Mi ha riferito la moglie che già prima di Natale aveva questa tosse molto forte, e se lo ricoverano alle cinque del mattino perché bagna il letto, della polmonite evidentemente non si sono proprio accorti. Quando affermo tutto questo non dico una bestialità, ma porto dati oggettivi. Cutolo arriva alle cinque del mattino in gravi condizioni di salute, per me in fin di vita perché così mi è stato riferito. E se non fossero state gravi, non lo avrebbero ricoverato dal 41 bis, Cutolo Raffaele”.
 “… Che Cutolo abbia una condizione di salute incompatibile con il carcere, non lo dico soltanto io. C’è una nota della Direzione sanitaria del carcere del 15 aprile 2020, che anche il Tribunale di Bologna richiama, che afferma come lo stato di salute di Cutolo sia incompatibile con il carcere. L’Asl di Parma, con tre distinte note, dice che il carcere della città non è idoneo per curare una serie di detenuti, tra cui il mio assistito”.
Il Tribunale di Sorveglianza di Bologna ha respinto il ricorso della difesa.
Chi scrive non intende commentare.
La vera questione è che in uno stato di diritto bisogna avere il coraggio di difendere gli indifendibili. Che loro malgrado rimangono simboli. Completamente svuotati del loro potere, ma utili a chi politicamente vuole alimentare vecchie e nuove paure.

Mario De Pasquale