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Partigiani vil razza dannata! In morte di Giampaolo Pansa

Giampaolo Pansa, il più celebrato cantore dell'odio antipartigiano, è morto il 12 gennaio scorso, tra il cordoglio generalizzato della stampa mainstream che ha ricordato “il giornalista di razza”, “il bastian contrario” della stampa libera e via osannando. Pansa si presentava come un giornalista “controcorrente” ed è stato omaggiato come un libero pensatore osteggiato dal potere, mentre si è trattato del tipico giornalista di regime. In particolare ha dedicato gli ultimi vent'anni della sua vita a denigrare la Resistenza, facendosi megafono di una pubblicistica neofascista che fino ad allora non trovava sbocco nel pubblico per il suo carattere inconsistente sul piano storiografico e decisamente schierata, parziale e falsa. I vari Giorgio Pisanò e Antonio Serena, le fonti principali di Pansa, dichiaravano infatti apertamente la loro appartenenza all'estrema destra neofascista, tanto che il secondo era stato perfino espulso da Alleanza Nazionale per le sue aperte simpatie per Priebke, il boia delle Fosse ardeatine.

Pansa ha invece utilizzato le sue possibilità di accesso alla grande editoria per spacciare in centinaia di migliaia di copie le menzogne neofasciste sulla guerra partigiana, tese ad equiparare la ribellione di uomini e donne, operai, contadini e intellettuali ai crimini del ventennio fascista e del periodo dell'occupazione nazista in Italia, dopo l'8 settembre 1943, contribuendo così a creare un senso comune anticomunista, in particolare addossando a un presunto piano del PCI di “assalto al potere” la responsabilità degli omicidi commessi nel dopoguerra in Italia.
L'opera di Pansa non è il frutto di una ricerca storica – a questa avevano già provveduto altri e più attrezzati storici – ma il risultato di un lavoro giornalistico ideologico. Pansa non indica le sue fonti, e quando le indica si limitano a meno di una decina di testi dichiaratamente fascisti (i già ricordati Pisanò e Serena, oppure Zelmira Marazio) o qualche romanzo (Marcello Randaccio). Nessuna ricerca, nessuna prova documentaria. L'intento è quello di costruire un antiromanzo della Resistenza, laddove le prove sono sostituite dai “si dice”, “sono convinto”, dove il contesto storico è sostituito dalla personalizzazione e dai sentimenti del boia fascista di turno di fronte alla giustizia partigiana (come nel caso di Giuseppe Solaro) e le convinzioni del giornalista si sostituiscono alla ricostruzione rigorosa, come nel caso dell'idea che il PCI togliattiano (lo stesso, ricordiamo, che ha emanato l'amnistia per migliaia di assassini del regime) volesse liberarsi della borghesia attraverso l'assassinio sistematico dei suoi esponenti per “prendere il potere”.
Naturalmente, chiunque si occupi seriamente di storia del secondo dopoguerra trova quantomeno ridicolo pensare che il PCI staliniano riformista fosse seriamente impegnato in un assalto al potere borghese. Anzi, fu soprattutto il PCI ad agire da pompiere delle istanze di lotta di classe che emergevano dalla lotta antifascista, tanto da reprimere duramente, fino all'assassinio, le tendenze che si opponevano, da sinistra, alla politica collaborazionista di Togliatti e del gruppo dirigente stalinista.
La Resistenza ha costituito un fenomeno contraddittorio e complesso, e non è questo il luogo per analizzarla, ma sicuramente nessuno dei partiti del CLN era interessato ad andare al di là del semplice ripristino delle libertà democratiche in un contesto borghese. La narrazione del PCI come partito rivoluzionario che agiva al soldo di una potenza straniera nemica è funzionale alla demonizzazione del comunismo tout court e, in particolare dopo il crollo dell'URSS, alla ricomposizione di un pensiero unico anticomunista che aspira a espellere dall'orizzonte della lotta politica ogni tentativo di rovesciamento dello stato di cose esistente, come se il regime attuale fosse l'unico possibile.

L’intera operazione di demonizzazione della Resistenza mira a rimuovere dalla storia del Novecento italiano quell’ingombrante biennio della lotta di liberazione, che vide protagoniste le classi subalterne. E molti sperarono che fosse l'inizio del loro riscatto sociale. Per Pansa invece il risultato dell’iniziativa proletaria è, in definitiva, una scia di morti, e ogni volta che le masse proletarie e contadine assumono l’iniziativa politica il risultato è sempre nefasto.
L’omaggio reso ai nazifascisti oggetto di giustizia e vendetta proletaria, la commovente fiducia nella pubblicistica e memorialistica neofascista del dopoguerra, il ricorso a concetti come “fedeltà”, “onore”, “padre di famiglia” ridanno senso in realtà a un sistema di valori che ha condotto, come osservava Santo Peli, «a massacrare civili, a guidare e favorire le stragi tedesche, a torturare, a collaborare alla caccia agli ebrei, a impiccare e esporre i cadaveri dei renitenti». E lo si fa con una cosciente manipolazione degli avvenimenti e dei documenti.
Oggi Pansa non c'è più; restano i suoi epigoni e l'intossicazione ideologica che i suoi scritti hanno lasciato come un ulteriore, ingombrante macigno, per la ricostruzione di un pensiero marxista rivoluzionario.




Per approfondimenti:

Gino Candreva: La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa

Ilenia Rossini: L'uso pubblico delle Resistenza: il “caso Pansa” tra vecchie e nuove polemiche

I siti Wu Ming Foundation e il collettivo Nicoletta Bourbaki hanno trattato ampiamente il caso Pansa.
Gino Candreva