Post in evidenza

ELEZIONI REGIONALI DELL’EMILIA ROMAGNA: LE NOSTRE INDICAZIONI DI VOTO

  Domenica 17 e lunedì 18 novembre si terranno le elezioni regionali dell’Emilia-Romagna. Il nostro Partito non potrà essere presente a qu...

Cerca nel blog per parole chiave

Non una di meno: al movimento delle donne servono le lavoratrici


Al movimento 'Non una di meno' si prospetta un passaggio importante; dovrà avere il coraggio di assumere la prospettiva del rovesciamento di questa società, di questi rapporti di produzione, di questo sfruttamento domestico e lavorativo. Poiché disperdersi in rivendicazioni parziali e non sradicando alla radice la causa dell’oppressione patriarcale e dello sfruttamento capitalista farà perdere a noi donne e a tutte le soggettività oppresse la possibilità concreta di conoscere un altro mondo.

Nelle giornate del 4-5 febbraio a Bologna si è svolta l’assemblea nazionale autorganizzata di 'Non una di meno' per continuare la scrittura del “piano nazionale femminista contro la violenza” e definire le modalità dello sciopero globale transnazionale dell’8 marzo, cui l’Italia aderisce insieme ad altri quaranta paesi. L’incontro si è svolto su otto tavoli tematici, in cui sono stati individuati gli otto punti da inserire nel documento comune in vista dello sciopero.

Tuttavia le modalità di gestione della discussione e i risultati del tavolo 'Lavoro e welfare' sono apparsi a nostro avviso poco democratici.
Non condividiamo l’atteggiamento prevenuto delle organizzatrici dell’assemblea nei confronti delle donne appartenenti a un partito politico marxista, come se l'organizzarsi politicamente e avere una collocazione nella politica generale non possa appartenere anche alle donne, o come se le rivendicazioni femministe non abbiano legami con le scelte politiche attuate fino ad ora. E soprattutto non condividiamo la delegittimazione della prospettiva che il femminismo non possa integrarsi con un progetto di radicale trasformazione della società, con la prospettiva cioè dell’abbattimento del capitalismo e la fondazione di una società nuova dove non vige il principio dell’oppressione di una classe sull’altra, dell’uomo sulla donna e dell’uomo sull’ambiente.

Siamo rimaste inoltre basite dall’aggressività mostrata verso alcune compagne che ponevano all’attenzione dell’assemblea alcune rivendicazioni importanti per le donne e totalmente assenti nelle proposte delle organizzatrici dell’assemblea, proprio sul tema del lavoro. I rilievi alle lacune rivendicative, emerse anche dal dibattito del giorno 4, sono stati stigmatizzati come strumentali e facenti parte del movimento operaio – quindi “maschili” – e totalmente omessi nel report del giorno dopo. Il report, peraltro, non contiene affatto tutte le posizioni esposte, ma una sintesi (vagamente censoria) che le stesse organizzatrici si sono rifiutate di emendare in assemblea, e che per di più non è stato votato.
Il punto centrale che è emerso dal tavolo è il reddito di cittadinanza - o di autodeterminazione, come viene definito - assieme a un non meglio precisato salario minimo europeo ispirato al modello americano (15 dollari orari), che potrebbero essere un boomerang: un salario minimo su cui il padronato potrebbe attestarsi, livellando al ribasso le paghe generali, soprattutto se la rivendicazione del salario non viene unita alla battaglia per l’abolizione di tutte le leggi sulla precarietà, dai voucher alle infinite varietà di lavoro sommerso e non pagato. Il reddito di cittadinanza, slegato quindi dalla condizione lavorativa, non garantisce autonomia, ma al contrario, dati i rapporti reali tra i sessi e le classi, prospetta maggiori probabilità di rinchiudere le donne in casa vincolandole definitivamente a sostituire i servizi sociali nel lavoro di cura. Dunque non cambierebbe nulla della società che lo eroga, ma anzi potrebbe aggravare lo stato di cose esistenti; non influenza i rapporti sociali di sfruttamento e oppressione delle donne, ma al contrario rischia di istituzionalizzarli.

In secondo piano, o totalmente assenti, sono alcune rivendicazioni che pongono al centro il lavoro e la battaglia dentro ai luoghi di lavoro come terreno effettivo di autodeterminazione delle donne: la parità salariale, l’introduzione di un salario garantito per chi è in cerca di occupazione, il ripristino della scala mobile dei salari e delle pensioni, il rafforzamento degli ammortizzatori sociali, la lotta contro lo smantellamento della legge 104, la lotta alle vergognose forme di schiavismo a cui sono sottoposte alcune categorie di lavoratrici (badanti, braccianti...), la fine degli incentivi statali alle aziende che delocalizzano o chiudono attraverso accordi e tavoli istituzionali. Tutte queste istanze si ricollegano alla generale battaglia per la redistribuzione del lavoro fra tutti e tutte, e la conseguente riduzione dell’orario di lavoro a parità di paga con la prospettiva della socializzazione del lavoro di cura: l’unica vertenza che consenta a tutti, e soprattutto a tutte, di definire in piena libertà la forma delle proprie relazioni sentimentali e sessuali, senza subordinarsi ai vincoli imposti dal bisogno materiale.

