♠ in agevolazioni fiscali,ArcelorMittal,asili nido,clausole di salvaguardia,Confindustria,Conte,cuneo fiscale,IV,Landini,Legge di stabilità,LeU,M5S,ministeri,PD,superticket sanitario,tagli at 06:36
La legge di stabilità varata dal governo Conte 2 è la cartina di tornasole della natura dell'esecutivo PD-M5S-IV-LeU: un governo di ordinaria manutenzione del capitalismo italiano.
La struttura di fondo della manovra è già di per sé eloquente. Essa ruota attorno alla necessità di disinnescare le famigerate clausole Iva poste a garanzia dei parametri europei, clausole che com'è noto ammontano a 23 miliardi per il 2020. Di cosa si tratta? Si tratta delle garanzie offerte al capitale finanziario, cioè alle banche creditrici (anche italiane), circa la regolarità del debitore, cioè dello Stato. Come è stata coperta questa cifra? Con vari mezzi: ulteriori tagli alle spese dei ministeri (che hanno tutte ricadute sociali dirette o indirette), qualche maggiorazione di imposte indirette (prima presentate come virtuose, come su zuccheri, plastica, auto aziendali, poi assottigliate e spalmate negli anni)... Ma soprattutto con altre due misure: facendo altro deficit, cioè ricorrendo ad altri prestiti sul mercato finanziario per ben 14 miliardi (vendendo titoli alle banche e indebitandosi con queste, con relativi interessi); e offrendo altre garanzie al capitale finanziario per gli anni a venire, cioè altre clausole di salvaguardia per ben 47 miliardi (quarantasette!) per il 2021 e 2022. Come si vede, in una società capitalista in cui si recita la retorica della massima flessibilità quando si tratta di lavoro salariato, vige la massima rigidità quando si tratta di capitale finanziario. I vincoli del debito pubblico, cioè le garanzie offerte alle banche, sono l'alfa e l'omega di ogni manovra. Un principio assoluto e inderogabile. In particolare per un governo retto dal PD, garante diretto e sperimentato delle compatibilità di sistema, col ruolo comprimario del M5S, allo sbando.
Dentro questa cornice strutturale, la legge di stabilità ha manovrato in limiti molto angusti. Ma anche qui con un criterio di classe. Tre miliardi sono stati investiti nella cosiddetta riduzione del cuneo fiscale: circa 30/40 euro di riduzione del prelievo fiscale sulle buste paga, senza che il padronato abbia speso un euro. Un'operazione non solo irrisoria nelle quantità (la metà del bonus Renzi), ma a carico della fiscalità generale, che continua a poggiare, com'è noto, per l'80% su lavoratori e pensionati. In altri termini una partita di giro a tutela dei profitti. Tanto è vero che Confindustria ha salutato con favore l'operazione, utilizzandola oltretutto per delegittimare le rivendicazioni contrattuali in fatto di salario: “già avete avuto dal governo e volete ulteriori aumenti?”. Altri spiccioli sono stati investiti nei bonus, come l'aumento del bonus bebè e la maggiorazione dei bonus per gli asili nido, in un paese in cui gli asili spesso mancano, come in tutto il Sud. A questo si aggiunge l'eliminazione del superticket sanitario, a fronte della continuità delle politiche di definanziamento strutturale della sanità pubblica che dura dal 2008/2009; ogni volta mascherata da un aumento reale in termini assoluti del fondo sanitario nazionale, ma sempre minore dell'incremento della spesa necessaria a fronte dell'invecchiamento della popolazione. Quindi in realtà una riduzione. I dieci miliardi in più nella sanità annunciati dal ministro Speranza sono spalmati, non a caso, negli anni futuri. Una promessa, non una realtà. E una promessa oltretutto dalla credibilità assai dubbia, se si considera la zavorra dei 47 miliardi garantiti al capitale finanziario nel prossimo biennio.
A fronte di queste miserie ingannevoli, e nonostante la ristrettezza dei margini di manovra, la legge di stabilità è riuscita a destinare altri 7 miliardi alle imprese, sotto forma di agevolazioni fiscali e contributive. Un miliardo alla Banca Popolare di Bari, ricapitalizzandola con risorse pubbliche pagate dai lavoratori. Altri miliardi messi in preventivo per interventi pubblici su Ilva ed Alitalia, a carico dei lavoratori, e a vantaggio dei grandi azionisti privati che hanno acquistato o si candidano ad acquistare aziende strategiche e servizi nazionali. L'ennesima socializzazione delle perdite, talvolta a vantaggio di proprietà criminali come nel caso di ArcelorMittal, già indagata per truffa contro lo Stato da due procure della Repubblica, e al prezzo di altre migliaia di esuberi richiesti dai privati come condizione dell'acquisto. Il tutto a vantaggio di un sistema di imprese che nel solo 2019 ha realizzato in Borsa qualcosa come 21 miliardi di dividendi (netti)!
