"Se un giorno dovessi morire, vorrei che il mio corpo fosse portato in Africa, mia madre ne sarebbe lieta (…) I militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro. Mi manca molto la mia Africa e anche mia madre. Non c’è bisogno di piangere su di me, la pace sia con la mia anima e che io possa riposare in pace."
Con queste parole, scritte sul muro della sua prigione di Ponte Galeria, Ousmane Sylla, guineano di 22 anni, si è sottratto alla reclusione insensata e crudele inflittagli dallo stato italiano negli ultimi mesi della sua vita. Una reclusione dovuta al suo aver varcato i confini di questo paese, e solamente a questo. Ousmane si trovava in un CPR. Non aveva quindi commesso alcun reato. Era recluso in quanto privo di lavoro, e quindi di permesso di soggiorno.
Con queste parole Ousmane, senza saperlo, risponde anche a Giorgia Meloni e alla sua Africa immaginaria, l'Africa di quel Piano Mattei che dovrebbe tradurre in pratica l'"aiutiamoli a casa loro", cioè l'Africa fantasticata e propagandata a uso e consumo di quella classe capitalista europea che, a suon di prestiti e investimenti, si accinge a spolpare l'osso lanciato dal neocolonialismo dal volto meloniano.
Non c'è nulla di nuovo, in questo ultimo ordinario suicidio di Stato, che lo differenzi dalle decine di altri che sono già avvenuti negli oltre venticinque anni di esistenza degli infami Centri di Permanenza per i Rimpatri, lascito politico del Padre della Patria Giorgio Napolitano, ministro del centrosinistra di Romano Prodi (legge Turco-Napolitano), rimasti in vita con peggioramenti successivi sin dal 1998.
Nulla di nuovo nella modalità in cui il giovane era stato ritenuto idoneo a una permanenza nel CPR. Nulla di nuovo nell'iter burocratico che aveva eliminato ogni possibilità di una sua uscita. Nulla di nuovo nelle proroghe successive, che avevano trasformato la sua detenzione in un incubo che era apparso ai suoi occhi, e che era, senza fine. Nulla di nuovo nella constatazione dell'humus di corruzione del luogo e delle istituzioni coinvolte ("i militari italiani non capiscono nulla a parte il denaro"). Nulla di nuovo neanche nella solitudine e nello strazio con cui la sua vita è giunta a conclusione, fra abbandono, assenza di cure e controllo, ritardo nei soccorsi, impossibilità di prevenzione.
Non poteva esserci nulla di nuovo perché l'inferno della cosiddetta detenzione amministrativa non può che generare solo, e sempre, la morte di chi non riesce a trovare abbastanza forza per poter a quell'inferno sopravvivere.
Ousmane quella forza non l'ha trovata, perché anche di quella forza è stato privato.
Non esiste un caso "CPR di Milano" o "di Potenza", "di Trapani", "di Macomer", "di Gradisca" o "di Roma": esiste solo un caso "CPR" e "detenzione amministrativa". Facciamo nostre le parole della Rete Mai più Lager - No ai CPR.
Ciò significa, per noi, che non può esserci lotta allo strumento CPR, al suo fine e alla sua logica, se non riconoscendo la loro natura stessa di dispositivo atto a selezionare, smistare, ed eventualmente ed eccezionalmente sopprimere, quella particolare merce che è la forza lavoro importata in questo paese. Ciò vuol dire, semplicemente, affrontare la regolamentazione capitalistica del lavoro immigrato, "regolare" o "irregolare," in Italia e in Europa.
La lotta ai CPR nel nome dello stato di diritto equivale a lottare contro il capitalismo nel nome della bontà d'animo (1). Come se non fosse già il testo della legge a prescrivere che nei CPR (e nelle altre strutture simili) «lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità». Come se, una volta che si dovesse mai riuscire ad ottenere (ammesso che ciò sia possibile) il rispetto della dignità umana dei detenuti e la trasformazione dei meccanismi di funzionamento dei CPR, il problema sarebbe risolto.
Al contrario. La lotta ai CPR chiama in causa i lavoratori in quanto tali, immigrati e nati in Italia. Chiama in causa i sindacati. Chiama in causa un programma che unifichi le lotte in difesa delle condizioni di lavoro, del salario, con le lotte per i diritti di chi vive e chi arrivi in Italia.
La lotta ai CPR è una lotta a questo modello di società, una società che innalza muri intorno alle persone mentre li abbatte intorno alle merci e al denaro. La lotta ai CPR è la lotta al capitalismo.
(1) Ci chiediamo che senso abbia, da comunisti, parlare di «assenza di titoli per cui si è presenti nel territorio nazionale» come di una «condizione» da dover affrontare e sanare con non meglio precisati «processi di regolarizzazione». È proprio il concetto di "titolo per poter essere sul territorio nazionale" che va respinto, in quanto cardine della logica criminale e criminogena, oltre che reazionaria in sé, della irregolarizzazione (e clandestinizzazione) dei migranti. Da comunisti e anticapitalisti, la parola d'ordine dovrebbe essere: abbasso le frontiere, no alla divisione dei migranti e alla criminalizzazione, accoglienza di tutti e tutte coloro che cercano migliori condizioni di vita