Anche le modalità dello sciopero dell’8 marzo, che si vuole si svolga su due piani, quello "produttivo" e quello "riproduttivo", non sono veramente efficaci.
Sul piano produttivo, Non una di meno non ha costruito una vera interlocuzione con i sindacati, producendo la possibilità di organizzare lo sciopero su una piattaforma rivendicativa articolata in termini di difesa dei salari e dei diritti delle lavoratrici. Ci si è fermate alla richiesta di un loro appoggio, ma rifiutandosi essenzialmente di condividerne la gestione, cosa che non ha impedito ai sindacati di base di aderire anche se con modalità non unificanti, mentre ha dato sponda alla maggioranza della CGIL di lasciare il tutto nel vago e di non assumersi la sua responsabilità per la riuscita dello sciopero, con risultati che non saranno di grande impatto, malgrado la posizione favorevole dell’area di opposizione interna “Il sindacato è un’altra cosa” e la convocazione dello sciopero da parte della FLC. Dati questi presupposti, si tratta di uno sciopero che temiamo non darà i frutti che avrebbe potuto, e che non darà un segno di reale contrapposizione all’oppressione nei luoghi di lavoro e al capitalismo. Le donne che lavorano faranno fatica a capire perché scioperare senza rivendicazioni in merito ai loro diritti perduti, o per aumenti salariali e miglioramento delle condizioni di lavoro. Perché questo non le fa avanzare di un passo verso quella indipendenza economica necessaria alla liberazione dalla violenza e dalla schiavitù lavorativa e domestica.
Ancora meno efficace ci sembra lo "sciopero riproduttivo", che riguarda tutte quelle donne estromesse dal mondo della produzione capitalista che svolgono attività domestiche, di cura e assistenzialistiche a titolo gratuito al posto dello Stato, oltre a casalinghe, disoccupate, studentesse ecc. Per aderire ideologicamente allo sciopero, queste donne per un giorno non si dovrebbero occupare della cura di anziani e bambini e lavori domestici. In molti casi sarà difficile che qualcun'altro in famiglia lo faccia al loro posto, a meno che non dispongano di un sostegno maschile “democratico”, perché certamente a farlo non sarà lo Stato borghese, che ha scaricato sulle loro spalle una enorme quantità di lavoro invisibile risparmiando ingenti quantità di denaro.
L’evento simbolico non modifica né mette in discussione i rapporti reali.

Noi crediamo che sia invece necessario costruire una piattaforma politica che rivendichi l’abolizione delle leggi e normative sui servizi sociali che sono attualmente scaricati sulle donne (la sussidiarietà, le leggi regionali sulla cura dei malati e degli anziani, il taglio degli investimenti sulla scuola dell’infanzia...) così come delle controriforme della sanità che tolgono esami e screening per una vasta gamma di patologie femminili, tolgono finanziamenti ai centri antiviolenza e trasferiscono fondi ai consultori confessionali, riducendo i servizi dei consultori pubblici, tra l’altro trasformati, questi ultimi, in ambulatori di servizi di base, dove le donne sono semplicemente “utenti”. Ma vogliamo combattere anche contro i finanziamenti a pioggia di fondi ad asili e scuole paritarie, tutte confessionali, dove si formano bambini e bambine a misura di un mondo bigotto e misogino. È dunque di una società realmente laica che le donne e tutte le soggettività oppresse necessitano, una società liberata dagli interessi della Chiesa cattolica. In questo senso la battaglia per l’emancipazione femminile si inscrive in un processo rivoluzionario di rottura con la morale e con l’organizzazione economica e politica della società attuale, che prospetti come passaggio imprescindibile l’abolizione unilaterale del Concordato fra Vaticano e Stato, l’abolizione di tutti i privilegi fiscali, giuridici, normativi, assicurati alla Chiesa cattolica, a partire dalla truffa dell’8 per mille e dall’insegnamento religioso confessionale nella scuola pubblica.

Al movimento Non una di meno si prospetta dunque un passaggio importante: dovrà avere il coraggio di assumere la prospettiva del rovesciamento di questa società, di questi rapporti di produzione, di questo sfruttamento domestico e lavorativo. Poiché disperdersi in rivendicazioni parziali e non sradicando alla radice la causa dell’oppressione patriarcale e dello sfruttamento capitalista farà perdere a noi donne e a tutte le soggettività oppresse la possibilità concreta di conoscere un altro mondo.
Non una marea, ma mille rivoli che in queste condizioni non potranno mettere veramente in discussione chi oggi vive sullo sfruttamento delle donne.
Partito Comunista dei Lavoratori - Commissione di genere