La struttura di fondo della manovra è già di per sé eloquente. Essa ruota attorno alla necessità di disinnescare le famigerate clausole Iva poste a garanzia dei parametri europei, clausole che com'è noto ammontano a 23 miliardi per il 2020. Di cosa si tratta? Si tratta delle garanzie offerte al capitale finanziario, cioè alle banche creditrici (anche italiane), circa la regolarità del debitore, cioè dello Stato. Come è stata coperta questa cifra? Con vari mezzi: ulteriori tagli alle spese dei ministeri (che hanno tutte ricadute sociali dirette o indirette), qualche maggiorazione di imposte indirette (prima presentate come virtuose, come su zuccheri, plastica, auto aziendali, poi assottigliate e spalmate negli anni)... Ma soprattutto con altre due misure: facendo altro deficit, cioè ricorrendo ad altri prestiti sul mercato finanziario per ben 14 miliardi (vendendo titoli alle banche e indebitandosi con queste, con relativi interessi); e offrendo altre garanzie al capitale finanziario per gli anni a venire, cioè altre clausole di salvaguardia per ben 47 miliardi (quarantasette!) per il 2021 e 2022. Come si vede, in una società capitalista in cui si recita la retorica della massima flessibilità quando si tratta di lavoro salariato, vige la massima rigidità quando si tratta di capitale finanziario. I vincoli del debito pubblico, cioè le garanzie offerte alle banche, sono l'alfa e l'omega di ogni manovra. Un principio assoluto e inderogabile. In particolare per un governo retto dal PD, garante diretto e sperimentato delle compatibilità di sistema, col ruolo comprimario del M5S, allo sbando.
Dentro questa cornice strutturale, la legge di stabilità ha manovrato in limiti molto angusti. Ma anche qui con un criterio di classe. Tre miliardi sono stati investiti nella cosiddetta riduzione del cuneo fiscale: circa 30/40 euro di riduzione del prelievo fiscale sulle buste paga, senza che il padronato abbia speso un euro. Un'operazione non solo irrisoria nelle quantità (la metà del bonus Renzi), ma a carico della fiscalità generale, che continua a poggiare, com'è noto, per l'80% su lavoratori e pensionati. In altri termini una partita di giro a tutela dei profitti. Tanto è vero che Confindustria ha salutato con favore l'operazione, utilizzandola oltretutto per delegittimare le rivendicazioni contrattuali in fatto di salario: “già avete avuto dal governo e volete ulteriori aumenti?”. Altri spiccioli sono stati investiti nei bonus, come l'aumento del bonus bebè e la maggiorazione dei bonus per gli asili nido, in un paese in cui gli asili spesso mancano, come in tutto il Sud. A questo si aggiunge l'eliminazione del superticket sanitario, a fronte della continuità delle politiche di definanziamento strutturale della sanità pubblica che dura dal 2008/2009; ogni volta mascherata da un aumento reale in termini assoluti del fondo sanitario nazionale, ma sempre minore dell'incremento della spesa necessaria a fronte dell'invecchiamento della popolazione. Quindi in realtà una riduzione. I dieci miliardi in più nella sanità annunciati dal ministro Speranza sono spalmati, non a caso, negli anni futuri. Una promessa, non una realtà. E una promessa oltretutto dalla credibilità assai dubbia, se si considera la zavorra dei 47 miliardi garantiti al capitale finanziario nel prossimo biennio.
A fronte di queste miserie ingannevoli, e nonostante la ristrettezza dei margini di manovra, la legge di stabilità è riuscita a destinare altri 7 miliardi alle imprese, sotto forma di agevolazioni fiscali e contributive. Un miliardo alla Banca Popolare di Bari, ricapitalizzandola con risorse pubbliche pagate dai lavoratori. Altri miliardi messi in preventivo per interventi pubblici su Ilva ed Alitalia, a carico dei lavoratori, e a vantaggio dei grandi azionisti privati che hanno acquistato o si candidano ad acquistare aziende strategiche e servizi nazionali. L'ennesima socializzazione delle perdite, talvolta a vantaggio di proprietà criminali come nel caso di ArcelorMittal, già indagata per truffa contro lo Stato da due procure della Repubblica, e al prezzo di altre migliaia di esuberi richiesti dai privati come condizione dell'acquisto. Il tutto a vantaggio di un sistema di imprese che nel solo 2019 ha realizzato in Borsa qualcosa come 21 miliardi di dividendi (netti)!
Eppure Confindustria non è soddisfatta. Voleva un grande investimento nelle infrastrutture, soprattutto al Nord. Ma questo investimento non è stato possibile nella camicia di forza delle politiche di bilancio che la stessa Confindustria chiede di rispettare. Sarebbe stato possibile ad una sola condizione: l'eliminazione del reddito di cittadinanza e l'abrogazione immediata di "quota 100". È ciò che proponeva infatti Italia Viva di Renzi, che cerca di scavalcare il PD nell'accreditamento presso Confindustria. Ma il governo PD-M5S era ed è troppo debole politicamente per avventurarsi in una politica d'urto. Da qui la linea di prudente galleggiamento, con l'effetto di scontentare tutti. I lavoratori salariati da un lato, che restano oggi purtroppo in quota maggioritaria Lega, cui sono stati regalati dalle politiche di austerità del PD. E Confindustria dall'altro, che con una mano continua a intascare e con l'altra continua a battere cassa. Perché un comitato d'affari vale l'altro, per i padroni. Da questo si aspettavano di più, al prossimo chiederanno di più. Tanto più se a presiederlo, prima o poi, fosse Salvini. Cioè l'unico vero beneficiario di un governo padronale sostenuto dalla sinistra parlamentare. E da Landini.